Natale con Lidia Bastianich. Un'intervista

25 Dic 2014, 10:25 | a cura di
Viene spesso definita l’erede di Julia Child. E in effetti lei, Lidia Bastianich, la chef più popolare d’oltreoceano, da Julia Child ha imparato a considerare lo chef come uno strumento a servizio del cibo e non come un protagonista del cibo. Mentre la Child ha imparato dalla Bastianich il risotto.

Bastianich oggi è un nome associato a un impero del cibo, ma ha una storia intima, tutta da raccontare. Inizia da Pola, in Istria, da dove Lidia Matticchio e la sua famiglia sono stati costretti a fuggire durante il regime di Tito per trovare riparo in Italia, a Trieste. Qui la famiglia si stabilisce in un campo profughi e i genitori di Lidia trovano occupazione presso una famiglia benestante, dove la madre Erminia lavora come cuoca e il padre Vittorio come autista. Quando Lidia ha appena 12 anni, si imbarcano per l’avventura oltreoceano.

Siamo nel 1958, nel vivo dell’ultima ondata dell’emigrazione italiana verso gli Stati Uniti. Lidia è una ragazza innamorata della cucina e del cibo e in America porta con sé i sapori e i profumi lasciati in Istria e in Italia: il ricordo delle minestre della nonna e la raccolta stagionale della frutta.
Dall'altra parte dell'Oceano lavora in diverse pasticcerie e ristoranti fino a quando, nel 1966, incontra Felice Bastianich, che diventerà suo marito. Con lui inizia l’avventura come ristoratrice, nel Queens, dove nel 1971 aprono il primo ristorante che propone una cucina italo-americana. Ma è con Felidia (inaugurato nel 1981) che i Bastianich entrano nella storia della cucina italiana negli Usa. Oggi i ristoranti che portano il nome di Lidia Bastianich a New York sono quattro (Felidia, Becco, Esca e Del Posto) uno a Pittsburgh, (Lidia’s Pittsburgh) e Lidia’s Kansas City. Mentre in Italia, a Cividale del Friuli, insieme al figlio Joe, nei vigneti di famiglia gestisce il progetto Orsone: B&B e taverna.

Attivista del cibo, la Bastianich è anche un’imprenditrice nel mondo televisivo (ha anche vinto un prestigioso Emmy Award): con la sua Tavola Productions produce diverse trasmissioni su Food network come Lidia’s Kitchen, Lidia Celebrates America, and Amy Thielen’s Heartland Table. E poi c’è il colosso Eataly, di cui è socia insieme al figlio Joe, Mario Batali e – ovviamente - Oscar Farinetti, poi ci sono la linea di pasta, salse e prodotti da cucina da lei curata e firmata.
Se il figlio Joe, oltre a Mastefchef, si dedica alla musica e ai documentari da New York per Repubblica, la figlia Tanya, studi sul Rinascimento Italiano con un dottorato alla Oxford, aiuta mamma Lidia nella sua attività di scrittrice. Insieme hanno firmato, a quattro mani, una serie di libri dedicati alla cucina, tra quali l’ultimo: Lidia’s commonsese Italian cooking.
Instancabile lavoratrice, Lidia trova anche il tempo di andare in giro per le scuole a parlare di buon cibo e buona alimentazione. La incontriamo per il Gambero Rosso prima di salire su un aereo che la porterà in Italia dove sarà nel talk show di Bruno Vespa, Porta a Porta. Prima dell’Expo, dove sarà ambasciatrice speciale in due progetti con Eataly e la James Beard Foundation, si prepara al suo prossimo e importante appuntamento: il pranzo di Natale a casa Bastianich.

Chef, autore ristoratore, personaggio televisivo. Quale il ruolo in cui si riconosce di più?
Fondamentalmente sono una chef ma nella mia vita non ho scelto di diventare un personaggio televisivo, una scrittrice. Sono state le occasioni che mi si sono presentate, le proposte che ho ricevuto che mi hanno portato nelle varie direzioni, non ho pianificato la mia carriera. Tutto è iniziato dalla passione per il cibo. Mio marito, che di mestiere faceva il maître, mi ha introdotto alla ristorazione con il nostro primo ristorante nel Queens, dove ho cominciato la mia carriera come sous-chef a fianco di un cuoco italo-americano. La mia cucina parte da quelle origini. Tutto questo ha incuriosito molto giornalisti e colleghi: Julia Child mi ha voluto nel suo programma e mi ha pure chiesto di insegnarle a fare il risotto, un giornalista mi ha chiesto di scrivere un libro. Non mi aspettavo tutto questo: è stata la vita che mi ha dato diverse opportunità senza che io le avessi necessariamente cercate. Credo che tutto quello che faccio alla fine è un mezzo, nelle diverse modalità, di comunicare il cibo, la sua storia e le sue tradizioni.

Lei rappresenta l’Ambasciatrice della cucina italiana negli Stati Uniti e non solo.
Nello stesso tempo, ha anche dato un forte contributo nel passaggio dalla cucina italo-americana a quella italiana. Si riconosce in questo compito?
Quando a 12 anni sono arrivata in America, dall’Italia, ho trovato una cucina italo-americana: quella degli emigrati del Sud costretti ad adattare, in mancanza di ingredienti originari, la cucina che avevano lasciato a casa. In quegli anni non era possibile importare formaggi italiani, salumi, pasta. Così sono nati piatti come chicken parmigiana o le fettuccine Alfredo. Con gli anni, la cucina italiana in Italia cambiava mentre quella italo-americana rimaneva fedele alle sue origini. Ho avvertito subito questa grande differenza e ho iniziato a fare una mia ricerca personale sulla cucina regionale italiana, anche con viaggi in Italia in cui ho potuto scoprire gli ingredienti che in America non riuscivo a trovare. Con il passare degli anni, le leggi sulle importazioni sono cambiate e hanno permesso di reperire alimenti prima inesistenti in America. Studio, ricerca, confronto, che a oggi non mancano nel mio lavoro, mi hanno portato ad approfondire la cucina regionale italiana, quella autentica, quella vera. Il mio ristorante Felidia inaugura la cucina italiana più radicata nel territorio.

Esiste ancora questa frattura tra le due cucine?
Ho imparato a rispettare la cucina italo-americana e riconoscerla come un genere a sé rispetto a quella italiana. Entrambe sono legate a momenti storici importanti ed entrambe devono avere la stessa dignità. Gli americani sono affezionati alla cucina dei loro antenati, purtroppo spesso considerata di serie B; e non si tratta solo di comfort food. Gli italiani di nuova generazione ne sottolineano la differenza ma entrambe esistono in America.

La cucina italiana sta conoscendo un momento d’oro negli Stati Uniti. Questo grazie all’arrivo di nuovi chef dall’Italia o a una maggiore consapevolezza degli americani in relazione al cibo italiano?
Un po' a tutto. Ai nuovi chef che sono arrivati, agli americani che viaggiando conoscono e imparano sempre di più, alla possibilità di trovare il 99 per cento degli ingredienti e prodotti Made in Italy anche in America.

L’idea di una cucina contemporanea italiana, una cucina più sperimentale, come viene accolta negli Stati Uniti?
Oltreoceano, per cucina italiana si intende una cucina regionale, radicata nel territorio, verace e autentica. Personalmente, apprezzo la volontà degli chef italiani di oggi di trovare un equilibrio tra tradizione e innovazione, ma credo che la cucina sperimentale sia più frutto di un movimento o di un singolo chef che di un passaggio storico. Quando si parla di cucina si parla di storia del cibo: due elementi che non possono essere dissociati. Se si vuole andare verso la sperimentazione e l'innovazione occorre una vera e propria rivoluzione. Ma la cucina non ha bisogno di grandi rivoluzioni, piuttosto di una crescita lenta e deve essere sempre legata al territorio.

Cosa manca nella scena della ristorazione newyorchese per fare della Grande Mela una città italiana a tutti gli effetti dal punto di vista gastronomico?
La frutta fresca, quella che trovi nei mercati italiani. Spesso ho difficoltà a trovare le pesche a New York anche quando vado in campagna. E poi una vera pasticceria italiana, che magari riprenda la tradizione siciliana e napoletana.

Food business, cooking show e spettacolarizzazione del cibo, sono spesso oggetto di critiche anche dagli esperti del settore. C’è un messaggio positivo in tutto questo?
C’è sempre un messaggio positivo. Il primo è quello di aver fatto avvicinare molta gente al tema cibo, di aver inciso nelle scelte del cibo in maniera consapevole. Quello che non condivido è che gli chef di oggi sono spesso più impegnati e concentrati nelle loro performance che nel loro ruolo di portavoce della cultura culinaria. Lo chef non è un performer ma un ambasciatore del cibo, deve veicolare sensazioni, trasmetterle, educare con responsabilità alla scelta della qualità e al rispetto di chi produce il cibo.

La cucina di Lidia nei ricordi di infanzia?
Quella che inizia nel cortile di mia nonna Erminia, in Istria, dove lei allevava galline e polli e io raccoglievo la frutta. Li ho imparato che il cibo era legato a una componente essenziale: la stagionalità. La cucina per me è fortemente legata, sin dall’infanzia, ai ritmi della natura.

La sua storia personale e quella della sua famiglia hanno influenzato il suo approccio con il cibo?
Moltissimo, perché da quando la mia famiglia è stata costretta a lasciare l’Istria mi sono portata per sempre dietro il ricordo di quel cortile e delle minestre della nonna. Il cibo per me è diventato elemento di connessione alla storia del territorio e alla storia personale.

Quando ha scoperto che l’amore per il cibo era qualcosa di più di una semplice passione?
Non vengo dalla culinary schools, nonostante sin da giovanissima abbia sempre lavorato nelle pasticcerie e ristoranti. Per me il cibo è stato sempre una cosa quotidiana, pratica, legata alla famiglia. È stato mio marito, maître di professione, che mi ha coinvolto nella nostra prima avventura nel mondo della ristorazione. Era il 1971 e allora abbiamo deciso di aprire il nostro primo ristorante nel Queens. Cominciò tutto da li.

Era inevitabile che con una mamma così, i suoi figli, Joe e Tanya, fossero coinvolti nel mondo del cibo.
Si perché alla fine la cultura culinaria è stata sempre così naturale e totalizzante.

Insieme alla figlia Tanya ha curato molti libri. L’ultimo è Lidia’s commonsense Italian cookig. Che buon senso dobbiamo avere in cucina?
Questo libro è dedicato a chi ama cucinare ma ha paura di farlo perché pensa sia troppo complicato. Il mio messaggio è: lasciatevi guidare dal buon senso perché tutto è più semplice di quanto si pensi.

Si prepara anche lei all’Expo dove sarà presente con Eataly e la James Beard Foundation. Qual è il futuro del cibo secondo lei?
Ritorno all’autenticità dei prodotti e dell’esperienza sensoriale. La gente vuole sentire l’intensità dei prodotti naturali e vederli in un setting elegante. Il mondo scientifico e gastronomico devono discutere del tema nutrizionale alla luce dell’impatto ambientale.

Cosa ha imparato da Julia Child?
Julia era unica, fantastica. Ho imparato che il ruolo dello chef in televisione è quello di un conduttore e non di protagonista; il modo di trasmettere sapori e sensazioni senza che lo chef prevalga. Mentre lei da me ha imparato a fare il risotto.

Perché ancora oggi ci sono poche donne chef famose come lei?
Nei ristoranti in giro per l’Italia vedo sempre donne alla guida della brigata. Gli chef star sono perlopiù uomini perché credo che questo rimanga un lavoro intenso, difficile da conciliare con la famiglia. Per gli uomini è più facile.

Come è il pranzo di Natale a casa Bastianich?
Antipasto con prosciutto e torte salate, baccalà mantecato, insalata di polipo, molte verdure cotte, insalata di patate, zuppa di cappone, anellini di pasta, patate dolci, verza e l’arrosto di manzo per il pranzo del 25. Zeppole, bugie e apple pie come dolce.

Ora che sta andando in viaggio in Italia cosa non vede l’ora di mangiare?
Linguine alle vongole veraci.

a cura di Liliana Rosano
Foto in apertura: Lanteck LLC

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