Albarossa, il rosso piemontese fa il punto a dieci anni dalla doc

17 Ott 2020, 15:59 | a cura di
Produzione in crescita per le aziende che hanno scelto il vitigno nato da un incrocio di Chatus (nebbiolo di Dronero) e barbera. Ma che origini ha la Doc Albarossa?

Albarossa. Una doc piemontese poco conosciuta

A dieci anni dal riconoscimento della Doc, i produttori di Albarossa si sono riuniti a Cavatore sulle colline che circondano Acqui Terme per fare il punto su una produzione che ormai sfiora il mezzo milione di bottiglie (470mila). “Vorremmo che questo diventasse un appuntamento annuale, per presentare l’ultima annata e per far scoprire un vino importante che si apprezza nel tempo” ha detto Alberto Chiarlo presidente dell’Albarossa Club, l’associazione che si occupa della promozione e della tutela del rosso piemontese nell’ambito del Consorzio Barbera d’Asti e Vini del Monferrato che comprende la tipologia Albarossa nella doc Piemonte.

Una storia, quella dell’albarossa, relativamente breve, perché se è vero che il vitigno è nato nel 1938 dagli studi del professor Giovanni Dalmasso - docente di enologia e viticoltura prima a Conegliano e poi preside della Facoltà di Agraria dell’Università di Torino - alla ricerca di un vino che unisse l’eleganza del Nebbiolo alla freschezza del Barbera, si deve arrivare agli anni ’80 e ’90 del secolo scorso perché quelle ricerche fossero riprese a livello universitario e cominciassero le microvinificazioni alla Tenuta Cannona di Carpeneto, campo sperimentale della Regione Piemonte.

Produttori di Albarossa in degustazione

Le prime sperimentazioni con l’albarossa e il suo territorio

Ricordo ancora quell’incontro, c’erano anche Riccardo Cotarella e Piero Antinori, quando ci venne proposto di impiantare barbatelle di albarossa nei terreni di nostra proprietà” commenta Michele Chiarlo, padre di Alberto, uno dei personaggi protagonisti della nascita di questo nuovo vino piemontese. Accanto a quel nucleo storico di aziende “innamorate” fin da subito dell’Albarossa – Chiarlo, appunto, Bava, Banfi, Castello di Neive - se ne sono aggiunte via via altre – ultima la Cantina di Maranzana – che ha portato a venti il numero totale di realtà coinvolte nel progetto. L’area vocata attraversa Langa, Monferrato e Roero, ma focalizzando l’attenzione sulle zone a più alta concentrazione di impianti si individua una fascia collinare che da Santo Stefano e Canelli, corre verso Nizza Monferrato e arriva nel bacino dell’Acquese (Bistagno, Carpeneto, Strevi). Con le dovute eccezioni geografiche, Bava ad esempio utilizza una vigna a Cocconato. Un patrimonio vitato che ormai raggiunge i 70 ettari e una produzione che oltre ai ristoranti locali, enoteche selezionate, si affaccia in qualche caso anche sui mercati esteri, Svizzera, Stati Uniti e Canada.

I punti di forza dell’Albarossa

Ci hanno preso un po’ per pazzi quando abbiamo deciso di dedicare quasi un ettaro all’albarossa in terreni dove potremmo piantare nebbiolo per Barbaresco” racconta Claudio Roggero enologo di Castello di Neive “ma ci ha sempre affascinato questo rosso che esprime eleganza, potenza e sensualità.” “Il lato piacevole di questo club di aziende legate all’Albarossa – aggiunge Andrea Costa di Marenco – è che per nessuno di noi si tratta del core business, stiamo parlando di qualche migliaio di bottiglie, e quindi possiamo far crescere il prodotto nel migliore dei modi, senza particolare fretta e assilli commerciali.

L’ultima annata in commercio è il 2017, ma alla degustazione le annate 2010 de L’Armangia e il 2008 di Michele Chiarlo (che ha circa 3 ettari a Montaldo Scarampi) dimostrano tutto il potenziale, in termini di longevità, di un vino che tendenzialmente si beve al meglio dopo 3 anni dall’imbottigliamento.

L’enologo Donato Lanati, presente all’incontro di Cavatore, ha tirato le conclusioni: “Se ci fosse Veronelli, direbbe sicuramente che l’albarossa ha vinto la sua prima partita, cioè ha conquistato i produttori con la sua longevità certa, sicura. Acciaio, legno? Le strade possono essere valide entrambe, ma in prospettiva una menzione geografica aggiuntiva potrebbe essere fondamentale per valorizzare un vitigno che dimostra di avere già una sua linea conduttrice, ma risultati diversi da azienda ad azienda, da territorio a territorio.

Un vitigno che comunque richiede buone esposizioni, senza esagerare nell’abbassamento delle rese, perché come è stato sottolineato le uve hanno “un’anima molto rossa”, bucce sottili, acini piccoli, vinaccioli grandi e pressature e macerazioni vanno controllate attentamente.

A cura di Dario Bragaglia

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