Voci dal Master. Enrico Crippa, passaggio ad Alba

21 Mar 2015, 10:20 | a cura di
La spettacolarizzazione non fa per lui, preferisce la cucina, il suo orto, l'incredibile territorio in cui opera. I palcoscenici? DI tanto in tanto, ma solo per spiegare la sua cucina, senza mai perdere il suo stile pacato e riservato. Oggi incontriamo Enrico Crippa, chef del pluripremiato ristorante Piazza Duomo di Alba.

Opera in un territorio di assoluta eccellenza in Italia, ma esiste una città o un paese all’estero dove le piacerebbe esportare la sua cifra gastronomica?
Adesso non credo che farei questo tipo di scelta. Vivo in un contesto nel quale ho trovato un giusto compromesso. La piccola cittadina di 30.000 abitanti, una buona presenza turistica, il cibo, il vino, il mio orto, in un territorio dove lo scorrere delle stagioni è ancora percepibile. In questo momento non cambierei nulla.

Pregi e difetti della cucina italiana attuale: in cosa possiamo migliorare?
Se devo indicare un pregio oggi della cucina italiana, direi che non si è mai mangiato bene in Italia come adesso. Quanto ai difetti, direi semplicemente che bisognerebbe essere più gentili, più eleganti e più professionali, soprattutto nei confronti della clientela straniera, che attualmente, non lo si può negare, rappresenta un decisivo volano economico per chi fa cucina ad un certo livello. Anche noi nel ristorante di Alba, soprattutto nel periodo invernale della Fiera del Tartufo, accogliamo molti stranieri, fino ad arrivare ad un 70% delle presenze totali.

Cosa ne pensa di fenomeni come quello di Rene Redzepi del NOMA di Copenaghen o di Alex Atala del D.O.M di San Paolo del Brasile, e del loro mettere al centro della cucina l’ecosostenibilità e l’importanza del territorio?
In realtà in Italia è sempre stato così, questo modello già ci appartiene. Abbiamo sempre lavorato con i nostri prodotti e con i fornitori locali. È probabile invece che nei paesi in cui si sono affermati questi chef, il tema della cucina legata al territorio non fosse ancora molto sentito. Quindi per loro questo tipo di messaggio ha rappresentato un modo per creare attenzione mediatica e rilevanza professionale.

Secondo lei perché, nonostante le nostre eccellenze, è così difficile esportare la cucina italiana all’estero?
Credo che il problema maggiore sia rappresentato dalla difficoltà di approvvigionarsi dei nostri prodotti, soprattutto quelli freschi.

Alcuni chef, rispetto al mondo di rapportarsi alla brigata, parlano di “comandare con il silenzio”: le appartiene questa definizione?
Assolutamente si, credo molto nel lavoro di squadra. Una volta che la tua brigata è plasmata come la vuoi tu, e ognuno sa quello che deve fare, il silenzio è d’oro, bastano gli sguardi, e tutto viene tutto da sé.

Lei è uno chef schivo, riservato, ama lavorare in cucina, cosa pensa quindi degli chef più portati alla spettacolarizzazione di questo mestiere?
Ognuno di noi fa quello che si sente di fare. Se si vuole essere mediatici e si è in grado di farlo ben venga. Se invece si preferisce stare in cucina e lavorare per la clientela del ristorante ancora meglio. E anche in questo caso si può scegliere di essere personalmente in cucina, o si può invece delegare ad altri questo compito. Faccio un parallelo con il calcio, è un po' la differenza che passa tra un allenatore che si presenta al campo in tuta, e chi invece porta sempre la giacca e la cravatta.

Un ingrediente irrinunciabile della sua cucina?
Beh, essendo ad Alba sicuramente il tartufo ed il buon vino.

a cura di Alex Magazzini
prova del Master in Comunicazione e Giornalismo Enogastronomico del Gambero Rosso

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