La Ribolla di Josko

21 Set 2010, 10:03 | a cura di

Sei mesi di macerazione sulle bucce e sette anni in anfora. Appena un grappolo a pianta, vendemmia sempre e solo da metà ottobre. È il vino simbolo di Josko Gravner, il punto di arrivo di un produttore di rango che dalla fine degli anni ‘70 ha fatto la storia del Collio e del vino italiano

 

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re da Josko Gravner dopo tanti anni è un viaggio sentimentale ed emozionale che ha pochi uguali. Soprattutto dopo che ha perso in un assurdo incidente suo figlio Miha, che ormai era diventato il suo “alter ego” e il suo erede spirituale, oltre che naturale. Josko e Marija hanno reagito con forza e dignità a una disgrazia così grande, anche se il loro sorriso oggi è un po’ più triste. Arrivando ho ricordato facilmente la strada. Via Lenzuolo Bianco, dopo il sacrario di Oslavia.

 

La casa si riconosce immediatamente perché fuori ci sono le anfore di terracotta dismesse. Lui le usa per vinificare i suoi straordinari vini. Sì, straordinari, una parola che non si dovrebbe mai usare, ma che in questo caso è doverosa. Frutto di un percorso umano e tecnico, ma anche intellettuale.

Alla fine degli anni Settanta Josko vinificava i suoi vini in acciaio e li imbottigliava in lunghe renane, come facevano tutti in Collio. Gli ettari, sempre 18 come oggi, le varietà molte di più. Faceva Ribolla, Riesling Italico, Sauvignon, Chardonnay, Pinot Grigio, poi il Vinograd Breg, che era un uvaggio di tutte le varietà all’infuori della Ribolla.

 

Erano vini rigorosi, il frutto ben delineato, l’acidità sostenuta, il corpo… beh, a San Floriano i 13 gradi erano di prammatica. Il Sauvignon del ’79 (e anche altri bianchi) glieli comprò tutti Marco Felluga, che ci aveva visto lungo. Ma per Josko quella fu una sconfitta. Si pentì presto, ma non era facile a quei tempi per un piccolo viticoltore sconosciuto tirare avanti.

Nel 1982, prima esperienza con le barriques e primo Chardonnay vinificato in legno. Da allora, e fino al 1994, quel tipo di lavorazione divenne il suo credo. Produsse dei bianchi complessi e potenti.

 

Lo Chardonnay del ’91, il Sauvignon dell’88. Ogni tanto qualche rosso. Il Rujno, il Rosso Gravner, con Merlot e Cabernet Sauvignon. Sempre 18 ettari, rese bassissime, era tanto se faceva  360 ettolitri, che neanche in Borgogna…

 

Poi il salto nell’iperspazio, dopo il 1996, dopo la grandinata di quell’anno e dopo alcuni viaggi, uno in California e uno nel Caucaso, in Georgia. Dagli Usa tornò sconvolto. I suoi vini somigliavano troppo a quelli di Napa anche se vigne e tradizioni erano agli antipodi.

Che senso aveva continuare su quella strada? Dove tutti usavano la stessa tecnologia e cercavano un gusto comune?

Lui era un vignaiolo, non uno stilista, e voleva soprattutto raccontare la sua terra, le sue vigne, il suo lavoro di ogni giorno. Proprio come facevano i vignaioli del Caucaso, ancora ingenui, veri, non toccati dalle mode internazionali. E ancora padroni di metodiche ancestrali, eredi dei vini antichi, dei Greci e dei Romani. Le anfore, le botti grandi di legno, che arrivarono con i Celti dopo il 500 dalle parti di Josko.

L’uva pressata e fermentata a contatto con le bucce, che nei bianchi macerano anche per oltre sei mesi. «Nei bianchi si può – afferma lui con sicurezza – i rossi si spogliano, perdono colore, più di quaranta giorni non li puoi tenere a macerare».

 

E le uve? «Mature, sempre. Io vendemmio dopo il 15 di ottobre: l’ho fatto anche nel 2003, quando tutti hanno vendemmiato in agosto. Ma di cosa vuoi che sappia un’uva vendemmiata così presto?» All’inizio i vini spiazzarono tutti e scatenarono polemiche e proteste. C’era chi gridava allo scandalo, alla truffa, chi diceva che era impazzito. «Avevo solo smesso di fare i vini per il mercato e iniziato a farli perché piacessero a me».

Certo è che passare da un solido e consueto bianco “barriquato” a dei vini dorati e un po’ velati, che sapevano di miele d’acacia e di tè nero, che quando li assaggiavi a occhi chiusi ti sembravano dei rossi, non è stato facilissimo. Ma è successo anche quando Picasso, che dipingeva come Raffaello, fece le Demoiselles d’Avignon e inventò il cubismo.

 

«Un piccolo errore però l’ho fatto. Volevo dimostrare, contrariamente a quanto sosteneva l’enologia accademica, quella di Riberau-Gayon, che si poteva fare vino senza alcuna aggiunta di anidride solforosa. Avevo torto. Magari poca, ma serve. Altrimenti il vino diventa lentamente aceto».

 

Il Breg del ’98, però, anche senza solforosa è ancora una meraviglia. Ma dal ’99 i vini tengono meglio, è fuori discussione. E recuperano una precisa componente di frutto al naso che rischiavano di perdere.

 

La nuova sfida di Josko ora è quella di limitare le varietà e le tipologie. «Fare bene un vino è già fin troppo difficile. Il nostro vitigno migliore è la Ribolla, e io vorrei fare solo quella. Sei mesi di macerazione in anfora e sette anni d’invecchiamento in botte grande. Con la Ribolla Riserva del 2003 ci sto riuscendo, senti». Un vino dorato viene fuori zampillando dalla botte. Già nell’aria si sentono profumi di albicocca e di cera d’api, appena affumicati, e il sapore è morbido, caldo, di un’armonia antica. Straordinario.

 

«Ma come hai fatto?» gli chiedo. «Beh, qui abbiamo fatto un grappolo per pianta, più o meno, e con Miha abbiamo vendemmiato dopo il 15 ottobre». «E l’acidità, non è crollata?» Risposta: «Noi siamo a sud, non c’è molto malico. Se fai maturare bene le uve, l’acidità sarà sempre quella che ci vuole. E se viene un po’ di botrytis, meglio ancora». E sulla porta, andando via: «Salutami Francesco Valentini, quando lo vedi – fa lui –  digli che i suoi vini e quelli di Damijan Podversic li bevo sempre».

Daniele Cernilli

settembre 2010

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