La Cina allunga le mani sull'Italia del vino. Un investimento possibile?

3 Lug 2015, 08:30 | a cura di

L'idea di uno château tutto italiano attira le attenzioni degli investitori orientali. Nel mirino sia i grandi poli vinicoli, sia le medie aziende in zone di prestigio. Ma in quale forma si punta a fare business nel settore?

Italia e Cina si studiano, si annusano, in un vigile corteggiamento in cui ognuna cerca di individuare nell'altra i punti sensibili. E gli imprenditori cinesi da grandi osservatori quali sono, gli occhi sull'Italia, quella vinicola (e non solo), li hanno messi da tempo. Saranno i programmi di promozione e di incoming che si susseguono, sarà l'occasione dell'Expo 2015, sarà il fascino non scalfito del made in Italy. Ci sono molti elementi che lasciano intendere che nel giro di pochi anni le cose non saranno più come prima.

 

Le nuove relazioni Italia-Cina

Due le forze in campo: da un lato, la voglia italiana di aprire varchi decisamente più ampi, rispetto a quelli attuali, in un mercato come la Cina, dipinta fino a pochi anni fa – e in modo imprudente – come l'Eldorado; dall'altro, un interesse crescente dei cinesi verso i territori maggiormente rappresentativi dell'eccellenze nazionali. Mettiamo assieme alcuni tasselli: il dialogo in corso tra Pechino e Ue, che segue un protocollo d'intesa per favorire l'interscambio culturale firmato da Cada e Ceev (le rispettive associazioni degli esportatori) che potrebbe spingere verso la tutela e la protezione di 22 Ig del vino.

Le recenti iniziative di alcune tra le maggiori regioni produttrici, come la Toscana, che ha firmato un accordo di collaborazione con l'associazione Cina-Italia di Shanghai per favorire gli scambi culturali e commerciali tra operatori toscani e cinesi (tra 300 mila e 500 mila i turisti attesi fino a ottobre); la Regione Veneto, che prosegue nel suo progetto VenetoCina con visite di buyer ad aziende agroalimentari, con particolare attenzione a quelle del Prosecco.

Una tela sempre più intrecciata di rapporti economici e politicoistituzionali, come il primo forum agroalimentare italocinese, le iniziative governative come il Business forum italo-cinese, a cui vanno aggiunti i piani promozionali dei maggiori consorzi come Italia del vino e Grandi marchi (con il secondo step del progetto triennale Italia in Cina). Tutto ciò sta contribuendo a rafforzare i legami. È sicuramente vero che questo mercato è oggi soltanto al quindicesimo posto tra le principali destinazioni del nostro export, ma l'Italia vinicola ci sta lavorando. E, allo stesso tempo, dall'altra parte del globo, c'è chi studia le modalità più adatte a inserirsi nel business a marchio made in Italy.

 

Il mercato del vino in Cina

Dopo una crescita media tra 17% e 23% tra 2009-2013, per il mercato cinese del vino si prevede una crescita media annua del 17% fino al 2018. Un recente studio dell'Italian trade agency (ex Ice) sottolinea come questo Paese sia ancora in una fase iniziale, considerando che il vino rappresenta il 4% di tutti gli alcolici consumati. Tre i big player domestici: Changyu, Greatwall e Dynasty con il 50% del mercato. La Francia domina l'import di vino cinese, seguita da Australia e Cile. L'Italia è quinta. Bene il primo trimestre 2015 con +21% a valore e +17,6% a volume.

 

Identikit delle aziende appetibili

Ma qual è l'identikit ideale per un eventuale acquirente? Premessa: è noto che l'Italia del vino non si caratterizzi per grandi concentrazioni, come accade in altri Paesi produttori (si pensi a Distell Group in Sudafrica, Treasury Wine Estates in Australia, Concha y Toro in Cile, Vranken-Pommery in Francia, o alla stessa Yantai Changyu in Cina), ma per un'accentuata frammentazione del tessuto imprenditoriale. L'Italia ha circa 380 mila aziende vinicole, in gran parte di tipo familiare.

L'azienda agricola Liedholm a Cuccaro Monferrato (12 ettari, 90 mila bottiglie) potrebbe passare a un gruppo di imprenditori cinesi. Villa Boemia, che produce Barbera e Grignolino, acquistata nel 1973 da Nils Liedholm (calciatore svedese e allenatore di Milan, Roma e Fiorentina), ora è guidata dal figlio Carlo che, secondo indiscrezioni, avrebbe raggiunto già un'intesa di massima con gli acquirenti, di cui farebbero parte anche italiani. L'obiettivo è aumentare la produzione e puntare al mercato orientale.

 

Le dimensioni

I primi 50 brand italiani rappresentano circa l'82% del fatturato totale del vino. Tra questi anche società che sono diventate, e si stanno affermando, come poli di aggregazione del settore, attraverso campagne di acquisizioni di marchi in tutto lo stivale, che sono in corso. Per citarne alcuni, a titolo d'esempio: Tenute Lunelli, Bertani Domains, Farnese vini, Iverna Holdings (tutte, tra l'altro, in fase di sviluppo). Ed è proprio su gruppi di questa struttura e tipologia che potrebbe cadere l'occhio di investitori di nazionalità cinese.

Con una preferenza per quelli con massa critica vicina ai 40 milioni di euro di fatturato. Pertanto, chi vorrà investire potrebbe farlo non acquisendo l'intero pacchetto, ma entrando nel capitale e condividendo obiettivi e utili attraverso mirati processi di internazionalizzazione, in primis verso Oriente. Non solo poli vinicoli: a essere oggetto d'attenzione potrebbero essere anche quelle aziende di famiglia, a capitale privato, di almeno 15 milioni di fatturato con un minimo di 2 milioni di bottiglie prodotte, che non risolvendo in maniera lineare il tema della successione potrebbero valutare l'ipotesi di partnership con soggetti stranieri, per garantirsi nuovi investimenti e più sicuri sbocchi sull'estero. In tal caso, con la presidenza dell'azienda che resta in mano al ramo di famiglia, si potrebbe avere un'importante iniezione di capitali freschi e una forte spinta sul marketing.

Meno appetibili, invece, in uno scenario come questo, i gruppi cooperativi che – va tuttavia ricordato – rappresentano una parte importante della produzione italiana. "Si tratta di uno scenario che rappresenta un'evoluzione naturale del mercato del vino tra alcuni anni" spiega Lorenzo Tersi, presidente di LT Wine and food advisory, società di consulenza attiva nel settore merger & acquisition "e coloro che in questo momento stanno guardando all'Italia fanno parte di quel nuovo mondo di imprenditori orientali che sono amanti del made in Italy, dello stile italiano, del fashion e del food & wine, che hanno voglia di esplorare nuove opportunità come elemento di diversificazione del proprio business".

 

I territori e le denominazioni

Quali sarebbero allora i territori e le denominazioni più appetibili? "Quelle tradizionali, soprattutto al Centro-Nord" rileva Tersi "come Chianti Classico, Brunello di Montalcino e Prosecco. Mentre al sud piacciono Puglia e Sicilia. È chiaro che anche da Expo verrà un valido contributo di visibilità all'Italia, alle sue Dop, e più in generale alla creazione di valore sia d'immagine sia economico". La porta di accesso all'Italia è aperta. Non si dimentichi che tra i possibili obiettivi ci sono anche marchi del calibro di Sella&Mosca che, dopo Enrico Serafino passata nelle mani di una holding statunitense (non ai cinesi), potrebbero uscire dal portafoglio Campari, concentrata su una nuova strategia che sta privilegiando gli spirits. Non mancano poi piccole e medie cantine toscane e piemontesi, come l'agricola Liedholm vicina alla cessione. "Le aziende più piccole sono, a mio avviso, maggiormente appetibili rispetto ai cosiddetti poli vitivinicoli", afferma Davide Gaeta, docente di marketing vitivinicolo e agroalimentare all'Università di Verona "a patto che siano inserite in zone di eccellenza come Valpolicella, Montalcino o Chianti Classico, dove tra l'altro i cinesi sono presenti dal 2013 (con Casanova - La Ripintura, a Greve in Chianti, acquistata da un imprenditore di Hong Kong; ndr). Pertanto, vedo meglio questo modello. L'Italia ha, infatti, il fascino che le deriva dal suo stile di vita e questo è un elemento che colpisce un imprenditore orientale. Essere proprietario di un'azienda italiana ne accrescerebbe la visibilità internazionale, accreditandolo in un ambiente di stile europeo, che lui guarda con ammirazione e spirito d'emulazione. Se poi l'investimento nel vino è realizzato anche in un territorio collegato all'economia del lusso e della moda il cerchio si chiude".

 

Gli investimenti cinesi all'estero

Gli investimenti cinesi all'estero hanno raggiunto quota 102 miliardi di dollari nel 2014, secondo un preciso piano del governo di Pechino: si punta soprattutto ai settori energia, finanza, tecnologie, ma anche nell'agroalimentare. Nel vino dal 2011 si è acquistato in California (Napa Valley), e ovviamente in Francia, dove circa cento château nella zona di Bordeaux (su un totale di circa 7.500) sono passati di proprietà, con un'accelerata negli ultimi tre anni. E se crescono gli studenti cinesi nella prestigiosa scuola enologica di Digione (Borgogna), anche la meno blasonata Languedoc a fine 2014 ha registrato i primi movimenti. Un interesse giustificato dalla storica presenza di vini francesi (45% delle quote import) nettamente superiore a quella italiana (7% circa), ma anche dal cambiamento dei gusti di un consumatore più acculturato.

Per favorire la cultura del vino, grandi player italiani, come il gruppo Cevico, stanno puntando sul concetto di bere quotidiano: è dei giorni scorsi l'apertura del primo wine bar a Xiamen. Il Consorzio Valpolicella è fino al 4 luglio in missione tra Shanghai e Taipei. Ma anche la Spagna si è mossa, con l'apertura di una scuola enologica a Guangzhou. Come fa notare Denis Pantini, responsabile area agricoltura di Nomisma: "Per capire un mercato, non dobbiamo mai dimenticare i fattori storici e di interscambio culturale. La Francia ha costruito tanto in Cina, così come ha fatto l'Italia negli Stati Uniti. E in una piazza come la Cina, che in questi anni non si può dire sia stata costante sul fronte degli acquisti di vino, si può ipotizzare per l'Italia una crescita nel lungo periodo. L'importante sarà possedere le dimensioni adatte. Inoltre, in un mercato che sta virando sempre più verso vini territoriali con una gamma di tipologie più vasta rispetto al passato, il vino italiano, che può vantare un patrimonio di Dop molto ampio di altri Paesi, potrebbe trovarsi in una posizione di vantaggio".

 

Anche le italiane si muovono

I big del vino italiano si stanno muovendo per trovare nuovi spazi e nuovi marchi. Tra coloro che hanno annunciato a più riprese l'intenzione di espandere i propri affari meritano una citazione il gruppo Italian wine brands (quotato da febbraio 2015 all'Aim di Piazza Affari) che con il suo vice Simone Strocchi ha dichiarato di voler acquisire un marchio da 50 milioni entro l'anno, per salire ai 200 milioni di euro di fatturato. Ma c'è anche Santa Margherita che col suo ad Ettore Nicoletto non ha nascosto di voler puntare a una cantina del Centro-Sud, con investimenti per circa 30 milioni di euro (ipotesi Sella&Mosca?). In campo c'è anche Iverna holdings che dopo il salvataggio di Heres ha annunciato di voler ampliare il portafoglio, puntando a un polo italiano del vino di pregio. Fino agli ultimi annunci di Masi Agricola, da pochi giorni sul mercato borsistico, che potrebbe calare i suoi assi.

 

 

a cura di Gianluca Atzeni

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 2 luglio.

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