Identità Golose 2015 report. Seconda giornata

10 Feb 2015, 14:49 | a cura di
Le Ande, Il Sud degli Stati Uniti, la medicina, la ricerca e l'empatia. La sintesi della seconda giornata del congresso Identità Golose.

MASSIMO BOTTURA
Il prologo è che gli interventi di Massimo Bottura sono una sintesi di retorica del cibo, di semiotica delle emozioni, di cultura bassa e cultura alta, di passione e utopia che riesce a spostare le masse. Un esempio di public speaching efficacissimo. Perché la sala è gremita all'inverosimile, vibrante, i tweet volano, i tag si moltiplicano. Chiede a tutti di alzarsi per un applauso a Stefano Bonilli, e poi parte con il suo intervento: un mash up di ricordi, libri vecchi, opere d'arte, rifiuti, pane secco, episodi veri o immaginati, ricette, i Velvet Underground, e poi link figurati, slogan d'effetto e una narrazione avvolgente che tutto ingloba e a tutto ricolloca in una posizione mai casuale. Il senso della sua lezione richiama il progetto della cucina del recupero dell'Expo. Tutto parte da lì; da questo ragionamento sullo scarto e sul recupero: del cibo, dei luoghi (il Refettorio Ambrosiano per Expo) e delle persone.

Partono le arringhe alla platea e le ricette. “Recuperare è guadagnare” dice “è un atto di volontà e forza al pari della riconquista, non è qualcosa di degradante di cui vergognarsi”. E aggiunge: “È venuto il momento del coraggio”, per esempio di opporsi a 40 anni di capitalismo ingordo e recuperare una dimensione più vera. E gioca con l'umile ma preziosa zuppa di pane delle nostre tradizioni, la riveste d'oro e, di suggestione in suggestione, arriva al pane perduto francese e al pane guadagnato in Belgio. È su questo cambio di prospettiva che vuole soffermarsi. Un cibo recuperato è un cibo guadagnato. Perché “buttare significa arrendersi” dice “non essere in armonia col mondo”. Contro la cultura dello spreco e a favore di quella dl cibo che è identità e dignità. E via ancora con il recupero dei resti, come lle bucce, quelle di verdure per il brodo e quella di banana per un gelato. Aggiungeremmo, forse, la necessità di smettere di considerare alcune cose scarti e non prodotti o, ancor meglio, risorse. In che momento un prodotto diventa avanzo? Quando una mela diventa buccia da eliminare e polpa da consumare? “Chiediamoci cosa significa per noi il pane” dice e c'è da seguire il suggerimento visto che è proprio il pane uno dei leitmotiv di questo congresso. Ma poi torna ai Velvet Underground e Nico e all'invito scritto nelle prime copie di quel famoso disco dall'ancora più famosa copertina: "peel slowly and see" che ora, di passaggio in passaggio, diventa prima "ascolta bene e poi giudica" e infine un netto "prima fatti una cultura e poi giudica" un invito che però suona anche come "prima di giudicare conquistati il diritto di farlo".
 

DANIEL HUMM E WILL GUIDARA
Condensare l'intervento di Daniel Humm e Will Guidara? Più semplice raccontare l'incanto di un dialogo perfetto tra sala e cucina. C'è scambio, gioco di squadra, c'è valore aggiunto, c'è confronto e, soprattutto, c'è una cura del cliente che da noi è sempre più difficile da trovare, ne abbiamo fatto le spese proprio in questi giorni affollati di congresso. Nel loro intervento affastellano episodi e racconti, sorridono e si rilanciano la palla. La cucina deve produrre cibo delizioso, la sala deve muoversi con grazia. E solo dall'unione di queste due nasce un grande ristorante. “Vogliamo essere la generazione che ha visto morire la sala?” chiede Humm. C'è poco da aggiungere. “Gli chef hanno un grande ego, ma l'ego deve essere messo da parte” ammonisce, perché anche il servizio è un'arte, senza regole scritte. È un discorso aperto al cambiamento continuo e all'improvvisazione che poggia su competenze altissime. “Miles Davis è la nostra ispirazione, reinvenzione continua”. La chiave di volta è l'emozione dei clienti. E la valorizzazione del grande servizio che è una cultura raffinatissima che all'Eleven Madison Park viene celebrata quotidianamente.

NIKO ROMITO
Cosa ci si aspetta dai congressi? Ce lo siamo chiesto noi e se lo è chiesto Niko Romito. Non solo il racconto di un piatto, dice, che dovrebbe essere il mezzo per spiegare un concetto. E non il contrario. Sceglie allora di presentare, semplicemente, il punto di arrivo della ricerca che sta facendo. È un intervento molto tecnico, sulla cottura della carne a bassa pressione, sulle curve di trasformazione e denaturazione delle proteine. Temperatura, permeabilità, pressione sono i parametri con cui lavorare per ottenere la preparazione perfetta, senza che miosina (da cui dipende la consistenza) e mioglobina (per il colore) precipitino. Il lavoro passa per oliocottura e gastrovac, ma non dimentica l'esigenza di consegnare anche le esperienze del cuoco, il suo territorio e la sua identità. Per questo l'indagine sulla bassa cottura, al contrario delle cotture a bassa temperatura che tante cucine hanno contagiato, omologando i piatti e dimenticando di raccontare il percorso di chi li ha elaborati. Parte dalla carne per il ruolo delle proteine nell'organismo umano. Ma da qui si può arrivare dice, chissà dove, anche lavorando su altre materie prime. Mettere in ordine riflessioni, esperienze e ricerche è un'esigenza nata insieme alla scuola. E allora arriva il nuovo libro: 10 lezioni di cucina. Un ragionamento organizzato per macro-concetti. La spiegazione del suo modo di procedere ai fornelli (e fuori) che non è un libro di ricette, ma un libro che definisce un'idea di cucina. La sua.

SEAN BROCK
Milano-Stati Uniti del Sud: 40 minuti. Ci è riuscito Sean Brock del ristorante Husk di Charleston, in Carolina del Sud, con il suo intervento semplice e mirato. Ha condotto con naturalezza e familiarità il pubblico dell'auditorium tra i profumi e le tradizioni di un territorio tanto ricco di prodotti quanto poco conosciuto e battuto dal turismo enogastronomico e non. South Carolina ma anche Virginia (è qui che nasce lo chef) nel suo piatto per raccontare passato, presente e futuro. Dal passato fuoco e cenere per cuocere tuberi e vegetali dimenticati, per celebrare la natura di una cucina povera e un territorio che descrive come paradiso della biodiversità. Realizza una sorta di cupola di cenere che mantiene una temperatura di 180-190 gradi Fahrenheit e che una volta rotta sprigiona un profumo intenso e terroso che ricorda il tartufo nero. Cuoce così il sedano rapa che adagia alla base del piatto. Ancora dal passato, dal passaggio degli spagnoli negli Stati Uniti del Sud, l'altro ingrediente: un prosciutto campagnolo stagionato 4 anni. Lo rosola e aggiunge sorgo, peperoncino e olio di vinaccioli, per un gioco di sapori, grassi e consistenze che racconta il suo lavoro di oggi e perché no, di domani. Arriva dalle montagne l'ennesimo tocco di terroir, dei piccoli fagiolini che secondo tradizione si infilano con ago e filo fino a formare una sorta di collana e poi si fanno seccare sopra al camino. Si ottiene un prodotto dalla consistenza croccante e dal gusto vegetale e affumicato. Completa il piatto con fagiolini e acetosella. A Sean rimane una manciata di minuti e continua il suo viaggio da accompagnatore fiero tra fermentazioni, ricette antiche e nuove. Per molti Charleston non è più soltanto il nome di un ballo degli anni Venti.

JASON ATHERTON
Jason Atherton ha una quarantina d'anni e una ventina di ristoranti creati in quattro anni. Fa parte di quei britannici che non hanno dovuto lottare per vedere riconosciuto il valore della loro cucina perché l'anno sdoganata i loro padri. La sua è una storia di scommesse. Come quando ha lasciato Gordon Ramsey per avventurarsi nell'imprenditoria. “La mia filosofia di cucina? Carne e due verdure” dice, rinnovando il tormentone delle mamme a far capire che ha studiato i suoi menu perché potessero essere graditi ai britannici. “Quando siamo partiti volevamo rendere meno formale l'alta cucina, fare una cucina flessibile per tutti i tipi di clienti che passano per il centro di Londra durante il giorno”. Dunque esperienze gourmet ma condensate, possibilità di mangiare anche solo un piatto, un dolce, un aperitivo. Così la cucina si assume, in qualche modo, il compito dell'ospitalità. Poteva essere rischioso, è stato vincente. “Questa è la nostra cucina” si è detto “non lo facciamo per seguire una tendenza di qualcun altro. Nel caso saranno gli altri a seguirci”. Andato bene il primo ristorante, ha pensato di ripetere l'operazione dando spazio e credito a un altro chef che non solo è impiegato ma anche coinvolto nella società al 10% con la possibilità di aumentare la sua quota. Questa flessibilità nella proposta e questa formula imprenditoriale sono la chiave di volta del piccolo impero: non un franchising ma una serie di ristoranti diversi, ognuno con una propria identità, sempre declinati sui desideri del clienti. “Non volevamo fare una catena”. Singapore, Hong Kong, Shangai, New York e così via. Gli chef che lavorano per lui girano di ristorante in ristorante, vengono seguiti nel loro percorso con un “passaporto Social” e quando sono formati e pronti possono essere i protagonisti di un altro locale, e ognuno ha vita propria. Il concetto del Pollen Street Social avvicina quello di un incubatore di idee, in un sistema che consente ai cuochi di crescere tra esperienze di lavoro, corsi e viaggi di formazione, ed è tradotto anche negli uffici, dove un hub mescola amministrativi e creativi. Come ci riesce? “Il 50% del mio tempo sono uno chef nel ristorante che porta il mio nome, il restante 50% sono un ristoratore”. Capire la differenza tra i due ruoli è fondamentale, oltre che intelligente.

HEINZ BECK
Con Heinz Beck il congresso gastronomico prende le sembianze di un convegno tra grandi luminari della medicina. La lezione dello chef tedesco de La Pergola di Roma prende come spunto, o meglio come pretesto, la mela. Beck se ne serve per preparare il suo piatto (un dessert), per far confrontare il gruppo di scienziati, professori e medici che intervengono sul palco assieme a lui sull'argomento in generale e in particolare soprattutto sulle proprietà benefiche della mela. "La prima cosa che mi interessa è farvi stare bene" sostiene Beck magari sbilanciandosi un po' rispetto a ciò che uno si aspetterebbe da un grande chef. La prima preoccupazione di un cuoco deve essere la cura della salute dei suoi clienti o il diletto del loro palato? E dovendo scegliere quale è la gerarchia?

ENRICO BARTOLINI
Torna da Bangkok e sfida il fuso orario il grande chef toscano del Devero di Cavenago Brianza. Con una semplicità incredibile da maestro d'orchestra navigatissimo Enrico Bartolini dichiara di voler sfidare i tempi del congresso e di tentare di trasformare il palco dell'auditorium di Identità Golose nel pass della sua cucina. Con il medesimo ritmo: concitazione e calma allo stesso tempo. Con un tocco di ironia per un fuoco di fila di decostruzioni e ricostruzioni (lo scampo che diventa mandorla e poi viene immerso nel brodo di scampo; il porcino simulato nello stampo con nocciola e cioccolata e poi ripassato nel brodo di porcini secchi; la melanzana con lo stesso principio) in un gioco costantemente al confine tra realtà, finzione, simulazione, inganno e gioco.

VIRGILIO MARTINEZ
Dalle tavole del Central di Lima Virgilio Martinez (foto in apertura di Alessandro Nazzari) accompagna ogni cliente alla scoperta dell'intero Perù, in un viaggio in verticale che muove dal livello del mare fino ai 4000 mila metri delle Ande, e in mezzo ci sono tutti i paesaggi, i colori e, soprattutto, gli ingredienti che la biodiversità di questo paese offre e che Martinez, attraverso il progetto Mater, si propone di scoprire e far scoprire. Il lavoro di Mater coinvolge professionalità e conoscenze diverse ed è a disposizione di tutti. Nutre il Central e ne è nutrito. È un impegno per la tutela di prodotti, produttori, panorami e identità che assicura anche la varietà al Central perché ogni viaggio porta nuovi prodotti, tutti con una tracciabilità completa che sa dare una fotografia identitaria del luoghi. “Fuori c'è di più” è il motto di Mater. Il deserto, la foresta amazzonica, le montagne delle Ande, l'affaccio sul mare e le colline sono un patrimonio ricchissimo e unico e una riserva di prodotti e storie incredibili. “Siamo un luogo diverso del pianeta” dice Martinez e questa convinzione guida le sue escursioni e la rielaborazione in cucina. Ogni piatto rappresenta un ecosistema gastronomico. Ogni ingrediente ha una filiera certa. Le alghe dei bacini idrici d'alta quota, i tuberi, la quinoa, i cereali, l'argilla commestibile, il cuore delle vacche al pascolo nel cuore dell'Amazzonia, la foglia di coca disidratata, il cuore della palma. “Non abbiamo nessun prodotto di cui ignoriamo l'origine” dice. E in coerenza a questa trasparenza le ricette di Martinez non sono niente di segreto, anzi vengono pubblicate totalmente 'in chiaro' sui siti ufficiali. Teoricamente replicabili da tutti. 

a cura di Sara Bonamini, Antonella De Santis, Massimiliano Tonelli

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