Mollo tutto. Cosa porta gli chef ad abbandonare la cucina?

8 Feb 2018, 13:30 | a cura di

Solo temporaneamente o per sempre. Per alcuni cuochi la vita in cucina a un certo punto diventa insostenibile: stress, orari impossibili, mancanza di sonno o di vita sociale, lavoro nero, via via in un precipizio di fattori negativi che rende preferibile un cambio di vita.

In questo momento sono preda di un dubbio cosmico” scherza – ma neanche tanto – Leonardo Lucarelli (autore di quel Carne Trita che ha messo in piazza in bello e soprattutto il brutto del mondo dei ristoranti). “Da una parte mi spaventa un po' allontanarmi veramente dalla cucina, dall'altra è una vita impossibile”. Staccatosi dalla trincea dei fuochi negli ultimi tre anni, in cui ha fatto una full immersion nella scrittura e nella promozione del suo libro, oltre che preso l'abilitazione all'insegnamento nelle scuole parificate, si trova oggi nella condizione di guardare dal di fuori quel mondo amato-odiato.

 

Amore-odio

Cosa ti tiene legato alla vita da cuoco? “I soldi, principalmente” risponde, ma poi aggiunge “la cucina è un mondo che, per motivi economici, ma anche personali e di soddisfazione, conosco bene e in cui sto bene. All'inizio mi piaceva uscire all'una di notte e finire la serata con i colleghi, così come mi piaceva staccare e rimanere dentro ai locali in cui lavoravo, dove le persone pagavano per entrare a sentire musica. Mi pareva quasi una rivalsa sul mondo dei normali finire la serata lì”. Poi si cambia “quella voglia di vendetta sul mondo non ce l'ho più”, come cambiano le priorità “vorrei una vita un po' più normale” la cucina ruba il tempo e allontana dai ritmi degli altri e della famiglia “se vuoi accompagnare tuo figlio a scuola devi svegliarti alle 7, anche se fai il cuoco”. E questo sembra essere il mantra di tanti. Lo è stato di Vittorio Fusari che ha chiuso qualche settimana con Il Pont de Ferr di Milano proprio per recuperare un ritmo più umano e ritornare in famiglia, a Iseo “ero per 5-6 giorni a settimana a Milano, lontano da mia moglie e mio figlio. Per la tua famiglia diventi una presenza assenza: un prezzo troppo alto” e, aggiunge “la serenità incide anche sul lavoro”. Lo stesso motivo che aveva spinto Entiana Osmenzeza a lasciare le cucine di Gurdulù a Firenze e godere con calma della maternità. Di alcuni si sono perse le tracce, lasciata la cucina, come di Paola Budel che ricordiamo al Venissa di Mazzorbo.

 

Lavoro, a quale condizioni?

La proposta che sto valutando io, ora, è quella tipica: 6 giorni a settimana con doppio turno” che significa almeno 12 ore al giorno che diventano facilmente 14, con un impegno fisico che può avere conseguenze anche serie sulla salute: “a settembre mi hanno diagnosticato un'insufficienza venosa in uno stadio avanzato, una tipica malattia professionale: troppe ore in piedi ferma” racconta Bianca Celano, che ha recentemente chiuso il suo QQucina Qui a Catania proprio per motivi di salute. “Non potevo più stare tanto in piedi, invece in quel periodo la mia brigata si è letteralmente smantellata, chi è andato a Milano, chi in Germania, chi voleva un ristorante suo. Per motivi diversi sono andati via e mi sono caricata anche del loro lavoro mentre cercavo di rimetter su la brigata” continua “sono tornata pure a fare la spesa, nel frattempo sono passati diversi cuochi e mi sono resa conto di quel che mi dicevano i miei colleghi: trovare qualcuno bravo e motivato, da far crescere qui a Catania è sempre più difficile, anche se pagato e messo in regola. A Catania c'è un fuggi fuggi dei cuochi” e così il lavoro diventava sempre più pesante “non potevo allontanarmi, continuavo a provare cuochi, molti sono mercenari, irrequieti, vogliono cambiare continuamente bruciando esperienze, mentre la cucina è un lavoro artigianale”. Arrivato il 31 dicembre decide di fermarsi. “Piuttosto che rovinare quel che avevo creato ho preferito spegnere i fornelli. È stato l'anno migliore da quando abbiamo aperto, ma non ce la facevo più. Mi riprendo salute e famiglia e poi quando avrò la forza, ricomincio”. Senza tranquillità le cose non andavano per il verso giusto “a Catania si va a mangiare tardi, la cucina chiudeva anche dopo mezzanotte: troppa fatica, tanta adrenalina, ma anche stress” riprende “non ero serena io e non i clienti lo percepivano. A fine giornata ci sembrava di essere stati in guerra”.

 

Quanto vale il lavoro da cuoco?

Nei contratti a chiamata o part time, per esempio quelli stagionali, per 10 o 12 ore prendi 80/90 euro al giorno” ci spiega Lucarelli, che specifica “con una parte, a volte fino a metà, in nero. A volte però ci sono anche premi produzione o extra forfettari”. Nella sua esperienza il nero c'è stato quasi sempre “minore nei ristoranti di livello più alto, niente in quelli blasonati”, ma spesso meno nero significa compensi più bassi “perché in certi posti guadagni meno ma impari e ti fa curriculum” riflette “tutto sommato sono esperienze giuste, che per me andavano fatte”. Una piaga, il lavoro sommerso, da affrontare, con il carico che porta con sé. Perché è presumibile che dove non vengono pagati correttamente i dipendenti, ci siano anche irregolarità nelle fatture in uscita e in entrata. Se risulta che i collaboratori lavorano meno ore di quanto non facciano nella realtà, probabilmente anche il ristorante non dichiara quanto lavora (quindi guadagna) effettivamente, pena una palese discrasia, da qui una possibile evasione fiscale. Di contro: chi non scontrina come modus operandi (vi è mai capitato in un locale affollatissimo uno scontrino dal numero progressivo troppo basso?), come giustifica l'acquisto di materie prime che poi non risultano vendute? È probabile che anche gli acquisti non siano in regola, soprattutto laddove non ci sono grandi aziende in campo – più rigide - ma piccole realtà. E un prodotto non tracciato potrebbe non rispondere alla normativa sulla sicurezza e produzione alimentare.

Insomma: il nero è un'ombra che si estende su diversi aspetti degli esercizi commerciali. “secondo l'Istat, il lavoro nero si aggira intorno al 56%: più della metà di tutta la forza lavoro che muove questo mondo non esiste” continua Lucarelli, la cui carriera di scrittore nasce proprio da un articolo del 2013 sul lavoro sommerso - parziale o totale - che ha incontrato nella sua vicenda professionale. Oggi i dati forse sono un po' diversi, si parla del 26% ma ci sono mille variabili, nel conteggio, che fanno schizzare verso l'altro questo dato. E se uno si rifiutasse? “Queste sono le regole del gioco: se non ti sta bene, vai; di cuochi ce ne sono”. In questo computo di malagestione si devono annoverare anche contributi non versati “nel 2011 mi risultavano 3 anni di contributi, lavoravo da 11, e non era nemmeno registrato il mio licenziamento da un posto chiuso da anni”, locali che aprono e chiudono sulle spalle di fornitori e dipendenti per incapacità o furbizia della proprietà “solo una volta ho fatto male i conti e ci ho rimesso 3 mesi dello stipendio” racconta “devi avere un bel pelo sullo stomaco, in questo mondo ci sto da 15 anni e ogni volta è una partita a scacchi”. Insomma: da qualunque parte la si guardi, è sempre una guerra. E il lavoro sommerso è così diffuso che - per avere un'idea – basterebbe ascoltare quale che si dice in fase di colloqui di lavoro, in cui si dichiarano candidamente lavori irregolari e altre anomalie. Ma anche confrontare curriculum con buste paga e contributi versati dai datori di lavoro, spesso gli stessi dipendenti non hanno consapevolezza di quel che dice il loro contratto nazionale, dei loro obblighi e diritti.

 

Questioni di contratti

Ma è davvero inevitabile? No, non è sempre così e non è ovunque così. Però l'irregolarità dilaga. “Il problema è anche a monte: il peso contributivo per i datori di lavoro è fortissimo” racconta Lucarelli “un locale normale che fa 50 coperti ha bisogno almeno di 3 persone in cucina e 3 in sala - e solo per un cuoco i 2mila netti diventano 4mila lordi - e spesso non ce la fa”. Conferma anche Fusari: “il costo del lavoro è altissimo, così se un ristorante ha bisogno di più persone per lavorare tutti meglio, diciamo 10 ore al giorno, spesso non può permettersi di assumerle, almeno non in modo trasparente” qui si crea lo spazio per quella zona d'ombra che accoglie pagamenti in nero e orari disumani. “Oggi l'aumento del costo del lavoro ha reso tutto più complicato” conferma Fabio Spada, ristoratore e presidente Fipe Roma “erende difficile l'equilibrio economico per le aziende, a qualsiasi livello”, negli anni '90 il carico fiscale era pari a 1/3 del fatturato “oggi è spesso al 40-45% del fatturato, ed è sempre più difficile far quadrare i conti . I motivi della crisi che vivono gli imprenditori in genere sono legati proprio al costo del lavoro. “Troppo alto. Non giustifichiamo il nero, l'eccessivo carico fiscale non può mai essere considerato un alibi. Ma i ristoranti sono sempre più in affanno per questa ragione”. Ma il nero c’è ed è un dato di fatto. “Il peso fiscale andrebbe alleggerito con benefici anche per i dipendenti, il problema riguarda ogni settore dell’economia ma è evidente che l’incidenza è maggiore in comparti produttivi in cui professionalità e manodopera non possono (fortunatamente) essere sostituiti da una macchina. In attesa che questo avvenga sarebbe comunque fondamentale che tutti rispettassero le stesse regole e pagassero le tasse. se oggi si vive in un panorama di concorrenza sleale non è per le grandi catene, Mc Donald's o altri, ma per chi non applica le norme e non rispetta la legge è non solo per quanto riguarda la tassazione” aggiunge Fabio Spada.

Succede poi che spesso chi è assunto venga schiacciato da extra e straordinari “che anche se pagati sono comunque troppi, ai limiti della sopravvivenza: bisogna considerare la retribuzione della squadra, non dei singoli” spiega Fusari, perché se uno pure fosse pagato il 50% in più ma fa 15 ore al giorno per 6 giorni a settimana, o copre il lavoro di 2 persone, i conti comunque non tornano. “Il lavoro straordinario costa comunque di più del lavoro ordinario” ricorda Spada. Certo, ogni assunzione apre alche altre questioni, ma il costo del lavoro straordinario, se correttamente conteggiato, è più alto. Dunque dal punto di vista dei costi, non conviene avere dipendenti che lavorano 14 ore al giorno, al posto di due che ne lavorano 8 e 6.

 

Il contratto nazionale

Servirebbe un contratto professionale adeguato, invece il nostro (contratto collettivo nazionale di lavoro da aziende del settore turismo) è sovrapponibile a quello di un operaio riguardo festivi, prefestivi e straordinari; è un mondo in cui è normale lavorare nei festivi e in cui ci sono straordinari” continua Fusari. Parliamo, in media, di contratti di 40 ore settimanali a fronte anche di 65-70 effettive (mentre il CCNL recita: “Il lavoro straordinario è consentito nel limite massimo di duecentosessanta ore annuali”).

“È un contratto che non viene rinnovato da più di 4 anni. Bisognerebbe sedersi a un tavolo di trattativatenendo presente che il mondo della ristorazione è cambiato. Un negozio, una fabbrica, un albergo e un ristorante hanno esigenze diverse”Spada parla soprattutto della possibilità di comprimere o distribuire le ore di lavoro in maniera diversa pur rispettando il monte ore contrattuale mensile. “Avremmo bisogno di nuove forme contrattuali che stimolassero una maggiore elasticità compensandola con una maggiore retribuzione oraria a favore del dipendente, senza incidere ulteriormente sulla parte contributiva e di tassazione a carico dell’azienda“, in sintesi: “insomma, minor carico fiscale e maggiore flessibilità, alcune attività non possono essere interrotte e riprese da un altro”, per esempio fermarsi a metà servizio e lasciare a un altro l'ultima ora e mezzo. I calcolo è semplice: in molti ristoranti, specie quelli di livello più alto, si comincia a preparare la linea intorno alle 3 di pomeriggio. 40 ore in 6 giorni a settimana fanno 6 ore e 40 al giorno. È pensabile che un capopartita vada via alle 21,40, a metà turno? No, è più credibile che finisca il turno, e allora varrebbe la pena di ragionare di contratti che tenendo presente questa realtà, rispettassero i limiti massimi di lavoro giornaliero.

 

Far quadrare i conti

Insomma: se assumere è troppo costoso come lo è pagare tutti gli straordinari, come si fa? “Come patron è veramente difficile far quadrare i conti” ammette Fusari, ma poco cambia se sei lo chef “perché se sei responsabile del lavoro lo vivi come tuo”. Gli stagisti rappresentano una risorsa: forza lavoro con un costo decisamente più basso (il compenso minimo è di 500 euro al mese con il contributo regionale con Garanzia Giovani, o di 800 euro senza), a fronte di una formazione professionale - “che dovrebbe essere riconosciuta” aggiunge Fusari. Ma i Italia i limiti sono stringenti: 1 stagista fino a 5 dipendenti, 2 fino a 19 e poi 1 ogni 10. Dunque 4 stagisti ogni 40 dipendenti. Basta affacciarsi nelle grandi cucine del mondo, quelle dei Roca o di Redzepi, per nominare le più vicine, per rendersi conto della differenza. “Dovrebbero essere consentiti e garantiti dei percorsi formativi” aggiunge Spada. “Che significa aumentarne il numero di stagisti – allineando le nostre imprese a quelle di altri paesi rendendo i nostri ristoranti molto più competitivi sul palcoscenico internazionale – ma controllando anche l'effettivo e corretto utilizzo degli stage come momento didattico”.

Nelle cucine, poi, diventa anche una questione di onore, “una sorta di machismo tra cuochi” lo definisce Lucarelli “una prova di forza, di lealtà. In quel contesto la cucina sta al primo posto, e se dici che hai finito le tue ore e te ne vai, gli altri non la prendono bene”. È una trincea, come la chiama lui, e in trincea vigono altre regole. Fatte di mancanza di sonno, bioritmi alterati, abitudini antisociali, pressione e stress oltre i livelli di norma, concentrazione a oltranza, tutte cose che hanno un peso “colleghi scoppiati, borderline, con tutto quel che ne consegue” ovvero 'doping' e abusi vari di cui è piena la letteratura di settore.

 

Come va la ristorazione?

Ma non esistono modelli che funzionano? “Quelli che vanno bene sono le attività familiari, le grandi catene o i grandi alberghi in cui il ristorante vale anche come strumento pubblicitario” ma per le piccole aziende è complicato, oberati da costi e burocrazia insostenibili – mediamente più pesanti di quelli di altri paesi – e lo è ancor di più nell'alta ristorazione, imprese in perdita per come sono strutturate, che si reggono su altri introiti: eventi privati, consulenze, sponsorizzazioni. Ma in questo ambito le cose – all'apparenza - vanno meglio, forse anche per via dei riflettori perennemente accesi che spingono ad attenersi alle regole, alla sete di scandali che non perdona il minimo errore agli chef più famosi, o semplicemente per una maggiore serietà. Sia come sia, una strada sembra essere quella di costruire organismi complessi, in cui il reddito è distribuito e dipende da diversi elementi, per esempio l'ospitalità: “la remunerazione di una stanza è maggiore di un piatto che ha dei costi di materie prime e lavorazione che in Italia si fatica a riconoscere”; si spiega meglio Fusari: “da noi il prezzo dei ristoranti è mediamente più basso di quello degli omologhi esteri”. Dunque con uno scontrino medio più alto i ristoranti potrebbero trovare un equilibrio oggi impossibile? “Avremmo, volendo, anche altri percorsi da seguire, i caffè o le osterie. Ma dobbiamo prima far comprendere il valore di certi piatti e certi prodotti”. Lui la chiama “una visione diversa e un po' olistica del cibo” che va oltre al singolo piatto o ristorante e intende l'ospitalità a tutto tondo, fruibile a più livelli, come elemento di conoscenza del territorio, di incontro e di snodo della comunità. Ma potrebbe bastare?

 

a cura di Antonella De Santis

 

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