Tom Sellers. Story a Londra raccontato dal suo chef

18 Mar 2015, 12:30 | a cura di
Decide che fare nella vita a 16 anni e a 26 raggiunge l'obiettivo, con il valore aggiunto di esperienze internazionali e prestigiosi riconoscimenti. E ora che il suo Story ha conquistato la prima stella, pensa a possibili incursioni in altri continenti. Ma non parliamo di arte: “It’s all about food” dice.

L’esperienza è una questione di qualità non di quantità. Sovverte il luogo comune che l'esperienza arrivi col tempo, Tom Sellers, che in poco più di 10 anni ha deciso il suo futuro, mosso i primi passi nelle cucine inglesi, affinato la sua preparazione con Tom Aikens a Londra, ampliato i proprio orizzonti a New York con Thomas Keller; passando poi da René Redzepi al Noma di Copenaghen. E, rientrato a Londra, nel 2013 ha aperto il suo ristorante: Story, premiato dopo soli 5 mesi dall’apertura con una stella Michelin, quando Sellers aveva 26 anni. Solo la prima, per ora, ne siamo certi.
A volte tracciare il profilo di un grande chef è complesso, in questo caso si può condensare tutto in pochi passaggi salienti: un percorso netto, intensissimo. Tanto che sembrerebbe già scritto all'origine. Lo dice la sua storia, e lo dice la location stessa del ristorante Story. In un’isoletta spartitraffico tra la fermata London Bridge e il mitico Tower Bridge. Lo Shard di Renzo Piano, ben in vista da qui, illumina lo sguardo dei clienti con i suoi riflessi. Sembra incorniciato nella sua unicità. E pensare che la struttura era un gabinetto pubblico. A rendere diverso questo ristorante sono le storie, come suggerisce il nome stesso. Tom ha in mente una cucina ricercata nella tecnica, ma soprattutto in quello che precede la preparazione del piatto. Ogni portata, promette lo chef, è un capitolo all’interno di una lunga storia, un’esperienza completa che appaghi mente e palato. E quando esordiamo dicendogli che come giovane chef ha un'esperienza incredibile subito ci interrompe dicendo Davvero? Non mi sento affatto giovane”.

Per molti l’esperienza si guadagna solo col tempo. Non si direbbe lo stesso di te che hai guadagnato tanta esperienza in pochi anni.
Uno chef deve sempre imparare. Da quando ho iniziato, a 16 anni, avevo in mente la mia idea di cucina, sognavo di avere il mio ristorante. Non si può dire che non avessi le idee chiare. Non avevo in mente di lavorare per altri per troppo tempo e quindi ho cercato di cogliere il massimo dai migliori chef in circolazione, nel minor tempo possibile. Sì, nel mio caso l’esperienza si è basata sulla qualità, grazie alle occasioni avute con alcuni dei più grandi chef al mondo.

Con i tuoi piatti vuoi raccontare emozioni e storie che riguardano solamente il tuo vissuto?
Mangiare qualcosa che vada oltre il piatto in sé rende l’esperienza gastronomica più potente e coinvolgente. Io cerco questo. A volte lo faccio attraverso storie che mi riguardano, altre è il piatto che ha una storia a sé, o magari è una storia legata al momento in cui ho concepito quella ricetta. L’importante è che ci sia una storia dietro, qualcosa di forte da raccontare, un’urgenza.

È quindi il piatto a creare la storia o viceversa?
È sempre la storia che crea il piatto. Prendo ispirazioni da tutto, da chi lavora con me, da amici, famiglia, dal mio mood, anche dal tempo. Da qualunque cosa, purché sia forte.

Un piatto quanto può arrivare a raccontare di una storia?
Un piatto può raccontare una storia nel suo complesso senza che manchi niente… anzi, può aggiungere sfumature difficilmente descrivibili in altro modo.

Visto che riesci a raccontare storie con la tua cucina, pensi di volerti cimentare nel descrivere altre forme d’arte con la tua cucina?
No, io cucino e basta. It’s all about food. L’arte è troppo. La mia vita è la cucina e tutto inizia e finisce lì, nei miei piatti. Non voglio ricreare arte. Voglio raccontare storie e voglio che sia tutto nel cibo, ma senza andare oltre ciò, non ho certe pretese. Se poi gli altri mi chiamano artista ok, ma mi sento solo un ragazzo che cucina e che ama cucinare.

Se dovessi introdurre la tua cucina ad un pubblico italiano che ancora ti conosce poco?
British. Just British.

Parlando di Italia, c’è qualche cuoco, ricetta, ingrediente, o magari un trucco in cucina che è presente nel tuo stile?
In Italia avete tanti grandi chef. E una tradizione davvero importante. Io però voglio giocare la mia parte, magari piccola, nel mondo della cucina e devo dire che nel mio percorso non ho mai avuto una connessione diretta con l’Italia.

Tra i tuoi maestri ci sono cuochi fortemente improntati al rispetto della materia prima nella sua forma più naturale. Cosa pensi invece di chi ha una vocazione più scientifica, o, volendo semplificare, della cucina molecolare? È così distante da te?
Non è qualcosa che mi stuzzica molto. La rispetto, ma non è per me. Non fa parte del mio stile, non voglio manipolare così tanto il cibo. Cerco un processo naturale che porti gli elementi ad essere esaltati nella loro espressione più pura e combinati insieme per dar vita a qualcosa di speciale. Il lavoro di cuochi che sperimentano con piglio scientifico è stato fondamentale per l’evoluzione della cucina, nessuno aveva mai osato tanto come Adrià, ad esempio, ed è un bene che esistano e ci siano stati personaggi del genere. A me, comunque, piace un altro tipo di approccio per il mio ristorante.

Come descriveresti la contemporary British Cuisine?
Non riesco nemmeno descrivere il mio stile. Non puoi mettere la materia cucina in box o categorizzarlo troppo. È una domanda troppo difficile e io non ho una risposta a qualcosa di così ampio. Il cibo è organico, qualcosa di vivo, viene dalla terra, come si può definirlo moderno o antico?

Tu invece ti ritieni uno chef contemporaneo?
Vorrei che la mia cucina fosse senza tempo, ma chissà. Non posso dirlo io e lo farà solo il tempo.

Hai un comfort food?
Certo! Fagioli sul toast. Sai i baked beans del supermercato e il pane in cassetta? Ecco!

Hai lavorato in molti paesi, viaggiando ed entrando in contatto con realtà diverse. Hai in mente di rimanere in Inghilterra o già stai pensando ad una prossima avventura lontano da Londra?
Sto pensando di esportare il mio ristorante, ma ancora devo definire la situazione. Ho in mente gli States o l’Asia, perché no. Ma sarebbe sempre un ristorante, non qualcosa di temporaneo. Una cosa alla volta, ora siamo concentrati qui.

Qualche ulteriore chef famoso con cui avresti voluto lavorare?
Avrei potuto lavorare con molti, ma va bene così. Fare esperienza con René Redzepi è stato un grande onore, ad esempio. In realtà ho sempre voluto imparare da tutti, ma non esserne influenzato troppo. Voglio mantenere il mio stile, la mia idea di cucina. Avrei voluto lavorare con molti, è vero, ma non tutto è possibile e quelli che hanno fatto parte del mio percorso sono talmente grandi che non posso certo avere rimpianti.

Come va il ristorante?
Benissimo. Se lavori bene, anche in un periodo difficile, la gente che verrà e pagherà perché apprezza quel che fai, ci sarà sempre. C’è sempre domanda per prodotti di qualità e l’alta cucina è tra questi. Il ristorante è sempre pieno, non potrei chiedere di meglio.

È stato difficile aprire qui in una public toilet?
Aprire un ristorante è sempre difficile, non conta dove. Abbiamo scelto questo perché mi piaceva l’area, la posizione, il fatto che potevo costruirlo da zero.

Il tuo ristorante è frequentato da molte star, ma al di là dei personaggi noti, c’è tipologia di cliente che puoi tracciare?
Abbiamo ospiti di tutte età, mestiere e da ogni parte del mondo. Il massimo!

Story | Gran Bretagna | Londra | 199, Tooley Street | tel. +44.207.1832117| www.restaurantstory.co.uk | www.tomsellers.co.uk/

a cura di Alessio Noè

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