Primo Forum della Cucina Italiana. Ecco cosa è emerso

3 Mar 2015, 11:52 | a cura di
Semplificazione, formazione e promozione del made in Italy. Ecco la sintesi dell'incontro tra il ministro Maurizio Martina e 25 tra i maggiori chef italiani.
Alla fine eccolo: il primo Forum della Cucina Italiana, tre settimane dopo l’Expo delle Idee dell’Hangar Bicocca a Milano. Lunedì 2 marzo la riunione, al Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, di un nutrito gruppo di chef pronti a ragionare insieme al ministro Maurizio Martina, che ha lanciato l'appello. Anziché fare la conta tra chi c'era e chi non c'era riflettiamo sull'atmosfera fortemente ottimista a conclusione dell'incontro: i cuochi sono apparsi carichi, positivi, vogliosi di darsi da fare per far emergere i problemi, qualcuno è parso scettico ma tutti hanno dato atto al Ministro di aver fatto partire un progetto importante e di averlo fatto con serietà e sincerità. Sincerità, innanzitutto, di ammettere che il Ministero delle Politiche Agricole può fare ben poco quando si tratta di questioni afferenti allo sviluppo del paese, alle normative sul lavoro o addirittura a questioni di ordine formativo, scolastico o culturale. Tuttavia, allo stesso modo, il giovane ministro lombardo si è detto disponibile, per portare avanti le istanze emerse nel primo incontro dei 25 chef, il think tank che dovrebbe migliorare il contesto operativo dell'alta cucina, di interfacciarsi con i vari Franceschini, Giannini, Guidi, Poletti e tutti gli altri dicasteri che sarà necessario coinvolgere. I temi emersi da questi primi lavori (la prossima riunione è prevista a luglio a Milano, nell'ambito di Expo) ve li abbiamo anticipati ieri: sono quelli di sempre, più volte tirati in ballo e poi trascurati. “Di questi problemi, diciamoci la verità, si parla da trent'anni. Io, con altri miei colleghi, al ministero ci siamo stati tante volte e si è sempre parlato delle solite cose: la formazione, il fare sistema, la burocrazia. In realtà non c'è una vera e propria gerarchia tra problemi. Sono tutti allo steso livello” dice Fulvio Pierangelini. Cosa cambia? Forse la fiducia che il ministro è riuscito a trasmettere o i tempi, ormai maturi. “Secondo me qualcosa di buono può uscire” dice Antonio Santini “D'altronde o adesso o mai più. E poi il ministro è stato sincero e mi è sembrato determinato. Il problema resta la nostra burocrazia. L'importante è iniziare a fare le cose, ma sopratutto farne poche alla volta, ma farle concretamente invece di mettere troppa carne al fuoco. Ma comunque con il ministro a mio avviso possiamo avere adesso un insider all'interno del governo per le nostre istanze”.
È stato comunque un segnale importante, come ha detto Pino Cuttaia, questo incontro in cui il ministro Martina ha preso in carico le istanze emerse, per sviluppare un piano di lavoro. L'obiettivo dichiarato dal ministro è lavorare insieme per “portare in alto la cucina italiana”. Per farlo serve fare squadra e “passare da potenzialità individuali a un progetto collettivo”. Un'esigenza più volte emersa ancora spesso disattesa. La ristorazione, soprattutto quella alta, non è un lustrino con cui abbellirsi ma una professione che deve essere regolamentata e riconosciuta. Anche per il ruolo di promozione del territorio che negli ultimi anni ha portato un indotto di turismo enogastronomico decisivo per gli equilibri economici del paese. Dunque occorre lavorare sodo perchéla nostra “realtà enogastronomica diventi una leva del sistema Italia e non solo un fatto identitario”. Parola di Ministro.

I TEMI
Volendo sintetizzare i temi caldi sono tre: semplificazione e lotta alla burocrazia, formazione, sostegno e promozione dei prodotti italiani. “Bisogna fare un salto di qualità” dice ancora Martina “e fare nei prossimi mesi quel che non è stato fatto fino a ora per costruire un pezzo vero di futuro per il Paese”. E dà appuntamento a luglio, approfittando delle opportunità date dall'Expo alla ristorazione considerata, finalmente, “un potenziale enorme, ancora in parte inespresso”. E la ristorazione ha fatto la sua parte presentando proposte e richieste, forte di una rappresentanza diversificata: pizzaioli come Franco Pepe e Simone Padoan, pasticceri come Corrado Assenza, uomini di sala come Marco Reitano, superchef come Bottura, Romito, Cracco, espressioni dell'estremo nord come Norbert Niederkofler e Antonia Klugmann, o del sud come Pino Cuttaia, o Gennaro Esposito, rappresentanti di una ristorazione meno stallare ma non per questo meno importante come Pietro Zito, stranieri come Claudio Liu, nomi storici come Vissani, Antonello Colonna, Pierangelini, Corelli, Antonio Santini, realtà di piccoli centri come Aurora Mazzucchelli o dall'attitudine internazionale come Cristina Bowerman e poi Cerea, Cedroni, Battisti, Alciati e altri, perfino Heinz Beck in collegamento da Tokyo.

LA FORMAZIONE
L'alberghiero è ormai inadeguato alle esigenze della cucina e della sala. Bisogna ripensare il percorso formativo pensando anche a un'istruzione di livello universitario per la cucina, che tenga conto delle specificità del nostro Paese. Su questo punto interviene con fermezza Corrado Assenza: “Bisognerebbe uscire dalla logica di copiare la Francia. E entrare in un'ottica di valorizzazione delle nostre specificità. Faccio un esempio: la bottega rinascimentale, che è uno specifico italiano, da secoli. Significa che il ragazzo per imparare un mestiere deve stare a bottega, tanto. Fare uno stage di un mese e mezzo non serve a nulla, neppure si respira un'atmosfera”. Ma fa anche un altro esempio illuminante: in Italia la ristorazione all'interno degli spazi museali è quasi assente. A parte un paio di eccezioni, i visitatori dei musei, spesso stranieri, si trovano di fronte punti ristoro sciatti e di qualità scadente. Come possiamo pensare che gli altri abbiano una buona considerazione della nostra cultura gastronomica quando non lo facciamo noi per primi? Quando la cucina non è un patrimonio alla stregua dell'arte e della cultura? Quando l'alta cucina – ma anche la cucina semplice ma di qualità – non ha accesso nei luoghi in cui si trasmette cultura? Senza dimenticare l'altro aspetto della formazione: quello del gusto, l'educazione ai sapori e alla conoscenza gastronomica che è completamente assente.

LA SEMPLIFICAZIONE
La burocrazia è il vero nemico della ristorazione. È un coro unanime che lamenta l'eccesso di incartamenti, regole e controlli capaci di immobilizzare l'imprenditoria di settore.“Più che di burocrazia” dice Fulvio Pierangelini parlerei di burocrazie. C'è la burocrazia del lavoro, c'è la burocrazia fiscale, c'è la burocrazia sanitaria. Un esempio? Io ho un mio progetto da far partire, a Roma, e ovviamente è frenato dalla burocrazia”.Aprire in Italia non è allettante, basti pensare chemolti dei locali della vicina Francia – solo per fare un esempio – da noi sarebbero fuori legge. Vero, tra i ristoratori per uno ligio alle leggi ce n'è almeno un altro che le viola contando nella condiscendenza di chi deve controllare. Allora? Allora basterebbe che la legge fosse esecutiva, sempre e comunque. Che chi è deputato a fare controlli fosse preparato: un locale da 100 coperti con solo 2 camerieri e una persona in cucina, probabilmente ha personale non in regola.
Ma i controlli sono lo spauracchio anche dei ristoratori perfettamente in regola. Dal Mipaaf, fuori dai tavoli ufficiali, si ventila l'ipotesi di un Ruc (il registro unico dei controlli) nella ristorazione sul modello di quello adottato per la vitivinicultura che consente di condividere il risultato delle verifiche di un ente competente dandogli validità anche per altri enti. Che, in soldoni, significa eliminare passaggi continui di carabinieri, guardia di finanza, Asl e altri: anche 14 organi che possono effettuare controlli durante l'orario di lavoro, di fatto ostacolando la normale attività, “sono tutti enti che non si parlano tra loro. Basta questo per far capiretutto.Occorre andare avanti velocemente nella direzione della semplificazione”ha sottolineato Enrico Cerea. “L'ideale, immagino utopico, sarebbe avere un corpo di leggi ad hoc che servisse a regolamentare ma anche a tutelare gli esercizi pubblici, ma in assenza di questo sarebbe già importante alleggerire il carico burocratico” dice Cristina Bowerman, che aggiunge: “Quando si giunge alla conclusione che non rispettare la legge paga di più che rispettarla, c'è qualcosa di profondamente sbagliato che va corretto. Il sistema ha perso la sua funzione di controllo ed è solo vessatorio. Dobbiamo per far diventare conveniente essere onesti.
Mentre tra gli chef si fa cenno al sistema di certificazione in vigore a New York (e non solo lì), che espone nelle vetrine dei locali il livello di rispetto delle norme. Cosa significa? Che nessun ristoratore è obbligato a rispettare tutte le regole pena la chiusura, e, contemporaneamente, ogni cliente sa a quale rischio va incontro nello scegliere un ristorante di categoria più bassa. Sarebbe, soprattutto, la soluzione per quei locali che all'apertura non hanno mezzi o tempo per rispettare tutte le normative ma che, una volta iniziato a lavorare e quindi a guadagnare, possono progressivamente adeguarsi alle regole e salire di categoria.
Ma la burocrazia non è solo questa: è anche quella che limita il numero di stagisti in cucina, come dice Niko Romito, tornando implicitamente a un tema a lui caro, quello della formazione di cui gli stage sono parte integrante, ma anche la durata degli stage, arrivando, ed è l'esempio portato anche da Cesare Battisti: in un mese gli stagisti neanche li vedono i fornelli, se va bene rimangono a pulire verdura”. Cosa vuol dire allora ripensare la formazione e le sue regole? Vuol dire anche capire come regolamentare la loro presenza. Ricordiamo che uno stagista non può superare un numero prestabilito di ore settimanali, spesso molte meno rispetto a quelle lavorate in un qualsiasi ristorante. Vogliamo parlare della recente stretta intorno alla cacciagione? Ormai ricordo nostalgico per i cuochi che non possono più proporla nei loro menu. Altrove, e non molto distante da qui, la commercializzazione della cacciagione è legale. Da noi, dove la caccia è permessa, non si consente la vendita della selvaggina. Uno dei prodotti più nobili e con una storia profondamente legata alla nostra tradizione viene ormai vietato. Ma non nel consumo personale. È anche questa burocrazia,

PROMOZIONE DEL MADE IN ITALY
La tutela e la valorizzazione dei prodotti made in Italy è una questione focale: i moltissimi ristoranti italiani all'estero, soprattutto se di qualità, si trasformerebbero in ambasciatori della nostra tradizione enogastronomica, della nostra biodiversità e del territorio. Ma quanto è difficile reperire buone materie prime italiane all'estero? Quante volte la tracciabilità dei prodotti si perde e le contraffazioni si moltiplicano? Quante barriere ancora separano il vero made in Italy da chi, fuori dai confini nazionali, potrebbe conoscerlo, apprezzarlo e infine importarlo? È una questione calda, anche perché ha la sua contropartita proprio qui da noi: l'Italia non riesce a tutelare i suoi prodotti in casa, figuriamoci all'estero. Qualcuno ricorda la storia del falso lardo di Colonnata? O i tanti casi di prodotti che, pur dichiarati italiani, sono di fatto prodotti fuori dai nostri confini, dove la manodopera è più economica e le normative per le coltivazioni hanno maglie molto più ampie che da noi? Ma la promozione passa anche attraverso la capacità di attrarre un pubblico straniero, ma come dice Romito poi mancano le autostrade per raggiungerci”.

a cura di Antonella De Santis e Massimiliano Tonelli

linkedin facebook pinterest youtube rss twitter instagram facebook-blank rss-blank linkedin-blank pinterest youtube twitter instagram