Vittorio Storaro. L’Oscar ai fornelli

9 Nov 2011, 11:46 | a cura di

«Durante le riprese
amo ricreare
l’ambiente familiare.
La tavola
è un modo
per svelare
il carattere
delle persone.
Anche degli attori»

 

 

 

Stavamo chiacchierando a proposito del suo prossimo film quando, parlando dei sopralluoghi che presto avrebbe dovuto fare, disse: «Purtroppo starò via per un po’, speriamo almeno di mangiare bene… una volta si sceglievano le location anche in funzione dei ristoranti che stavano nella zona, oggi un po’ meno. Male che vada a farmi compagnia ci sarà il libro di ricette di mia moglie, quello che mi porto dietro durante ogni lavorazione. Diventa sempre più spesso, di film in film…» In quel momento abbiamo fatto finta di nulla, riproponendoci di tornarci dopo, sull’argomento: era sufficiente aver capito che il tre volte premio Oscar Vittorio Storaro aveva un rapporto privilegiato con la tavola. Abbiamo allora cominciato “dall’antipasto”, chiedendogli cosa rappresentasse per lui la cucina. «Per me la tavola è sinonimo di famiglia. Quando c’è lei la televisione è spenta, mia moglie e io discutiamo con i figli, si sta tutti in serenità. Insomma, la tavola è una specie di territorio franco rispetto alla frenesia del quotidiano». E durante la lavorazione di un film? «Lo stesso –risponde lui – Quando sono via, infatti, cerco di ricreare intorno a me una specie di nucleo familiare. Spesso mi sono portato dietro i miei familiari, ad esempio durante il lunghissimo anno e mezzo in cui abbiamo girato Apocalypse now, ma quando questo non è stato possibile c’era la mia troupe, a farmi da famiglia: i miei elettricisti, i miei macchinisti… e, insieme a loro, le loro cucine. Quando eravamo nelle Filippine, e giravamo appunto Apocalypse now, spesso la sera non c’era tempo di tornare a Manila dove dormivamo, così si restava lì. Io e i miei collaboratori c’eravamo presi un intero villaggio e una casetta l’avevamo appunto adibita a cucina. In Russia, girando Pietro il Grande, abbiamo addirittura trasformato una sartoria in ristorante, mettendoci dentro fornelletti e bombole a gas. Lì il buio arrivava già nel primo pomeriggio, sicché alle 19 – cascasse il mondo! – scattava il momento della cena. Da noi venivano anche gli attori stranieri: la cucina italiana ha sempre avuto il suo fascino, nel mondo del cinema». E che piatti cucinavate? Erano in qualche modo legati al film che stavate girando, alla cucina locale? «Qualche volta sì. Ad esempio quando andammo in Algeria e in Marocco a girare Il te’ nel deserto si cucinava moltissimo il pesce, alla griglia o in padella. Ma i piatti che ci hanno accompagnato trasversalmente, durante tutte le mie lavorazioni, sono state le paste, in particolare le penne all’arrabbiata. Fatte col pomodoro in scatola, d’accordo, ma quello buono, non industriale. Insomma, questa cosa di poter avere la mia troupe e degli spazi solo e soltanto nostri è stata sempre una delle mie condizioni per poter fare un film. Quando non m’hanno accontentato ho detto di no a progetti importanti come Il grande Gatsby e Jesus Christ Superstar. La cosa ha poi sempre coinvolto molti altri settori: è grazie a queste cucine improvvisate che ho scoperto che Mario Cotone, produttore esecutivo, è bravissimo ai fornelli. Lo stesso dicasi per il montatore premio Oscar Pietro Scalia».

 

 

 

E da un punto di vista fotografico, come ha rappresentato il cibo? «Quasi sempre in maniera naturalistica – risponde senza pensarci su – e questo a prescindere dalla storia. Forse la scena più importante è stata la cena con la colonia francese in Apocalypse now redux dove la tavola è un modo per raccontare il decadere di quella civiltà. Una civiltà che aveva creato, impossessandosi del Vietnam, ma pure distrutto: è per questo che ho voluto riprendere i piatti al tramonto». E ne L’ultimo imperatore? Anche lì c’è una scena che… «Sì, è quella in cui l’imperatore deve esibire la potenza della sua nazione al tutore inglese. Lo fa attraverso 100 e più portate di una ricchezza incredibile, anche se poi lui si mangia i pochi e semplici piatti che gli cucinano le madrine. Anche lì ho usato una luce naturale. Più solare, in quel caso». E in Novecento, invece? Lì eravate in Italia… «Già, nei dintorni di Parma, e oltretutto vicino a due grandi trattorie quali Cantarelli e Campanini. Avevamo però uno chef tutto per noi. Ricordo il modo diverso in cui mangiavano Depardieu e De Niro: il primo irruento e passionale, il secondo contenuto, quasi timido. La tavola, in fondo, è un modo per svelare la personalità delle persone. Anche degli attori».

 

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«Mia moglie
è molto brava
a cucinare: da tempo
tengo un diario
con tutte
le sue ricette
che poi provo
a rifare
quando sono
in giro per il mondo»

 

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Torniamo al quaderno di ricette della signora Storaro. «Sì, mia moglie è molto brava in cucina. Non succede sempre così, ad esempio quando vado a Los Angeles a trovare Francis (Coppola, ndr) è sempre lui che prepara la cena, mai la moglie». Ma parliamo delle ricette… «Ah, sì, è che da molti anni ho preso a scrivermi le cose che mia moglie mi prepara a casa, così che poi, quando sono fuori, provo a rifarle nelle cucine improvvisate che raccontavo prima… – si schermisce con pudore e lo incalziamo – Ad esempio gli spaghetti con polipetti e pomodoro Pachino, ma pure il pasticcio di pasta e melanzane, da fare al forno. A volte il capretto…».

Marco Lombardi
giugno 2011

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