Il concept della vecchia osteria Hi-tech e ricette della nonna

15 Dic 2008, 15:30 | a cura di

«È un finto clamoroso, un falso storico ma un falso ben riuscito». Solo che dai e dai, vuoi la patina del tempo, vuoi perché comunque di posti così ben ricostruiti in giro non ce ne sono molti, ma l’Osteria del Mirasole alla fine rischia di essere più vera del vero.

«Og

gi ormai glielo lascio credere che sta qui da sempre, me ne sono quasi convinto anch’io». “Io ero Vermeer” diceva di sé il più noto falsario del grande pittore olandese che rifilò le sue croste ai gerarchi nazisti. “Io ero l’osteria” potrebbe forse dire Franco Cimini che sul concetto ritrovato di antica trattoria cominciò ad applicarsi già vent’anni fa. Il progetto lo nutrì allora interrogando una vecchina dopo l’altra per aiutarsi a definire ambiente e proposte di cucina del suo nuovo locale inventato di sana pianta secondo gli stilemi dell’osteria di paese. Operazione filologicamente spessa, resa possibile anche dalla presa di distanza di Franco dai modelli dell’alta ristorazione praticati per anni. Raggomitolando il filo, Franco viene infatti da Villa Santa Maria in provincia di Chieti, paese famosissimo per la storia e il valore della sua scuola alberghiera e che ha dato i natali a genie di chef sparsi per il mondo. Una tradizione fondata dai Caracciolo che richiamavano i giovani cuochi nelle residenze sparse nel loro feudo e li formavano al lavoro. Lì cominciò appunto la fortuna di questi cuochi che oggi sono diventati una vera e propria lobby, la lobby dei cuochi abruzzesi.

La famiglia di Franco, per dire, di cuochi ne conta ben quattro, padre e tre fratelli, ma c’è anche uno zio. Uno dei fratelli si è guadagnato le due stelle Michelin nel suo ristorante di Edimburgo, il Bellini’s, un altro, oggi in pensione, ha lavorato al Gritti, il terzo ha un catering, «ma papà prima di tutti noi è stato in forze a Roma e a Firenze negli alberghi della catena Ciga. Io stesso sono stato per sei anni al Cipriani e al Danieli di Venezia».

È lì che Franco matura un modello di ristorazione antitetico, ben conoscendo che cosa significhi in cucina il concetto di lusso: «Avevo però sempre l’impressione di non mangiare mai nulla di vero, di non mettere in bocca nulla di decisivo, invece mi divertivo nei bacari. Così ho sempre pensato che se mai fossi riuscito a realizzare qualcosa di mio, sarebbe stato un posto informale e di grandi sapori. Come entrare nella casa di un amico, piena di atmosfera e di calore con il camino acceso in fondo alla sala. Il sogno ha cominciato a prendere forma quando una sera in un bar del paese qualcuno gli dice: “si è vuotato un posto fantastico, perché non ci fai l’osteria?”. Ho cominciato con l’ascoltare un’anziana signora di novant’anni che ben si ricordava dell’osteria che stava sulla via…»

Al sogno Franco ha dato poi forma bazzicando per mercatini, scovando qui una vecchia boiserie di legno scuro, là un vecchio pendolo, un grammofono, i ritratti di qualche avo preso a prestito… comprese le tende e i centrini all’uncinetto fatti da una nonna «di quelle che le mani vanno da sole».

A poco a poco il suo mondo interiore ha preso forma. La cucina ne è un corollario, una conseguenza logica. Certo, poi tenersi filologicamente fedeli al cibo del passato è più complesso. E qualche concessione bisogna pur farla, come quel piattino di Patanegra in terra di prosciutti o i passatelli asciutti con fegato grasso che denunciano un leggero franare della formula dura e pura. In compenso è padanissimo quel pane comune sfornato dal fornaio Guelfi, dalla crosta vitrea e la mollica meravigliosamente profumata che ci mangi insieme un salame con canonico retrogusto di muffetta. E ci bevi un Lambrusco Grasparossa a piede franco che è il Lambrusco com’era e come dovrebbe essere (lo produce l’azienda Zanasi).

In questa trattoria entra il solido retroterra di prodotti garantito anche dall’azienda agricola dei Fratelli Carretti (Caseificio S.Angelo). L’azienda, a ciclo chiuso, controlla tutta la filiera alimentare, dall’allevamento di maiali e bovini (1000 capi in tutto), alla macellazione, al caseificio (il latte della stalla ha ricevuto tantissimi riconoscimenti per l’alta concentrazione di panna) con una produzione di 40 forme di Parmigiano Reggiano al giorno. Dall’azienda arriva la dolce ricotta, amuse bouche dell’attesa insieme ad altri assaggi come il paté di fegato, i peperoncini ripieni, il calice di Franciacorta. Un benvenuto servito da Anna Carretti che ha incontrato Franco vendendogli i prodotti dell’azienda di famiglia. A ciclo chiuso… per l’appunto!

Le carni sono oggi il focus del locale. E non solo perché molta della scena gastronomica si allestisce intorno al camino, con tanto di ceppo dove le bistecche vengono tagliate, pesate su una grande bilancia rossa e messe sulla brace. «Non è stato semplice convincere la Asl che mostrare la carne non comportava pericoli per il cliente. Ho preso diverse multe ma l’ho spuntata».

Sulla brace del camino (che per la verità sono due, uno è nella cucina vera e propria) c’è anche un testo di Pontremoli (la teglia di terracotta su cui si cuociono i testaroli) il cui uso canonico viene dirottato verso altre preparazioni. Dentro al testo Franco cucina per esempio l’agnello con patate.

«L’agnello c’è sempre, è una inflessione del Centro Italia, è il richiamo delle radici».

 Ma il piatto per il quale tutti vanno pazzi sono i fegatelli di maiale nella loro rete nell’alloro che rosolano sulla brace di legna. «Fanno chilometri per venire a mangiarli». La cucina funziona su tutti i registri della tradizione, a cominciare dal ragù filologico, il ragù della Bassa, di maiale con i magoncini di pollo: «Ho pescato dai vecchi, loro mi hanno suggerito i tempi e le cotture diverse».

O i tortellini in doppio brodo di gallina, quello con gli starlin, gli occhi di grasso. E pazienza se sono serviti in un piatto che ha fatto arricciare il naso al più snob dei critici gastronomici, Camillo Langone, che lo ha paragonato al “cappello del dottor Balanzone rovesciato, ridicolo quanto scomodo”. «Mah, ci sembrava perfetto per raccogliere il brodo…».

Funzionale lo è, basta non avere in mente il piatto da osteria… Le deroghe al copione padano sono per la verità molte e tirano in ballo la tradizione del Centro Italia anche nei primi. Lasagnette con farina di farro, ragout di verdure e bufala; i vermicelli di Gragnano con pane fritto, colatura di alici e capperi di Salina; i paccheri con pesce spada capperi e olive taggiasche; i maccheroncini al torchio con carciofi violetti e spalletta stagionata di mora romagnola. Si torna in area con la gramigna al torchio con verza e salsiccia o con il galletto nostrano al Lambrusco, una ricetta di vecchia memoria modenese, «tre quattro ore di cottura che se il pollo non è sufficientemente coriaceo e ruspante il lambrusco non se lo beve e diventa solo un’assurda poltiglia. L’unica fortuna è che di polli così in campagna se ne trovano ancora».

O il coniglio arrosto, bianco e morbido da ricetta fornita, ca va sans dire, da nonna centenaria: il soffritto di sedano carota cipolla, la spruzzatina di aceto e di vino bianco, accanto si tiene il tegame di brodo per tirare a cottura come un risotto, piano piano lento lento. «Per seguire queste cotture devi stare a bottega, dall’alba al tramonto. Da noi non c’è velocità di esecuzione ma solo cotture molto lente, non insistiamo su quelle veloci. Le lunghe cotture oggi stanno tornando di moda. Anche una delle più importanti marche di cucina sta progettando le sue stufe per le lunghe cotture, ma in realtà qui non sono mai sparite.. il guanciale brasato, lo stinco di vitella al forno.. ».

La cucina è attrezzatissima: «Ho tutto, anche il Pacojet, sulla Gastrovac me la sto ragionando. Sono a favore di tutto ciò che è tecnico e tecnologico perché ci ha risparmiato un sacco di fatica, ma la moda non deve prevaricare».

Non prevarica ma bussa alla porta. E così Franco ha dovuto inserire qualche piatto di pesce, «mio malgrado perché c’è chi è a dieta, c’è chi è celiaco, c’è chi è intollerante. Ci sono necessità oggettive che ci hanno trasformato. Mi hanno accusato di essermi svenduto rispetto all’originario Mirasole, ma cerco semplicemente di accontentare la gente, di darle ciò che vuole. Non si può lottare contro i mulini vento, qualche compromesso è inevitabile. Non si possono fare solo i piatti considerati strettamente canonici, imporre solo un repertorio. Persino i toscani ci hanno rinunciato. Persino loro scendono a compromessi con la fiorentina. Prima se osavi chiederla un po’ più cotta ti dicevano prego si accomodi».

Antica Osteria del Mirasole
San Giovanni in Persiceto (Bo)
via Matteotti, 17 a
tel. 051 821 273
chiuso lunedì e domenica
aperto solo la sera

Raffaella Prandi

 

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