Parla Donato Lanati, l'enologo di vino pulito

5 Nov 2012, 15:48 | a cura di

E' uno di quelli che, nel 2008, ha scoperto che nel Brunello ci mettevano la marmellata: così si chiamavano in codice le partite di Merlot, Syrah e altri vini rossi che un  gruppo di blasonati imprenditori di Montalcino utilizzava per tagliare il Sangiovese (è lo scandalo Brunellopoli finito com'è finito). Uno di q

uelli che, quando gli ispettori dell’Icqrf e del Mipaaf vogliono saperne di più di tecnologie enologiche, aggiornarsi sullo stato della scienza del vino, della chimica applicata e della microbiologia, lo chiamano al telefonino oppure vengono fin qui, tra queste colline del Monferrato, a Enosis Meraviglia, la cascina settecentesca che fu del conte Emanuele Cacherano di Bricherasio, uno di quegli aristocratici piemontesi appassionati di automobili che nel 1899 fondarono la Fabbrica Italiana Automobili Torino – la Fiat – e poi furono liquidati da un certo Giovanni Agnelli.

 

Vengono qui, in questa cascina che sembra un resort a cinque stelle, che Donato Lanati da Voghera, un personaggio che si fa fatica a definire enologo (perché, in realtà, è un intellettuale del vino, un po’ scienziato e un po’ genio del marketing, bravissimo tecnico e bravissimo comunicatore, appassionato e competente) ha trasformato nell’unico centro di ricerca indipendente sul vino esistente in Italia, qualcosa che somiglia ai centri studi dell’Università di Bordeaux e Montpellier, se si vuole avere un’idea.

 

Qui arrivano non solo Giuseppe Serino, il capo degli ispettori del Mipaaf, Emilio Gatto e tutti gli altri dell'Icqrf, ma anche i tecnici e gli enologi di tante grandi aziende, da Santa Margherita dei Marzotto a Genagricola, a Librandi in Calabria, per non dire delle winery della Turchia, della Georgia, di Israele e del Kazachistan.        

 

Perché, a 55 anni, Donato Lanati non è solo il guru riconosciuto del vino italiano, il superconsulente delle autorità pubbliche, indipendente e affidabile, ma anche un winemaker come pochi in circolazione, uno che parte dall’acino e dalle sue molecole, dal territorio e dalla sua ampelografia, per fare vini che il mercato definisce di successo e che lui, invece, chiama semplicemente onesti. E proprio dal concetto di onestà enologica parte questa prima intervista di Donato Lanati al nostro quotidiano Tre Bicchieri.

Che cosa vuol dire fare un vino onesto?
Vuol dire fare un vino autentico, vero, che rispecchia la storia, le caratteristiche, la geologia e il clima del territorio. Io sono contrario ai blend, alle cisterne di vino che attraversano l’Italia dal nord al sud; sono per i vini in purezza, per i vitigni autoctoni, per un tipo di viticoltura che rispecchia e rispetta il terroir.

 

Quindi per una viticoltura di nicchia, tutto il contrario delle logiche economiche della wine industry.
Attenzione, io non sono un passatista o un luddista dell’enologia: amo le piccole aziende, ma lavoro anche per grandi case vinicole che fanno milioni di bottiglie…

 

E che la pagano profumatamente.
Il bilancio della mia Enosis srl è trasparente, 3 milioni di euro circa di fatturato, e anche le mie parcelle di consulente sono note. Ma mi faccia finire il ragionamento.

 

Finisca.
Io dico che nel mercato globale del vino l’Italia ha una sola chance: valorizzare i suoi territori, i suoi vitigni, il suo clima. Mettersi a inseguire i grandi player enologici,  i colossi dello Chardonnay, del Merlot, del Cabernet, per dire i vitigni internazionali, è semplicemente insensato. E c'è una ragione economica nel mio ragionamento.

 

Quale?
Un produttore argentino se vende una bottiglia a 2,5 euro ne guadagna almeno uno, si ripaga gli investimenti e si prende il suo margine. Un produttore italiano per guadagnare un euro, il suo vino deve venderlo a 9 euro. Con ciò voglio dire che, per vincere, dobbiamo spostarci su un altro terreno competitivo.

 

Immagino che ora lei mi parlerà di qualità, di denominazioni, di politiche pubbliche di tutela e di sostegno alla qualità.
Nient’affatto. La qualità, a volte, può essere come il vestito di Arlecchino o, se vuole, come un vestito che va bene per tutte le occasioni. Sicuramente quel produttore piemontese che vende il suo Barolo a 6 euro a bottiglia parla anche lui di qualità.

 

Magari è uno di quelli del Barolo alla glicerina, aggiunta per rendere il vino più morbido, più vellutato.
Per favore, non mi parli del Barolo alla glicerina. Per uno come me che lavora da trent’anni in Piemonte, che ama queste terre, che considera il Monferrato, dove è arrivato ragazzino con mio papà che aveva una grande riserva di caccia, come la sua vera patria enologica, è un fatto insopportabile.

 

E allora di che qualità parliamo?
Io parlo della qualità vera, quella che nasce dall’impegno del produttore in azienda, dei suoi enologi e dei suoi agronomi; io parlo della qualità che nasce  dalla ricchezza del territorio e dalla capacità di trasformare questa ricchezza in valore. Lo sa che l'Italia ha più di 2mila varietali, di cui 350 iscritti al registro nazionale, mentre la Francia  ne ha appena una decina?

 

Se è per questo abbiamo anche un mezzo migliaio tra doc e docg.
Il senatore Paolo Desana, un eroe della Resistenza, un cattolico impegnato nel sociale, che era di queste parti, del Monferrato, si rivolta nella tomba.

 

Che c’entra ora il senatore Desana?
Fu lui a inventare, nel lontano 1963, il sistema delle denominazioni d’origine. Desana era un benemerito dell’enologia. Ma lui pensava ad un sistema che tutelasse i consumatori non i produttori, a un sistema che dicesse la verità perché il buon vino non mente, non può mentire…

 

Per questo lei, qui a Enosis, fa un vino quasi sperimentale con l’uva di 35 vitigni autoctoni, poche migliaia di bottiglie, e l’ha chiamato Pisopo con la silhoutette di Pinocchio in etichetta?
Se è per questo, ho fatto anche sistemare un bel Pinocchio nel salone dove ricevo le aziende. E’ un segnale: voglio dire che col vino non si scherza; col vino si deve essere onesti – ha visto che siamo tornati alla sua prima domanda!- e si deve dire sempre la verità.

 

E il sistema delle doc non dice la verità, non certifica la qualità?
Con centinaia e centinaia di denominazioni di cui spesso non si riesce a capire neanche il senso? Se il buon vino non mente, non deve mentire neanche il produttore. Io immaginerei un sistema basato sull’autocertificazione e con meccanismi di controlli rigidissimi: se sbagli perdi tutto: azienda, onore professionale, tutto!

 

Una visione un po’ romantica, Lanati. Se pensa che alcuni degli imprenditori di Narzole, a pochi chilometri da qui, nel Cuneese, responsabili dello scandalo del vino al metanolo che fece 23 morti nel 1986, condannati da diversi Tribunali, sono ancora attivi sul mercato…
Me lo ricordo benissimo. La vicenda del metanolo non fece altro che rafforzare la mia visione della qualità del vino e mi diede la forza di fare quello che ho fatto: creare Enosis, concentrarmi nel lavoro di ricerca, fare l’enologo al servizio del buon prodotto e non dei cattivi produttori.

 

E’ questo il suo giudizio sugli enologi italiani?
Non è un problema di enologi, tra cui ci sono ottimi professionisti, ma dell’enologia come sistema, come componente essenziale nella ricerca e nella produzione di buoni vini. Ecco il punto: l’enologia italiana non fa ricerca e, del resto, non la fa neanche il sistema delle imprese tranne qualche lodevole eccezione; non ha una visione culturale che vada oltre la committenza aziendale; non dialoga con le altre componenti della produzione, a cominciare dagli agronomi perché, ripeto, il buon vino nasce in vigna non nel manifacturing di cantina.

 

Insomma, c’è un gap culturale nell’enologia italiana.
In Francia gli enologi sono dei superlaureati, con tanto di master e specializzazioni. Da noi, invece, s’è fatta una bella legge nel ‘90 – primo firmatario l’onorevole Renzo Patria, un dc di queste parti, di Alessandria, ma poi l’hanno firmata tutti, dai liberali ai comunisti – per far diventare tutti enologi, diplomati e laureati.

 

E questo ha abbassato il livello generale, anche se non sono mancati i grandi enologi, i geni del vino.
A me viene in mente solo Giacomo Tachis, l’enologo che ha fatto la fortuna della Marchesi Antinori. E poi c’è un altro indicatore, chiamiamolo di bassa performance culturale dell’enologia italiana.

 

E qual è?
Io giro il mondo del vino, dalla Svizzera alla Croazia,  dalla Georgia al Kazakistan, e vedo all’opera, soprattutto nelle nuove aziende, nelle start up del vino, tanti tantissimi enologi francesi. Ma pochi, pochissimi italiani. Una ragione ci sarà.

 

Giuseppe Corsentino

05/11/2012

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