I volti di Gourmet. Valerio Massimo Visintin

25 Ott 2016, 09:00 | a cura di

Comincia a occuparsi di critica gastronomica nel '90 per Bar Giornale. E prosegue con una infinita collana di recensioni per il Corriere della Sera e per altre testate. È il critico mascherato, lo Zorro della gastronomia, chiamato da alcuni (con ammirazione o spregio?) il vate dei Navigli. È Valerio Massimo Visintin. Che a Gourmet Expoforum parlerà di critica gastronomica.  

Prenotati a La comunicazione enogastronomica: dove finisce la critica e dove inizia il giornalismo domenica 13 novembre dalle 10.00 alle 14.00 

Valerio Massimo Visintin

Nome? Valerio Massimo Visintin. Professione? Cronista gastronomico. Ovvero? “Significa che le mie giornate entrano ed escono dai ristoranti, senza sosta, come se si fossero incastrate in una porta girevole”. Comincia a occuparsi di questa materia nel 1990 per Bar Giornale. E prosegue con una infinita collana di recensioni per il Corriere della Sera e per altre testate. Negli ultimi 10 anni di attività, ha visitato e recensito più di 2500 ristoranti. Nel frattempo, ha scritto due libri di narrativa: “Il mestiere del padre” (2011) e “L’ombra del cuoco” (2008). Ai quali si aggiungono due pubblicazioni sul mondo della ristorazione: “Osti sull’orlo di una crisi di nervi” (2013) e “Cuochi sull’orlo di una crisi di nervi” (2016). Da questi testi è nato anche un lavoro teatrale. Visita i ristoranti soltanto in incognito, “strumento essenziale per valutarli nelle medesime condizioni di un qualsiasi cliente”. Chef, camerieri e osti non conoscono il suo volto, perciò, nelle occasioni pubbliche, si veste da uomo nero. Ma in fin dei conti ammette: “Questa mascherata è un nodo al fazzoletto per ricordarmi sempre di non prendermi troppo sul serio”. L'abbiamo intervistato.

Cosa significa fare critica gastronomica oggi?

È un mestiere che ha contorni un po' sfumati, sarà perché alle spalle non c'è una storia, sarà perché non vi è un retroterra culturale. Fatto sta che non è un settore protetto.

In che senso protetto?

Faccio un esempio: la critica cinematografica è un mestiere protetto, in questo campo c'è una netta differenza tra chi fa critica e chi intervista gli attori.

Ritorniamo alla domanda iniziale: cosa significa fare critica gastronomica oggi?

Che cosa significhi in assoluto non lo so. Per me significa andare al ristorante e fare una fotografia il più possibile oggettiva per informare i lettori. Purtroppo è una professione che non è mai veramente nata perché è sempre stata mescolata ad altre cose.

Entriamo nel merito.

Molto spesso i critici non raccontano un ristorante nel complesso ma si concentrano solo sullo chef. Una volta Bottura, durante un esercizio di falsa modestia, ha detto una cosa sensata: “La sala incide per il 52%”.

Ci sono critici che fanno realmente i critici in Italia?

Non ne conosco nessuno. Il mio punto di riferimento è l'Edoardo Raspelli degli inizi, quando poteva fare il suo lavoro al meglio perché non lo conosceva ancora nessuno.

E perché il Corriere lo foraggiava.

Giusto. Oggi c'è una mancanza di coraggio da parte degli editori che non vogliono investire, anche perché il nostro lavora costa molto di più di un critico cinematografico. Eppure la verginità di un giudizio è data dalla correttezza del compenso che viene elargito.

È solo una questione economica?

Non credo, manca in primis la cultura. È un settore, forse l'unico, dove spesso i critici fanno un mestiere non compatibile con la critica. Dove c'è una palesata ambiguità tra chi scrive e chi promuove, tra chi critica e chi fa consulenza. Dove i parametri di giudizio sono spesso la convenienza e l'amicizia.

Un ufficio stampa non può fare critica gastronomica dunque. Nemmeno di altri ristoranti (evitando così l'evidente conflitto di interessi)?

È un settore dove gli chef si muovono costantemente e di certo non è un mondo sconfinato, quindi prima o poi sulla strada incontri te stesso. Poi lo trovo deontologicamente scorretto.

Edoardo Raspelli è il tuo punto di riferimento. Perché?

Raspelli ha inventato il lavoro per come lo concepisco io, dove ci sono tre semplici regole: andare al ristorante in incognito, scrivere la verità e scriverla in forma corretta (cosa non scontata ai tempi del web). Lui ha segnato la strada che poi non ha percorso nessuno.

Se uno prenota a nome falso?

Una volta riconosciuti, il giudizio viene comunque influenzato, anche se si è in buona fede. Una volta ero dallo chef Andrea Berton (quando stava ancora da Trussardi alla Scala) e ancora mi dovevano portare il menu, a un certo punto è entrato Enzo Vizzari in dolce compagnia e i camerieri li hanno circondati. Sono certo che i nostri ricordi della medesima serata non combacino. Qualcosa del genere è successa con Paolo Marchi da Dry.

Un comportamento del genere potrebbe essere valutato negativamente anche da parte di chi ha ricevuto le attenzioni. No?

Sì ma ciò non toglie che il giudizio non sarà mai oggettivo, e la recensione perde così la sua funzione, quella di fare una fotografia del locale, per dire ai lettori se vale la pena oppure no. Senza contare che la presenza dei critici conosciuti mette a repentaglio l'intero servizio. Leonardo Lucarelli nel suo libro “Carne trita” racconta la sua storia e le vicende dietro le quinte, compreso il clima che si respira in cucina all'arrivo di un critico, arrivo che sconvolge letteralmente la routine di un ristorante.

La soluzione è girare mascherati?

Io ho estremizzato la questione, ma spero di essere un esempio positivo. Uno che probabilmente ha trovato la giusta via di mezzo è Sergio Lovrinovich, il curatore della Michelin Italia, che fa il critico ma sta defilato. Idealmente è una condotta virtuosa.

Sei mascherato ma ti presti volentieri al palcoscenico di settore, non è una contraddizione?

No, semplicemente difendo la mia identità nascondendo il mio faccione per andare tranquillamente al ristorante.

Veniamo agli chef. C'è qualcuno che non vive la pressione dei critici?

C'è qualcuno più coraggioso e indipendente di altri, ma nessuno si sottrae al giudizio, sarà perché non è un periodo storico propriamente positivo. Anche i ristoranti blasonati hanno risentito della crisi.

Quindi le guide sono ancora in grado di muovere clienti?

Secondo me si, almeno finché non perdono credibilità...

La ristorazione milanese oggi. A che punto sta? Pregi e difetti.

Non è messa benissimo. C'è stata un'inflazione di aperture che ha inficiato sulla qualità. Alcune, poi, con sottofondo oscuro, dove dietro c'è o la malavita organizzata o il malaffare disorganizzato, per riciclare denaro. Questo retroscena riduce la vita media dei locali. Stesso film, a Roma.

Parla di locali medio/bassi?

Ho qualche dubbio. Basta pensare che a Roma hanno chiuso una ventina di pizzerie, tutte con nomi folcloristici. Ma è possibile che sia così stupida la malavita organizzata da mettere i propri soldi solo in insegne così naif? Non credo...

Il giornalismo gastronomico non dovrebbe affrontare anche queste tematiche?

Il fatto che il nostro mondo finga di niente e lasci le inchieste ai giornalisti di altri settori non è affatto bello. È un tema che io e Stefano Bonilli avevamo deciso di affrontare: lui ha scritto su questi temi, e io l'ho fatto un paio di giorni dopo senza sapere del suo articolo. Così ci siamo sentiti. Una delle rare volte in cui eravamo d'accordo.

Ritorniamo agli argomenti più frivoli: i pregi della ristorazione milanese?

Questa esplosione di locali porta anche a una grande varietà di scelte che a Milano non c'è mai stata, spazzando via quelle trattorie un po' polverose. Si è molto rinnovato il panorama e c'è più attenzione per le materie prime (anche un po' a casaccio a dire il vero: oggi viviamo la “follia del Patanegra”, per esempio).

Quali sono le qualità che cerca di più in un ristorante?

Una cucina sincera, anche elaborata ma non artefatta, e un luogo amichevole che mi voglia bene e che mi faccia venir voglia di ritornare. Al centro deve esserci il cliente, non dimentichiamolo mai. Trovo ridicolo quando a fine pasto si avvicina il maître per chiedere: vuole andare a salutare lo chef?

Cinque locali milanesi imperdibili.

In ordine sparso:

1. La Trattoria del Nuovo Macello, perché si sta bene, c'è una cucina creativa, non illogica, e a prezzi civili.

2. Aimo e Nadia, perché la sala è ineguagliabile e mangi dei piatti indimenticabili.

3. Spazio Milano, perché mi commuove l'entusiasmo dei ragazzi e si mangia benissimo senza spendere troppo.

4. Osteria Alla Grande, perché è un residuato della Milano di anni fa, si mangiano cose discrete ma fatte con coscienza e c'è un clima umano straordinario che si rifà a una città diversa da quella attuale. Si respira qualcosa di felliniano anche se siamo a Milano.

5. Berberè perché la pizza è buonissima (unico appunto: arriva al tavolo non proprio calda), anche se il locale sembra una mensa delle fabbriche del dopoguerra.

 

Gourmet 2016 | Torino | Lingotto Fiere, padiglioni 2 e 3 | dal 13 al 15 novembre | Tutte le informazioni per partecipare sono disponibili sul sito www.gourmetforum.it

 

a cura di Annalisa Zordan

foto: Carrol Cruz e Jacob Sadrak

 

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