Storie

Quando alla corte del Re Vittorio Emanuele si faceva la gavetta in cucina: storia di un grande cuoco napoletano

Pubblichiamo un estratto del libro “Il primo a prender fuoco fu Totò”, che racconta la storia di Peppino Masotola

  • 06 Agosto, 2025

In cucina ci sono nato. Mio padre Gaetano, impiegato negli Uffici di Bocca della Real Casa a Napoli, fin da bambino mi portava nelle cucine di Palazzo Reale. C’era una grande brigata là, una cinquantina di persone fra monsù, aiuto cuochi, pasticceri e panettieri, macellatori, capi della frutteraia e della vasella, ispettori di cucina, capi dell’ispezione, lavapiatti, tutti malpagati per sedici ore di lavoro ogni giorno, e dovevano anche dirsi grati perché due pasti erano garantiti. Così divenni uno stomaco in meno da riempire intorno alla tavola domestica «E chissà – diceva mio padre – che non t’impari un mestiere». Pure mia madre lavorava nelle cucine di Palazzo Reale, a piazza del Plebiscito. Preparava il pane e in tutta Napoli non si trovavano palatoni che reggessero il confronto con i suoi, le sue pizze erano indimenticabili come lo scrocchiare e la fragranza dei pani alla francese.

Era da poco finito il 1900, re Umberto I di Savoia era stato ucciso a Monza da un anarchico. In sua successione era stato incoronato re Vittorio Emanuele III che aveva una parte di cuore napoletano: era nato a Napoli mentre Umberto e Margherita di Savoia erano in visita in città. Alla nascita aveva ricevuto il titolo di Principe di Napoli e i nomi di Vittorio Emanuele Ferdinando, in onore dei nonni. La regina aveva voluto battezzarlo anche Maria e Gennaro, con un omaggio alla Vergine e al martire patrono della città. Crescendo continuò a vivere a Napoli, parlava il dialetto come un vero napoletano e l’alternava al piemontese spiazzando la servitù. Frequentò la Reale Accademia Militare della Nunziatella, ma con maggior vigore partecipò alla vivace vita notturna partenopea collezionando diverse amanti, nobildonne, attrici e ballerine. ’O Rre amava la cucina napoletana quanto quella piemontese e, per tener salda la gerarchia degli addetti alle cucine del Palazzo Reale, fece venire un suo cuoco direttamente da quelle del Quirinale. Questo chef de cuisine si chiamava Amedeo Pettini e, a dispetto del suo cognome, nessun pettine poteva rievocare i suoi capelli diradati, mentre i baffi folti e ben curati cominciavano a sbiancare. Di statura media, con un imperio che sembrava far arrivare i suoi ordini dall’alto d’un piedistallo, era capace di durezza quando doveva imporre la disciplina ai tanti che lavoravano sotto di lui. Il signor Pettini mi prese a benvolere e, con la sua protezione, non dovetti mai subire le angherie dei più vecchi, tipiche di ogni cucina dove il nonnismo era pari a quello di una caserma.

Peppino Masotola, Tripoli nel ’42

Avevo dodici anni quando sono entrato in quell’ambiente pieno di fumi, vapori, rumori di pentole e padelle, tante persone all’opera da non riuscire a contarle, lunghe parannanze, toque da cuoco alte e inamidate, bustine, berrette e fazzoletti, ordini secchi, come ne avrei sentiti anni dopo nell’esercito, a sovrastare ogni rumore. Ci misi tempo per ambientarmi, ma in pochi mesi memorizzai la “geografia” di quelle cucine dalle alte volte, al punto che avrei potuto muovermi anche a occhi chiusi.

Ogni volta che entravo m’incantavo a guardare il pavimento ricoperto di maioliche che ripetevano all’infinito, in quegli enormi spazi, il motivo di una stella a quattro punte che toccava gli angoli di ogni piastrella con al centro il simbolo del sole. Mi sembrava di osservare il firmamento a testa in giù. Mi raccontarono che erano maioliche di argilla d’Ischia della famosa Manifattura Giustiniani, ispirate ai mosaici dei pavimenti pompeiani. Tutt’intorno alti scaffali e un’infinita batteria di rami lustrati ogni giorno con sale e aceto dai lavapiatti. Sotto ci stavano i piani per la preparazione delle pietanze, uno massiccio in tasselli di acacia per la lavorazione delle carni, così ampio da poterci adagiare mezzo bue.

A fianco, due ceppi erano stati ricavati da un enorme tronco di castagno. Un’intera parete era occupata dalla cappa di un camino dove poteva starci in piedi un uomo, con un poderoso girarrosto mosso da un meccanismo a orologeria che, quando stava per terminare l’autonomia, faceva suonare una campanella e subito accorreva un cuciniere a dar la carica alla molla girando una grande manovella. Sotto gli spiedi c’era una larga leccarda in rame per la raccolta del grasso fuso che veniva spennellato sulle carni sfrigolanti. A fianco del camino c’erano i potager, braceri in muratura con sui quali venivano tenuti in caldo i tegami.

Secondo il signor Pettini quei fornelletti si usavano già al tempo dei romani. Ma il vero cuore della cucina era un’enorme stufa a carbone collocata al centro, fasciata con bande di ottone e grandi sportelli per i forni. Il piano in ghisa veniva lustrato ogni sera al termine del servizio con lana d’acciaio. Del fuoco se ne occupava un cuciniere fochista che ogni mattina alle 4 andava a estrarre la cenere, che poi sarebbe servita alle lavandaie di palazzo per sbiancare il bucato, ravvivando la brace con una prima carica di carbone. Di fianco alla stufa c’era il secchiaio, scavato in un unico, enorme blocco in marmo, e quattro vasche in lamiera zincata coi rubinetti in ottone a più becchi. Se chiudo gli occhi rivedo ogni dettaglio, come se fossi ancora lì, nella mia scuola di cucina e di vita.

Peppino Masotola, Napoli nel 1943

Cominciai così: la mattina in classe e il pomeriggio a dare una mano per portare a casa qualche centesimo lavando le pentole, lucidando i rami e tutte le caccavelle che erano appese alle pareti della cucina, sotto gli occhi di mammà e papà. Da lì ho cominciato a scalare la gerarchia della brigata, da lavapiatti fino a primo cuoco, anni dopo. Grazie a quelle rigide regole non ho faticato in seguito ad adattarmi alla disciplina militare in guerra. Le cucine reali erano al piano ammezzato, sotto il Salone d’Ercole.

Nessuno della brigata di cucina aveva mai potuto vedere le sale del palazzo, io ascoltavo incantato il racconto dei camerieri e dei valletti che scendevano correndo per prelevare le portate e mi son tirato dietro quella curiosità per oltre cinquant’anni. Son tornato a visitare il Palazzo Reale nei primi anni Cinquanta, assieme ai miei nipoti, questa volta dall’ingresso principale, e ho capito che quelle d’allora non erano favole. Noi conoscevamo solo le cucine dove entravamo da una porta di servizio controllata da due guardie che ci ispezionavano all’uscita perché non nascondessimo cose rubate dalle dispense.

Copertina libro Damini

Imparai a maneggiare i coltelli, anche nelle dispute con gli altri cucinieri, più abili di mano che di parola. Ero curioso e attento a seguire ogni passaggio nelle preparazioni. Mi spostavo nei punti strategici della cucina come se fossi invisibile, la mia altezza m’aiutava a passare inosservato. Non intralciavo mai i movimenti di quegli uomini sudati che si lanciavano ordini in un napoletano stretto che al capo cuoco Pettini al principio doveva sembrare una lingua di altri mondi.

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