Cibo Agricolo Libero. Il carcere di Rebibbia diventa caseificio

15 Feb 2016, 09:00 | a cura di

Vincenzo Mancino, titolare del ristorante Proloco DOL nel quartiere romano di Centocelle nonché socio di altri due ristoranti a marchio "Di Origine Laziale", Proloco Pinciano e Proloco Farnesina, ci racconta il suo progetto all'interno della Casa Circondariale Femminile di Rebibbia. Il nome? Cibo Agricolo Libero.


Azienda Agricola Casa Circondariale Femminile di Rebibbia

L'Azienda Agricola esiste da tempo. Oltre a essere attiva con le coltivazioni di ortaggi, legumi e insalate, è certificata bio e include un allevamento di polli, conigli, tacchini e ovini. E, cosa assai più importante, rappresenta un'attività di grande importanza per le detenute che ci lavorano, parliamo ancora di poche fortunate dato che siamo nell'ordine di 12 o 14 detenute. I prodotti dell’orto e dell’allevamento, che non possono essere usati per la mensa comune del carcere romano di Rebibbia (oltre alle questioni degli appalti della mensa, non sarebbero sufficienti per più di 300 detenute) vengono venduti a delle cooperative. Anche se a breve, anticipa Vincenzo Mancino, “verrà permessa la vendita anche all'esterno del carcere, in via Bartolo Longo, così sarà più facile per i cittadini comprare i prodotti”.

Cibo Agricolo Libero

Ma veniamo al progetto voluto e gestito direttamente da Mancino. “Durante una gara di cucina organizzata all'interno della Casa Circondariale, mi hanno chiesto se avevo qualche idea per impiegare gli spazi inutilizzati. In quel periodo si era da poco liberata la pulcinaia – i pulcini erano stati spostati per farli crescere all'aperto – e la prima cosa che ho pensato era di destinare l'area alla produzione dei formaggi”. La cosa non stupisce affatto dato che Vincenzo Mancino, oltre a essere titolare del ristorante Proloco DOL nel quartiere romano di Centocelle nonché socio di altri due ristoranti a marchio "Di Origine Laziale" (Proloco Pinciano vicino Piazza Fiume e Proloco in via della Farnesina), è un distributore e produttore di formaggi. Da quelpour parler Mancino ne ha tirato fuori un progetto concreto: Cibo Agricolo Libero. “Inizialmente doveva chiamarsi Cibo Libero, per ovvi motivi, poi abbiamo inserito 'Agricolo' per differenziarlo dalla produzione industriale. Abbiamo voluto sottolineare la filiera corta, certificata e certa che caratterizza i nostri formaggi”. La cui produzione è iniziata il primo di dicembre, non senza le solite problematiche burocratiche. “L'obiettivo è di convogliare l'intera filiera qui a Rebibbia. Per ora, dato che attualmente non ci sono abbastanza pecore nell'allevamento, compriamo il latte da una cooperativa di Poggio Mirteto, in Sabina. Partiamo da una materia prima buonissima, quindi non è stato difficile per le detenute produrre un buon formaggio, anche se a essere sinceri - e forse non troppo obiettivi! -mi sono sbalordito dei progressi fatti in questi pochi mesi. Tanto che mi sta balenando l'idea di cominciare a produrre anche il Conciato di San Vittore”. Antico formaggio, che racchiude gli aromi di spezie ed erbe tipiche dei pascoli e dei monti del basso Lazio, salvato nel 2005 dal rischio di estinzione proprio da Mancino.

I formaggi

Per ora vengono prodotti da quattro detenute altrettante tipologie di formaggi, più la ricotta. Abbiamo deciso di chiamarli con i numeri, in base alla stagionatura”. C'è dunque il formaggio 1, quello 2 e così via. Perché questa scelta? “Da una parte è una provocazione, dato che qui all'interno del carcere tutto, dalle celle alle stesse detenute, viene identificato con un numero. Dall'altra abbiamo voluto liberare i formaggi da tutta quella prosopopea che a volte li circonda. Sia chiaro, per me i formaggi sono e rimangono cosa seria, ma in questo caso l'intero progetto va oltre al prodotto stesso”. Per ora questi formaggi li potete trovare nei ristoranti DOL, più avanti verranno venduti ad altre realtà ristorative. Sono riconoscibili per via del marchio Cibo Agricolo Libero. Da non confondere con altri progetti di solidarietà avviati all'interno del carcere Rebibbia. È giusto precisarlo. “Ci teniamo a differenziare il nostro progetto da quello legato all'azienda agricola interna al carcere, per esempio”. Non per un fatto di “proprietà intellettuale”, spiega: “Non è questione di rivalità, anzi, ci tengo a ringraziare la Dottoressa Del Grosso e il Comandate Pulcinelli, che insieme agli agronomi Giulia, Michele e Luigi hanno reso possibile la concretizzazione del progetto. Ma vorrei sottolineare il fatto che il progetto è stato messo in piedi solo grazie ai finanziamenti privati”. Nessuna sovvenzione pubblica, nessuno sgravio fiscale. “Le quattro detenute che lavorano nel caseificio le paghiamo noi – gli stipendi finiscono nel conto corrente della casa circondariale collegato a ciascuna di loro – perché non vogliamo auto relegarci nell'ambito della solidarietà, nonostante di questo effettivamente si tratti. Preferisco parlare di accoglienza, nel senso di accogliere le problematiche che fisiologicamente esistono all'interno di un carcere, e di autonomia. Non credendo in un sistema assistenzialista, ho preferito dare a queste donne un know how che poi possono sfruttare anche una volta fuori”.

Non solo questione di solidarietà

La solidarietà è stata solo la benzina che ha messo in moto l'intero ingranaggio ma non deve assolutamente essere il motivo per cui un consumatore è spinto a comprare questi prodotti. Che non possono che essere buoni, visto e considerato anche la materia prima di partenza. Poi è inutile negare che alle detenute coinvolte è cambiata la vita. “Respirano un'aria diversa, vedono un'altra luce per ben cinque giorni alla settimana. È anche per questo che la selezione è stata dura: le candidate hanno infatti dovuto seguire un corso di formazione e passare un esame di ammissione. Basti pensare che sono in grado di produrre con 200 litri di latte due, tre tipologie di formaggi, di cui alcuni con coagulazione acida che, posso assicurare, non è affatto facile”. Noi ci crediamo. Così come crediamo a questo progetto che si aggiunge alle altre iniziative che, in Italia, uniscono il mondo della detenzione a quello della produzione di cibo di qualità.

a cura di Annalisa Zordan

 

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