Langhe-Roero&Monferrato Patrimonio Mondiale dell’Umanità dell'Unesco. E ora?

1 Lug 2014, 08:09 | a cura di
Langhe-Roero e Monferrato sono Patrimonio Mondiale dell’Umanità. I commenti dei Consorzi tra gioia e vincoli Unesco. La proposta? Un codice etico per fregiarsi del riconoscimento anche in etichetta, e una sola parola: responsabilità.

La prima volta per l'Italia. L'ottava per il mondo. Langhe-Roero e Monferrato sono stati riconosciuti Patrimonio Mondiale dell’Umanità, inseriti nella lista Unesco dei territori vitivinicoli. Le altre “sette meraviglie” del vino sono l’isola Pico nelle Azzorre e l’Alto Douro (Portogallo), Tokaj (Ungheria), Saint Èmilion (Francia), Wachau (Austria), Lavaux (Svizzera) e Dubrovnik (Croazia). Doppia soddisfazione se si considera che non ne fanno ancora parte neppure la Borgona o la Champagne. E se non bastasse, la seconda notizia è che, con questo riconoscimento – il 50esimo su 1001 luoghi nel mondo – l'Italia si ritrova a guidare la classifica dei 191 Paesi con più siti nella prestigiosa World Heritage List Unesco. Insomma è proprio l'anno della grande bellezza italiana. Ma partiamo dall'inizio. Anche perché la proclamazione al 38esimo Comitato del Patrimonio Mondiale dell'Unesco di Doha, in Qatar, è stata solo l'ultima tappa di un cammino lungo dieci anni, fatto di bocciature, promozioni con riserva, aggiustamenti e qualche rinuncia. All'inizio solo un'idea, partita dalle cantine storiche sotterranee di Canelli, che poi si è incontrata con un territorio unico nel suo genere - quello delle Langhe - e con un progetto politico ben definito. Infine il primo tentativo nel 2012: “rimandato a settembre”. Fine di un sogno? Niente affatto. Non hanno mai perso la fiducia i Consorzi, i produttori, la Provincia e l'associazione dei Paesaggi Vitivinicoli del Piemonte, nata nel 2009 proprio per promuovere la candidatura. In quell'occasione il Gambero Rosso aveva visto il dossier presentato durante il 36esimo Congresso di San Pietroburgo: una candidatura “troppo frettolosa e da rivedere”, era la valutazione finale. In prima battuta, infatti, l'area candidata a diventare Patrimonio dell'Umanità era di 30 mila ettari suddivisa in nove core zone, ognuna corrispondente a un vino differente: Freisa, Asti spumante, Barbaresco, Barolo, Dolcetto di Dogliani, Grignolino, Barbera, Moscato e Loazzolo. Troppe, secondo il dossier che invitava a concentrarsi maggiormente sulla varietà Nebbiolo e a rivedere anche la candidatura delle zone caratterizzate dai capannoni industriali che gli ispettori Unesco non avevano gradito troppo. La riformulazione della candidatura ha quindi tenuto conto di queste indicazioni. Cos'è cambiato? La zona proposta - che ha poi ottenuto il riconoscimento - è composta da sei aree, la core zone (Langa del Barolo, Castello Grinzane Cavour, colline del Barbaresco, Nizza Monferrato, Canelli, Monferrato degli Infernot) anziché nove, per 29 comuni e 10.789 ettari (20 mila in meno rispetto al primo prospetto). Questo nuovo assetto ha, inoltre, introdotto le cosiddette buffer zone, zone tampone o cuscinetto: 76 mila ettari che contornano l'area principale. Rientrano nell’area Unesco i consorzi di BaroloBarbaresco AlbaLanghee Roero, Barbera d'Asti e Asti Spumante. E rientrano tutte e tre le tre province di Alessandria, Asti e Cuneo. Cosa non scontata due anni fa, quando alcuni produttori di Asti avevano sollevato qualche polemica su una possibile esclusione. Oggi, invece, a rimanere totalmente escluse sono le Colline del Ruchè con la loro Doc Ruchè di Castagnole Monferrato. Ma mancano all'appello anche denominazioni come Roero o Dolcetto.

Ci hanno fatto sudare, ma siamo tornati in Patria vincitori” è il commento di Pietro Ratti, presidente del Consorzio di Tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe e Roero “certo, si è dovuta fare qualche rinuncia in base alle indicazioni Unesco, ma son convinto che il nostro territorio sia un tutt'uno, al di là delle singole denominazioni: una distesa di 50 km di vigneti. Teniamo poi presente che molti produttori producono più di una doc, quindi questa è una festa per tutti, nessuno escluso. L’aspetto che mi inorgoglisce di più è che non abbiamo ricevuto il riconoscimento soltanto per un territorio bello di per sé, come può essere per le Dolomiti o qualunque altro sito naturalistico di rara bellezza, ma lo abbiamo ottenuto per l'interazione tra uomo e paesaggio. Un riconoscimento, quindi, che parla di lavoro e sacrificio”. Ne è la prova il dossier Unesco che come motivazione della proclamazione cita proprio il lavoro sul territorio. Che suona anche come un avvertimento a non abbassare la guardia. “Passata la sbronza da festeggiamenti” continua Ratti “arriva il lavoro più difficile. Aspettiamo, infatti, le linee guida Unesco, ma sappiamo già che sotto certi punti di vista rappresenteranno delle limitazioni: ci saranno dei vincoli sull'allargamento delle aree urbanizzate e di quelle industriali. È chiaro che i siti Unesco devono il più possibile rispettare il paesaggio con cui hanno ottenuto il riconoscimento, cosa che dà ancora più significato al titolo. E d'altronde non abbiamo intenzione di fare la fine di Pompei: tuteleremo i nostri territori come sempre, ma adesso con una maggiore responsabilità. Nell'ambito prettamente vitivinicolo significa che non si potrà alterare la morfologia del territorio, né pensare a cantine ex novo. Gli ampliamenti dovranno essere autorizzati e rispettare regole, materiali e colori indicati”. Insomma il titolo adesso è stato portato a casa, ma com'è giusto che sia, comporterà dei sacrifici sia per i singoli produttori, sia per Comuni e Province. Ogni cinque anni, infatti, andrà stilato un nuovo dossier da presentare all'Unesco che dimostri il lavoro e la tutela del territorio. Ma, intanto, cosa si può ottenere e come si può “spendere” - in termini anche molto pratici - questo riconoscimento? “Sicuramente non lo si potrà utilizzare a fini commerciali” spiega Ratti “l'Unesco in questo è molto rigido. Stavamo pensando di lavorare in modo più intelligente, su un codice etico, vale a dire una sorta di disciplinare con delle regole da rispettare affinché ogni singola cantina possa fregiarsi del riconoscimentoottenuto dal territorio, magari - ma dico magari - con un marchio da apporre in etichetta. Ma bisogna lavorare insieme agli enti preposti, Ministero compreso, e ottenere l'ok dei commissari”. Trovare insomma una chiave non commerciale di utilizzo del marchio, in un ambito – quello del vino - che è prettamente commerciale. Un lavoro tutto da inventare che traccia un po' la strada anche per gli altri che, dopo il Piemonte, ci proveranno. In Italia, ad esempio, sono in lizza per la lista Unesco le Colline di Valdobbiadene, che dovrebbero avere le prime risposte tra due anni. Un consiglio da chi è già dentro? “Iniziare bene e insieme dall'inizio”, conclude Ratti che non si risparmia neanche una piccola autocritica: “Parlando a nome del settore vino, direi che siamo stati inseriti – o comunque ci siamo inseriti - tardi nel progetto. È andata bene, ma non abbiamo vissuto da subito l'importanza della cosa. In questo caso si può dire che il riconoscimento è un regalo da parte della politica che, invece, ha visto dall’inizio le potenzialità della candidatura. I produttori hanno partecipato più che altro preventivamente: un lavoro lungo cento anni, che è servito a costruire questo territorio, insieme alla fatica di chi, anche dopo la guerra, e ancora oggi, con tanti sacrifici non lo ha lasciato”. Dello stesso avviso Filippo Mobrici, neo presidente del Consorzio Tutela Barbera Vini d’Asti e del Monferrato: “È un premio ai contadini, agli uomini e alle donne, che hanno tutelato nei decenni paesaggio e ambiente. Adesso solo una parola: responsabilità”.

Dopo i festeggiamenti del caso, infatti, non resta che rimboccarsi le maniche e pensare al futuro. Un futuro molto vicino che si chiama Expo, che si terrà in Italia e che neanche farlo apposta sarà dedicato all’alimentazione. Tenendo conto che Monferrato, Langhe e Roero coprono il 90 per cento della produzione vinicola del Piemonte, che è complessivamente pari a circa tre milioni di ettolitri di vino l’anno con un fatturato sui 335 milioni di euro. Come sfruttare allora il riconoscimento appena ottenuto e giocarselo nella vetrina internazionale da allestire a Milano? Non ha dubbi la Coldiretti: la risposta è enoturismo. “Il riconoscimento” dice il presidente nazionale dell'associazione Roberto Moncalvo, piemontese doc, “è un successo per il Piemonte e per l’Italia intera alla vigilia del semestre di presidenza dell’Unione e dell’Expo che potrà contribuire alla ripresa di un Paese in cui turismo, cultura e alimentazione rappresentano le leve strategiche determinanti per uscire dalla crisi. Le ricadute positive del riconoscimento potrebbero portare ad una crescita del turismo intorno al 30% nei primi cinque anni sulla base degli effetti sui siti promossi in passato”. “Expo sarà il vero banco di prova” commenta Giorgio Bosticco nella doppia veste di direttore del Consorzio del Moscato d'Asti e presidente dell'ente di promozione piemontese Land of Perfection:“Bisognerà lavorare di gruppo sin da subito per portare i tanti turisti che arriveranno a Milano sui nostri territori. D'altronde ci troviamo a un'ora di distanza dall'esposizione. Intanto, però ci godiamo il momento”. Brindisi, neanche a dirlo, a base di Moscato d'Asti che come ricorda Bosticco “non ha un’alta gradazione alcolica” e quindi - c’è da crederlo - permetterà di prolungare i festeggiamenti ancora a lungo.

a cura di Loredana Sottile

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 26 giugno. Abbonati anche tu se sei interessato ai temi legali, istituzionali, economici attorno al vino. E' gratis, basta cliccare qui.

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