Tre Bicchieri. Parla Luigi Cataldi Madonna dell'azienda Cataldi Madonna

13 Set 2018, 15:13 | a cura di
L'intervista a Luigi Cataldi Madonna che ha ottenuto i Tre Bicchieri per il suo Cerasuolo Piè delle Vigne e punta a valorizzare i vini rosati, a cominciare dal nome: “Chiamiamoli vini rosa”.

E se i filosofi si mettessero a fare vino? Certamente la loro anima razionale (quella che lo stesso Platone vedeva adatta addirittura a governare) e la loro saggezza unita al concreto, sono qualità che ben si applicano al mondo del vino. Ebbene, in Abruzzo, in un piccolo paese di nome Carrufo, c'è un professore universitario di filosofia - “non chiamatemi filosofo: i nomi sono importanti, diamo loro il peso che meritano” - che il vino lo pensa, ripensa, lo fa, gli parla, anche se non lo beve più. Ex alcolista pentito, ex parlamentare di sinistra, lui è (tutt'oggi) Luigi Cataldi Madonna, rappresentante di terza generazione dell'omonima azienda, composta da più di 31 ettari di vitigni autoctoni e tradizionali, quali montepulciano, pecorino e trebbiano, tutti situati a 440 metri di altitudine. Una realtà che svolge gran parte del lavoro in campagna, per garantire l'equilibrio delle viti, senza trascurare le attività in cantina, dove il vino diventa grintoso, sapido e fresco; perfetto portavoce delle tanto amate uve. Uve delle quali Luigi esamina e studia ogni aspetto, anche grazie al suo spirito critico. Con lui abbiamo fatto una piacevole chiacchierata di certo non scevra di divagazioni filosofiche, se così si possono chiamare.

Da una parte il lavoro scelto (il professore di filosofia), dall'altra il lavoro ereditato: come si conciliano l'anima del filosofo e quella del produttore di vino?

Per prima cosa sono professore di filosofia, non filosofo: i nomi sono importanti, diamo loro il peso che meritano! Detto questo, il professore universitario ha parecchio tempo libero e ovviamente è abituato a pensare e ragionare, e questo si riflette sulle cose che fa: dietro ogni vino mio ci sono un concetto e un progetto, non faccio vino perché è richiesto.

A proposito dell'importanza dei nomi, secondo lei è corretto parlare di “filosofia del vino”?

La filosofia ha a che fare con tutto e con niente. Occhio, però, a non abusarne.

Torniamo al tema vino. Quali sono le principali caratteristiche del territorio di Ofena, dove nasce la sua azienda?

Il Forno d’Abruzzo, così viene chiamato il piccolo altopiano a forma di anfiteatro nel cui epicentro si trova Ofena, è molto particolare perché giace sotto il Calderone, l’unico ghiacciaio degli Appennini e il più a sud del nostro emisfero: insomma un forno con annesso frigorifero. Così, l’aria che spira dalla montagna rinfresca le giornate estive come se fosse in azione un gigantesco condizionatore naturale. Un fenomeno naturale che caratterizza anche i nostri vini.

Parliamo anche della viticoltura nell'aquilano: passato, presente e futuro

In passato la provincia dell’Aquila in generale, e la zona di Ofena in particolare, erano le maggiori produttrici di vino della regione fino alla seconda guerra mondiale (come documentano gli annuari vitivinicoli del tempo). Solo in seguito il testimone della quantità è passato alle terre più facilmente coltivabili delle province costiere. Però vedo un futuro roseo anche grazie al cambiamento climatico che sta portando alcune aziende a spostarsi in quelle che erano zone fredde e difficilmente coltivabili.

Il Pecorino ha rappresentato per lei un vino fondamentale

Nel 1990 andai alla Rauscedo per assaggiare in microvinificazione il pecorino, un vitigno riscoperto sette anni prima dall’amico Vincenzo Aquilano a Vittorito, un paese ad appena venti chilometri da Ofena. Il suggerimento di impiantarlo stuzzicava la mia curiosità proprio nel momento in cui cercavo un vitigno abruzzese alternativo al Trebbiano. È stato un amore a prima vista sia per quanto riguarda il vino (un’esplosione di acidità indecifrabile e però subito intrigante), sia per il nome evocativo e peculiare.

Proprio sul nome ha puntato tutto fin dal primo momento

Mi attivai immediatamente per ottenere una IGT che consentisse l’uso del nome in etichetta e così nacque l’IGT “Alto Tirino”, oggi travasata nella IGT “Terre aquilane” (più estesa, ma comunque poco affollata). Con l'annata 1996 uscì, per la prima volta, una bottiglia denominata Pecorino. Per me, in quegli anni, usare il nome Pecorino era anche una forma di protesta contro l’eccessiva enfasi, la forzata nobilitazione di un prodotto, il vino, che stava allontanando le persone. Sono sempre stato un provocatore, nonché un ex della sinistra parlamentare, da sempre convinto che il vino debba avere un ruolo sociale, nonostante io sia anche un ex alcolista pentito!

Lei è stato tra i primi a vinificare il Pecorino in purezza; come le è venuta l'intuizione?

Il Pecorino Frontone deriva esclusivamente dal primo impianto del 1990. Il vigneto è di 8.000 mq con 2000 ceppi. Dopo diverse disavventure agronomiche, dovute in gran parte alla mia ignoranza del vitigno, sono riuscito a imbottigliare l’annata 1996 con 9 g/L di acidità: una caratteristica piacevole per me, ma allora non gradita a molti. Un vino nuovo, spigoloso, quasi alieno in un'epoca in cui andava di moda la rotondità.

Troppo avanti per il periodo storico?

Forse, e l’altalena dei giudizi mi rese insicuro, tanto da cominciare a fare prove diverse in campagna e in cantina: vendemmia tarda, vendemmia tardiva, fermentazione in legno, fermentazione malolattica. Con poco successo. I dubbi sulla scelta del vitigno aumentavano. Nell’annata 2005 insieme all'enologo Lorenzo Landi lavorammo su due ipotesi che poi si sono rivelate valide. Il pecorino è un vitigno aromatico, ma la cui aromaticità è facilmente volatilizzabile. Ed è un vino geneticamente acido. Se non si rispettano queste due caratteristiche il risultato può essere un buon vino, ma non un Pecorino: cercare di attenuarne l’acidità significa snaturarlo.

Il pecorino è marchigiano o abruzzese?

Chissà se prima o poi si troverà una risposta, io nel frattempo sto facendo una ricerca genetica.

Calici con vino rosato

Il Gambero Rosso ha premiato per il secondo anno consecutivo il suo Cerasuolo Piè delle Vigne: come procede la valorizzazione del Cerasuolo e dei rosati italiani in generale?

A dire il vero il Gambero premiò il Piè delle Vigne 2004 come miglior rosato italiano già nel 2006, poi ci è tornato dopo tanti anni. Chiaramente questi riconoscimenti fanno sempre piacere e fa ancora più piacere vedere i colleghi percorrere (bene) la via del rosa.

Il rosa?

Io parlo di vino rosa. Se ci pensate, rosato è il participio passato di un verbo che non esiste.

E rosè?

È un termine anacronistico, lo usavano i nostri nonni quando al posto di “cappotto” o “lampada” dicevano “paltò” e “abat jour”. Perché si parla di bianchi, di rossi e mai di rosa?

Ci ha convinti. Come procede la valorizzazione dei rosa in Italia?

Nonostante si stiano facendo enormi passi avanti - non a caso sono ancora promotore di cinque consorzi italiani che a ridosso di Vinitaly hanno firmato un'intesa sul rosa(to) - l'italiano non ha capito il mondo del rosa. Ho scoperto, leggendo la tesi di laurea di mia figlia (Giulia Cataldi Madonna, ndr) che a fronte del 32% dei francesi che bevono il rosa, solo il 6% di italiani lo apprezzano. Eppure, fino a fine 700, esisteva solo il vino rosa ottenuto semplicemente pigiando le uve a bacca rossa, anche perché il rosso è un vino decisamente più tecnologico.

Secondo lei qual è il motivo?

Uno dei grandi nemici del rosa è la disinformazione. Basta pensare che la tecnica più utilizzata per ottenere il vino rosa in Italia è quella del salasso, ovvero prelevando una certa quantità di mosto dalla vasca di macerazione nella quale si sta preparando un vino rosso.

Dove sta il problema?

La destinazione delle uve è il rosso, invece per fare il rosa bisogna cercare uve più fresche e meno mature. Il rosa, dunque, non può essere trattato come un sottoprodotto del rosso, non può ridursi a essere un rosso scolorito.

Ci ricorda un po' la storia del burro in Italia, trattato come sotto prodotto del formaggio. Dunque la tecnica del salasso sarebbe da bandire del tutto?

No, il salasso è molto utile ma soltanto per il rosso e solo nelle annate piovose perché serve a riequilibrare la proporzione naturale tra polpa e buccia.

Che tecnica usa lei per i suoi rosa?

Per il Cataldino vinifico in bianco ma con le uve rosse. Mentre per il Pièdelle Vigne ho rivisitato una vecchia tecnica abruzzese (che ho esteso anche al Cerasuolo): si procedeva con la vinificazione del montepulciano in bianco e affianco si metteva un mastellone dove si maceravano le bucce con una piccola parte di mosto; dopo 4-5 giorni si aggiungeva questo mosto rosso al mosto bianco in fermentazione. Le proporzioni del taglio erano assolutamente soggettive, così ognuno lo faceva del colore che voleva. Forse è lo spettro dei colori del rosa che mi ha fatto innamorare del vino (rosa).

A proposito dell'importanza dei nomi: la tecnica come si chiama?

Della svacata.

E la sua rivisitazione in che consiste?

La rivisitazione si è basata sulla supposizione che questo taglio dovesse avvenire durante la fermentazione per essere più efficace e per dare un prodotto più interessante. Per tre anni sono state sperimentate tre modalità di taglio: all’inizio, a metà e alla fine, tenendo costante la parte in rosso inoculata che veniva aggiunta a circa 10° di babo. Ognuno dei tre anni l’inoculo della parte rossa a metà della fermentazione della parte bianca è risultata di gran lunga superiore.

Così è nato il Piè delle Vigne. E come l'ha chiamata questa tecnica?

Trattandosi di un’unione dinamica quando le caratteristiche genetiche delle due partite sono mezzo-formate e fanno la seconda fase della formazione insieme, sarebbe opportuno parlare di innesto più che di taglio.

La tecnica dell'innesto che va ad agire sulla genetica del vino. Ci perdonino i lettori per l'insistenza sui nomi: come lo potremmo definire un vino ottenuto con questa tecnica?

Siano clementi i lettori. Qual è il compito che Dio dà ad Adamo? Quello di dare i nomi alle cose, perché se non hanno un nome non esistono. Tornando a noi, direi che è un vino androgino, anche se io preferisco chiamarlo transessuale, un po' come l'Angelo Incarnato di Leonardo da Vinci, anche se io non sono ovviamente da Vinci!

Un vino rosa, dunque, ottenuto sia con vinificazione in bianco che in rosso. Le sue caratteristiche si avvicinano di più a un rosa o a un rosso?

È semplicemente un vino che coinvolge il suo bevitore nella determinazione della sua natura. In questo modo la bevuta cambia senso radicalmente perché chi lo beve non è passivo, ma coopera all’identificazione della sua natura. È un’operazione ermeneutica facile da capire, basta berlo a occhi chiusi: diventa rosa se si ha voglia di rosa e di freschezza, oppure rosso se si ha voglia di tannini e di concentrazione. L’essere trans accontenta tutti.

 

Cataldi Madonna - Ofena (AQ) - località Piano - 0862 954252 - cataldimadonna.com

 

a cura di Annalisa Zordan

 

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