Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Quinta tappa: Caffè Penazzi di Ferrara

18 Ago 2015, 16:00 | a cura di

Torniamo in Emilia Romagna per la quinta tappa della nostra ricerca dell’espresso italiano di qualità. A raccontare la propria storia è Alberto Trabatti della torrefazione Penazzi di Ferrara. 

Siamo a Ferrara, provincia della bassa pianura emiliana che nel corso dei secoli ha ospitato personalità artistiche come Ariosto, Tasso, Mantegna, Copernico, Tiziano. Non solo arte e letteratura ma anche artigianato, la città vanta infatti una tradizione storica di caffè di qualità. A partire dal signor Penazzi, che nel 1926 ha iniziato a tostare i chicchi per ottenere un espresso ad hoc, fino a giungere ad Alberto Trabatti, ex bancario che ha continuato questa tradizione sulla stessa via, rendendola un “marciapiede profumato al caffè”. Questa è la sua storia, un percorso professionale realizzato attraverso la passione, lo studio, il destino e tante tazzine di caffè.

Come nasce l’attività?

Sono un ex bancario, vengo dal mondo dell’economia, fatto di numeri e operazioni. Ma fin da piccolo sono sempre stato affascinato dal caffè: ogni volta che andavo in drogheria con mia madre a comprare il caffè per casa, quel profumo intenso e avvolgente, mi stregava. Tutto è partito dal piacere. Poi ho iniziato a esplorare la mia passione attraverso alcune conoscenze che mi hanno introdotto al mondo del caffè. Nel 2004, trasferitomi da Bologna a Ferrara, ho aperto la mia torrefazione in Piazza della Repubblica. Destino ha voluto che proprio su quella via ci fosse stato dal 1926 il laboratorio di Arrigo Penazzi, noto torrefattore di Ferrara. Quello su cui ha sede la mia attività è un marciapiede che profuma di caffè. Destino, fato, chiamiamolo come vogliamo, ma al caso non credo. Tutto avviene per una ragione. Ho deciso dunque di riscoprire questo marchio antico: Penazzi, un nome che giaceva nell’oblio, apparteneva all’omonimo signore, morto nei primi anni ’50, che aveva ceduto il laboratorio a un ragazzo di bottega ma il marchio, fino a che non sono arrivato io, era stato completamente dimenticato. Io ho semplicemente ripreso il cammino intrapreso da questo signore.

Ha riscoperto e rivalorizzato un’attivitàantica. Come è stato accolto dalla clientela?

Bene, direi. Siamo riusciti a compiere una sorta di piccolo miracolo. Non tanto per la quantità di clienti che abbiamo ma per la loro varietà. Da noi vengono ferraresi di tutte le età e questo fa di noi un luogo adatto a ogni tipo di pubblico. Non siamo un locale d’elite, esclusivo ma ci teniamo ad avere clienti interessati, che hanno voglia di informarsi e conoscere il caffè. Siamo stati comunque ben recepiti, siamo “quelli che fanno il caffè buono a Ferrara”.

Parlando di informazione. Come cercate di avvicinare i clienti a questo prodotto?

A volte organizzo delle degustazioni, degli incontri. In passato ho anche collaborato con Slow Food. Ma principalmente cerco di raccontare e spiegare l’espresso ai clienti. Basta qualche nozione, piccole informazioni di base, consigli, una lezione spicciola mentre chiudo il sacchetto del caffè. Basta veramente poco, una chiacchiera informale con il cliente e il messaggio (quasi sempre) arriva.

A proposito di consigli. Una breve guida per il cliente che vuole fare un buon caffè a casa?

Nelle mie confezioni inserisco sempre un bigliettino con qualche regola da seguire a casa. Comunque in questi anni ho visto commettere veramente tanti errori sia con la moka che con le capsule. Per non parlare della conservazione del caffè!

L’errore più comune?

Quando si prepara la moka, il caffè va sempre livellato imprimendo una pressione leggera, altrimenti la polvere va a finire a cavallo con la guarnizione e si rovinano la moka e il gusto. Quella famosa “montagnetta” che in molti a casa fanno con la polvere di caffè non ci deve essere.

Altri fattori da tenere in considerazione?

L’acqua deve avere un basso residuo di calcare, la fiamma deve essere sempre mantenuta bassa, mai portata al massimo, e il coperchio sempre aperto. Un tema importante che in pochi affrontano è quello della conservazione del caffè. Io lo tengo in frigorifero, chiuso in un barattolo ermetico. È importante non lasciarlo fuori perché il caffè in grani dura 40/45 giorni. La polvere è una frazione di chicco e quindi va mantenuta il più possibile al riparo. Troppo spesso le persone acquistano una quantità eccessiva di caffè che col tempo si rovina. Bisognerebbe acquistarne giusto il necessario, giusto quello che si beve settimanalmente. La preparazione del caffè va curata dalla tostatura del chicco fino alla tazzina. È un processo lungo che va seguito con attenzione: macinare, dosare, pressare e poi viene la scelta della tazzina! Spesso si trascura questo particolare che invece è fondamentale. La tazzina non deve essere né troppo fredda né bollente e soprattutto non deve avere il fondo piatto e largo come purtroppo spesso accade nei bar. Il fondo largo rompe la crema e rovina l’espresso.

Che tipologie di caffè proponete?

Abbiamo 12 monorigine, fra cui uno molto raro, il Jamaica Blue Mountain, che devo tostare su ordinazione. Le miscele invece sono sempre pronte. Ne ho tre e la più venduta è quella del mastro torrefattore, che fornisco di default ai locali. Non produco assolutamente capsule e non utilizzo robusta, ma solo arabica. La robusta ha infatti un sapore sgradevole e astringente, che viene equilibrato da una forte tostatura, la quale però fa diventare il caffè più amaro. Allora tanto vale non utilizzare questa varietà. Varietà che è stata legittimata per ottenere un prodotto a basso costo. In questo settore si fa spesso un discorso di economia che, da una parte, è anche giusto (io stesso vengo dal mondo dei calcoli) ma dall’altra, non dimentichiamoci, che il caffè è un prodotto artigianale, degno di attenzione. Poi si possono acquistare dei buoni caffè anche a un ottimo rapporto qualità prezzo senza incorrere in robusta o in marchi industriali che raccontano la presunta qualità del prodotto attraverso azioni di marketing. Ma chi lo sa cosa c’è veramente dentro quelle confezioni?

Niente robusta e niente capsule, dunque. C’èun motivo particolare per cui non volete le capsule?

In molti mi hanno chiesto di produrre capsule, principalmente perché sono più pratiche, o almeno così si pensa, ma non credo in questo progetto. E poi, ragionando anche sul piano economico, non convengono. Ad esempio, il caffè confezionato da noi costa quasi la metà di una confezione di capsule media. È assurdo che un prodotto industriale costi più di uno artigianale.

Passando al decaffeinato, lo avete?

Ne abbiamo un solo tipo: decaffeinato con l’acqua, dove i chicchi vengono immersi in acqua calda per facilitare l'estrazione della caffeina. In questo caso si utilizza l'acqua tout court, in sostituzione del diclorometano, solvente chimico spesso usato per la decaffeinizzazione.

Il processo di estrazione della caffeina comporta una perdita dell’aroma?

Sì: questo processo allarga i pori del chicco, causando anche la fuoriuscita di oli e la perdita dell’aroma. Ma durante le prime due settimane, quando ancora gli aromi sono intensi, un buon decaffeinato può essere facilmente scambiato per un caffè normale. Durante un corso per professionisti, ho fatto assaggiare alla prima lezione un caffè decaffeinato e nessuno lo ha riconosciuto, hanno dato tutti dato per scontato che fosse un caffè normale. Rimane però il fatto che il decaffeinato ha una vita aromatica più breve. Per questo, secondo me, è comunque preferibile bere meno caffè ma normale, piuttosto che molti decaffeinati al giorno. Come al solito, bisogna premiare la qualità e non la quantità. Poi il caffè arabica, solo per fare un esempio, non contiene neanche il 2% di caffeina.

Parlando invece di export. Dove esportate i vostri prodotti? E da quali paesi selezionate le piantagioni?

Ho una caffetteria a Manchester, una a Bruxelles e a breve ne aprirò una anche in Olanda. Sono tutte caffetterie gestite da italiani e controllate spesso. Voglio vedere personalmente come il mio caffè viene lavorato e servito. Ci tengo che il mio prodotto venga valorizzato come merita. Mi è successo un paio di volte di dover interrompere delle collaborazioni perché ho visto che le materie prime venivano trattate male. Per quanto riguarda le piantagioni, provengono dal Centro e Sud America ma anche dall’India, dal Guatemala e dalle Isole Caraibiche. Ovviamente non può mancare l’Etiopia, patria del caffè.

Come considera il lavoro del caffè fatto all’estero?

Son in molti a pormi questa domanda. Semplicemente, per me, ognuno ha le sue tradizioni e tutte vanno rispettate. Per quanto riguarda le tendenze invece, le mode del momento? Mi siedo e aspetto che passino mentre sorseggio il mio caffè. Amo l’espresso di qualità, amo la tradizione. E alcuni principi vanno difesi con la spada e con il cuore.

Tasto dolente: il caffè nel mondo della ristorazione?

Argomento pessimo. Non ci sono né le attrezzature adatte né responsabili che si occupino di caffetteria. Il risultato? Il caffè viene spesso preparato frettolosamente e in maniera approssimativa. Anche il solo fatto che in unico vassoio vengano portati tanti caffè implica che questi abbiano temperature differenti. Per il ristoratore medio il caffè è un male necessario, senza pensare che la scelta di un prodotto industriale piuttosto che di uno artigianale è una mancanza di professionalità. Mi rendo conto che un ristoratore ha dei costi veramente alti da gestire, molto più elevati di quelli di una torrefazione, ma bisogna anche capire quali sono i veri valori importanti. Mantenere una linea professionale o cercare il guadagno?

 

Caffè Penazzi | Ferrara | Piazza della Repubblica 27/29 | tel. 0532 248641 | www.artlifecaffe.com/#

 

a cura di Michela Becchi

 

Nel prossimo articolo, intervista a Francesco Sanapo di Ditta Artigianale

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