Ripartire dalla cucina. Con la fondazione Il Faro

15 Apr 2015, 11:13 | a cura di
Due mesi per ripartire, dal cibo e dalla cucina: pizzaiolo, panificatore, aiuto cuoco, barman. Sono i corsi professionali della fondazione Il Faro rivolti a giovani che vivono situazioni di disagio. Ecco il racconto.

La fondazione Il Faro, voluta da Susanna Agnelli e guidata oggi dalla figlia Samaritana, racconta come con i corsi legati a ristorazione, bar e pizzeria riesce a far trovare lavoro a profughi, rom, ragazze madri e persone in fuga da guerre e violenze nel mondo. Ma anche in Italia.

Quando ha visto (e assaggiato) un pezzo di pizza con i fiori di zucca, Dario Laurenzi (tra i nomi piùnoti in fatto di start up legate al food e alla moderna ristorazione di tendenza: non certo un ingenuo) ha esclamato: “Però, mi ricorda quella di Bonci!” L’aneddoto lo racconta Fabio Fassone – direttore marketing del Maggio Fiorentino e anche lui grande appassionato di gastronomia e autore di diverse start up legate al food – uno tra i volontari che accompagna nel lavoro quotidiano i laboratori di formazione della fondazione Il Faro, creata da Susanna Agnelli e ora portata avanti dalla figlia Samaritana Rattazzi.

Gli allievi

Fabio, amico di vecchia data e per alcuni anni anche compagno di strada del Gambero, ci ha invitati a fare un giro al Faro di Roma in occasione della fine dei corsi di formazione: per pizzaioli, panificatori, barman-gastronomi, aiuto cuoco. Con una particolarità: gli allievi sono tutti giovani (tra i 17 e i 30 anni) con storie di disagio e di violenza alle spalle, stranieri o italiani che siano. Rifugiati in fuga da torture e persecuzioni, donne che hanno subìto violenze, ragazze madri sole, minori usciti dal carcere, giovani abbandonati e ospitati in case famiglia, rom, ospiti dei campi nomadi, “sopravvissuti” ai centri di permanenza temporanea di Lampedusa, Ponte Galeria e di altre località in cui sono stati smistati dopo l’approdo clandestino in Italia.

Culture e lingue diverse

Al Faro si trovano storie di disagio e di sofferenza, ma anche storie di ricchezze e di sorrisi: oltre venti culture, lingue nazionalità convivono qui al Faro e lavorano gomito a gomito, donne stuprate accanto a uomini disperati, in figa da guerre o in cerca di riscatto, ragazzi che non vedono l’ora di lavorare in un bar accanto a uomini che non sapevano neppure cosa fosse un bar. “Questa è la forza del Faro: unire culture, far dialogare le persone, arricchire le loro esperienze con quelle degli altri. In laboratori, come questi di cucina e gastronomia, che invitano a stare insieme e a condividere” sorride Fabio mentre ci accompagna nei laboratori. La madrina del Faro è oggi Samaritana Rattazzi Agnelli, che guida la fondazione voluta dalla madre Susanna dopo la sua esperienza come ministro degli Esteri e una appassionata battaglia per creare un Mercato Unico tra le sponde del Mediterraneo: era la metà degli anni ’90 e il suo sogno si sarebbe infranto poi sulle esplosioni delle Torri Gemelle.

Cosa è cambiato in 11 anni

Massimo Bigiotti, responsabile della didattica, ci racconta la sua esperienza alla fondazione. “Nel 2003, quando sono arrivato qui, avevamo sì e no un italiano per ciascun laboratorio. Oggi invece almeno la metà dei nostri ragazzi è italiana: segno che il disagio si è allargato anche da noi. Il Faro ha sempre agito praticamente, affrontando e risolvendo i problemi legati al mercato del lavoro, in concreto. L’insegnamento della signora Susanna era proprio questo: partire dalle cose pratiche, concrete. Che poi è ciò che fa sì che i nostri ragazzi abbiano successo nell’inserimento sociale: se prima andavamo noi a bussare alle imprese per far assumere i nostri allievi e far fare loro stage, oggi sono gli imprenditori che vengono qui a cercare manodopera formata”.

Il Faro in cifre

Arrivano insieme Samaritana e Gianni Del Bufalo, direttore del centro. Ci sono colleghi del Corriere della Sera, di PiùCulture e dell’Avvenire. È il giorno dei diplomi di fine corso. Ed è il giorno dei bilanci: il 60% dei ragazzi (in totale 210 di 23 diverse nazionalità) ha trovato lavoro dopo 139.500 minuti di formazione che sono costati 1.800 euro ad allievo, costo coperto da donazioni private (38%) e finanziamenti di progetti pubblici (62%). Due mesi fa erano in coda 1.400 ragazzi per fare il colloquio di ingresso al Faro: ne sono entrati solo il 14%. “Del resto” afferma Gianni Del Bufaloquesta attività costa molto e la frequenza è ovviamente gratuita. Purtroppo siamo costretti a fare i passi lunghi come le gambe che ci sostengono. Certo, ci farebbe immenso piacere poter formare tutti coloro che ce lo chiedono”.

I fondi

E c’è da dire che non siamo in un ottimo momento di congiuntura: le Camere di commercio sono state depauperate dai tagli (e quella di Roma era uno dei finanziatori) e i fondi europei per la formazione non riescono a concretizzarsi in bandi pubblici per timori e lungaggini della burocrazia. “Però riuscire a dare un futuro immediato, concreto e vero al 60% dei nostri allievi è uno splendido risultato. Anche perché chi esce da qui è spesso visto con diffidenza per il suo passato o la sua provenienza. Così che ci sforziamo anche ad accompagnare gli allievi migliori e più motivati” almeno la metà“nell’inserimento, anche aiutando a sostenere il costo contributivo per alcuni periodi” spiega la Agnelli.

Le storie di Emy e Antonello

E mentre sui tavoli del buffet si dispongono gustose preparazioni – sartù e finger food, pani pizze e focacce – scopriamo anche alcune delle storie che sono dietro ai fornelli del Faro. Come quelle di Emy, 27 anni, dal Senegal: ha raggiunto il marito, profugo in fuga dalla guerra che contrappone le milizie governative agli indipendentisti del Casamance, regione al confine col Gambia. “Ho scoperto qui che in Italia non c’è solo la pasta” sorride lei “e mi sono innamorata della pasta sfoglia, della frolla, dei biscotti. Adoro la lasagna: ma quando provavo a farla prima di venire qui non è mai venuta buona. Ora faccio delle lasagne buonissime”.
Antonello, invece, ha 18 anni e viene dal campo nomadi di via Salviati (Roma), dove è nato e dove i suoi genitori si sono rifugiati a seguito della guerra in Bosnia. “La mia vita era quella del campo” racconta lui “potete immaginare! Ma io sentivo dentro di me che avevo la giusta energia per fare il barman: l’ho sempre saputo!” Tanto che ha rinunciato a un lavoro annuale come autista di scuolabus nel suo stesso campo pur di fuggire da lì e di investire tutto sul futuro dietro a un bancone.

Il laboratorio della pizza

Mikel Dedndreaj - ex allievo del Faro e rientrato dopo una serie di esperienze in giro per il mondo - Donatella Cavalera e Domitilla Verga, chef e patron del Forno di Procoio di Fossanova (a Priverno, Latina), sono tra i protagonisti di questi piccoli-grandi successi quotidiani. “La cosa importante” fa Mikel “è che quando escono di qui i ragazzi non sanno solo fare le cose, ma sanno anche perché. E riescono a spiegarlo, a raccontarlo: questo è un valore aggiunto importante in un mondo in cui tutti sono più attenti a ciò che mangiano e curiosi di cosa c’è dietro al cibo… Per esempio, l’uso della farine va studiato e dosato bene: non si può usare solo manitoba e magari neppure ben lievitata e maturata. L’impasto della pizza di oggi ha tre farine: Dalla Giovanna, semola rimacinata e farro, ha fatto due lievitazioni con rimpasto e ha maturato per 72 ore al freddo. Per il pane usiamo invece la biga, come si fa nei forni tradizionali. Mentre per la baguette” che controlla mentre cuociono nel forno di pietra ollare “usiamo il sistema del polish”.

I corsi di aiuto cuoco

Dal laboratorio di pizza passiamo a quello per aiuto cuoco. “Oggi abbiamo utilizzato per un piatto la farcia dei sarme bosniaci: riso crudo, carne cruda, aglio, prezzemolo e carote avvolte nel cavolo verza e che oggi sono diventate un polpettone. La nostra cucina è di base italianissima, con piccole rivisitazioni di piatti della tradizione e con ingredienti di territorio” racconta Domitilla Verga, che continua: “Certo, poi ci divertiamo anche a integrare piatti e ricette che le ragazze portano dalle loro nazioni: questo aiuta a integrarci tutti insieme e a crescere, ad avvicinarci e ad arricchire la nostra pratica. Così per esempio, una ragazza dell’Afghanistan ha scoperto che i suoi Ashak sono simili ai ravioli: i suoi sono farciti di porro e coriandolo, conditi con salsa di yogurt all’aglio e sugo di carne”. Quali sono le difficoltà? “Avere qui 16 ragazze di 16 nazioni diverse e formarle in due mesi non è semplice: spesso non conoscono l’italiano e parlano lingue diverse. Il primo approccio” sorride “avviene scrivendo cartelli con il nome italiano degli elettrodomestici: fungono da lavagne per la formazione di un glossario tecnico di cucina! Poi ci sono attitudini diverse, mentre le africane sono molto disponibili a lavorare in gruppo, le slave, le ucraine, le afghane sono tendenzialmente più individualiste. Così dobbiamo rompere diffidenze e idiosincrasie e portarle a fidarsi e a collaborare. E in effetti ci riusciamo!”. Apre un sorriso a 32 denti Emy: “Sì, qui ho imparato soprattutto a sorridere, a fidarmi e ad avere pazienza: quella che ogni giorno hanno con noi i nostri prof. È la mia seconda famiglia, qui ho imparato a vivere di nuovo”.

Il Faro | Roma | via Virginia Agnelli, 21 | tel. 06.6573025 | http://www.ilfaro.it/

a cura di Stefano Polacchi

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