Martino Ruggieri, dalla Puglia a Parigi. Una chiacchierata con il finalista italiano al Bocuse d’Or

20 Ott 2017, 11:10 | a cura di

Classe 1986, il percorso di Ruggieri in cucina è partito dalla Puglia e non si è più fermato, prima in grandi alberghi internazionali, poi l’alunnato presso Camanini, la parentesi francese d Robuchon, di nuovo l’Italia e dal 2014, stabilmente, ancora Parigi, al fianco di Yannick Allenò. Ecco come vede l’alta cucina, e il suo futuro, mentre si prepara a rappresentare l’Italia alla finale europea del Bocuse d’Or. 


Dalla cucina ai palcoscenici internazionali

Qual è la qualità che non deve mai far difetto a un giovane chef? Probabilmente l'elasticità. E la capacità di mettersi alla prova, confrontandosi con sfide apparentemente insormontabili. Prove che forgiano quel carattere che insieme al talento può fare la differenza. Così, a neanche 30 anni, di cui una decina trascorsi in grandi cucine, può capitare di ritrovarsi catapultati su palcoscenici internazionali, sotto i riflettori di un concorso prestigioso, la più celebre competizione di alta cucina nel mondo, intitolata al genio di Paul Bocuse. La sfida, nel caso specifico, richiede molta forza di volontà. Cominciando con l'accettare di mettercisi, sotto i riflettori. E per un giovane cuoco cresciuto a testa bassa cucinando, seppur parte di brigate faraoniche e contesti di lavoro pressanti, non è detto che la voglia di competere – fuori da quelle cucine che dopo anni rappresentano la comfort zone – sia in cima alla lista dei desideri. Martino Ruggieri, prima dell'estate scorsa, al Bocuse d'Or neanche pensava. Da una ventina di giorni a questa parte, invece, è il cavallo di razza della scuderia italiana che spera finalmente di ottenere quel riconoscimento mai arrivato a premiare la cucina nazionale.

Yannick Allenò. Il rapporto col maestro, la preparazione alla sfida

Lui, classe 1986, è nato a Martina Franca, e con la Puglia mantiene un legame di sangue. Ma da qualche anno lavora a Parigi, nella cucina di Yannick Allenò, al Pavillon Ledoyen, dov'è adjoint chef di uno dei cuochi più apprezzati della ristorazione francese contemporanea. Proprio Allenò, “che di concorsi nella sua vita ne ha fatti moltissimi”, ha incoraggiato Martino a partecipare, quand'era titubante per il timore di non farcela. Di non essere proprio tagliato per una prova con regole così rigide. Il cerimoniale del Bocuse d'Or, del resto, spaventerebbe anche il cuoco più navigato. “Ma Yannick mi ha spinto a provarci: è importante per la tua formazione, mi ha detto”. Poi ha partecipato attivamente all'elaborazione del concept, il canovaccio necessario per presentarsi pronti alla (prima) prova pratica, quella andata in scena ad Alba lo scorso 1 ottobre: “Era necessario capire cosa volevamo raccontare, sviluppare la nostra idea di cucina condensandola nei due piatti richiesti dal regolamento. Con Yannick, Monica (Caradonna, che lo supporta in questo percorso, ndr), e un creative designer ci siamo messi al lavoro”. Ad agosto il Pavillon ha chiuso per un mese, Martino si è trasferito in Toscana, “lì Allenò ha casa”, per provare e riprovare i suoi piatti, ospite dell'amico e collega Cristoforo Trapani, al Magnolia dell'hotel Byron. Il momento della preparazione “atletica”, infatti, non è da sottovalutare, e conta quanto il sostegno di sponsor e istituzioni, necessario per andare avanti nella gara, a livello internazionale: “Le tre settimane prima di Alba sono trascorse ogni giorno in cucina, dalle 8 del mattino, con i timer puntati per prendere le misure. È importante persino ridurre i passi degli spostamenti da uno spazio all'altro, con una meticolosità che va ben oltre il lavoro in partita in una cucina. Ogni dettaglio è fondamentale per stare dentro le 5 ore e 35 minuti di gara”. Così si procede, alternando l'allenamento: “3 giorni per la prova bianca, e poi 3 giorni di mise en place. Tutto questo, in vista della finale europea, richiederà uno sforzo maggiore, tre mesi di preparazione”.

Il Piatto di carne (Foto di Lido Vannucchi)

Una nuova sfida. All’insegna dell’italianità

E infatti già in questi giorni il team si è riunito per ricominciare a studiare la strategia, e Martino si sdoppia tra lavoro al ristorante e sviluppo dell'idea: “Stiamo lavorando a Parigi, questa è la fase più bella, quella della creazione. Dobbiamo rappresentare l'Italia senza cercare l'ispirazione da altri, proporre una cucina identificabile”. La chiave di volta è la stessa che ha portato alla vittoria italiana, davanti a una giuria di 30 chef, con un'ode alla Puglia che somma cuore, tecnica, modernità di approccio agli ingredienti (due i binari su cui si è mosso Martino, la rappresentazione di un viaggio nel piatto, dal Sud a Milano, alla Francia per la prova vegetale, e il territorio della memoria per costruire Il Trullo, concatenazione di ingredienti e sapori pugliesi in assetto scenografico). Ma Martino, che sin da giovanissimo ha lasciato casa per lavorare in grandi strutture alberghiere – da Cipriani a Villa Fiordaliso, con Riccardo Camanini – cosa pensa della sua terra? “In Puglia, fino al passato recente, è mancato quel sostegno politico che avrebbe potuto far crescere la ristorazione regionale. Ci si è mossi con ritardo, ma oggi molti stanno rientrando dopo esperienze all’estero importanti, portano con sé un nuovo approccio alla cucina, valorizzano le nostre tradizioni. Qualcosa sta cambiando”. E lui, ormai stabilmente a Parigi, pensa mai di tornare? “Non mi piace programmare la mia vita, ma non credo tornerò mai in Puglia. Forse in Italia, un giorno. Ma Parigi, per un giovane chef è il posto ideale: c’è molto fermento, tutto succede molto velocemente”.

Il Trullo (Foto di Lido Vannucchi)

La cucina francese vista con gli occhi di un italiano

Nel racconto dei suoi trascorsi parigini, il ricordo degli attentati è ancora molto vivido, “abbiamo subito un duro colpo, nelle settimane successive siamo arrivati a fare la metà dei coperti. Molti ristoranti internazionali sono praticamente morti. Ma poi ci siamo rialzati”. Dal suo punto di vista privilegiato, però, Martino, che a Parigi ha esordito nella cucina di Robuchon all’Atelier, incoraggiato da uno dei maestri che ricorda con più stima, e affetto - “con Camanini sono stato due anni, fondamentali. Fino a quando mi ha detto chiaramente: devi andare in Francia, lavorare con grandi chef. Il primo impatto è stato violento, lui mi ha molto aiutato” – oggi coglie gli aspetti più disincantati della celebratissima cucina francese. E sa intuirne le reali potenzialità: “Loro si sono resi conto che non sono più i soli a dominare il mondo della cucina. Oggi la tappa obbligata per uno chef non è più la Francia, e non si può vivere solo sull’eredità del passato. Ecco perché Allenò sta reinventando la cucina francese dall’interno”. Che significa, seguendo il filo logico di Martino, riportare la ristorazione d’Oltralpe su un piano competitivo rinnovando un sistema un po’ stanco, preso nella morsa di un movimento spagnolo molto forte: “Quando Allenò ha cominciato a capire che tutti facevano la stessa cosa, si è dato da fare per dire la sua. Oggi lavora molto sulle salse, per esempio, ma in chiave moderna. Lui è uno che rischia molto a livello di pensiero gastronomico, meno sul piano imprenditoriale: la grand table si può replicare solo in Europa, nel resto del mondo, in Oriente, propone ristoranti di impostazione più informale”.

Al Pavillon lavorano in 40, Martino è una pedina fondamentale, e certo al suo carattere, seppur ancora schivo, l’esperienza ha giovato molto, e il ragazzo ha le idee ben chiare su di sé, e su quello che può portare all’Italia nella competizione del Bocuse d’Or: “Per l’Italia avere un candidato con un curriculum importante, sostenuto da uno chef di grande caratura internazionale, è una carta vincente. Ora tocca a me lavorare, e molto, per essere all’altezza. Per la prossima sfida voglio capire nel profondo la cucina italiana, lavorare sulle osterie, per esempio, scavare tra le tavole più autentiche”. E se un giorno dovesse pensare di aprire un ristorante suo? “Sarebbe un ristorante gastronomico, mai un bistrot. Tutto quello che hai fatto nella vita devi saperlo mettere a frutto, questo è stato il mio percorso sin qui, questa è la mia personalità. E non mi piace scegliere la strada più facile”. Ed è un bene, perché darà filo da torcere ai suoi avversari europei. Poi chissà che non si possa sognare la finale mondiale di Lione 2019. 

 

a cura di Livia Montagnoli

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