Lambrusco: ritorno agli antichi fasti

26 Gen 2010, 15:26 | a cura di

I Tre Bicchieri assegnati da Vini d'Italia 2010 

al Lambrusco di Sorbara Vecchia Modena Premium 08 Chiarli 1860 e al Reggiano Lambrusco Concerto 08 Ermete Medici & Figli riportano il Lambrusco al posto che merita. Non una scoperta, ma la riscoperta di un vino la cui immagine era stata macchiata da velleitar

ismi e forzature.

 

Non sono passati tanti anni da quando Gilles Villeneuve correva in Formula 1 con la tuta marchiata “Giacobazzi Lambrusco” e si faceva fotografare ai box mentre scherzava con Enzo Ferrari con una bottiglia di lambrusco in mano.

 

“Giacobazzi is my wine” era lo slogan di una campagna che puntava ad invadere il mercato americano con centinaia di milioni di lattine di lambrusco, il sogno di sprovincializzare quel vino così facile e divertente e smarcarlo dalla bottiglia, da una cucina così poco internazionale e da un territorio che chiudeva il lambrusco in una gabbia contadina e allora insopportabile.

 

Erano anni in cui si respirava un’aria di insofferenza verso tutto quello che era tradizionale e locale. Giacobazzi non conquistò il mondo e il lambrusco diventò per tutti il vino che non è un vino, lo scherzo enologico di una terra eccessivamente generosa. Sono stati anni bui dove a tenere una direzione sono stati i vecchi valori dell’attaccamento alla terra e della antica tradizione familiare di alcune storiche aziende private.

«Il sorbara era uno dei pochi vini italiani esportabili, uno dei grandi vini italiani, diverso, originale, conosciuto.»

 

A parlare è Anselmo Chiarli che continua: «Poi ad un certo punto, improvvisamente, nessuno ci prese più sul serio. I Tre bicchieri al lambrusco ci riportano semplicemente al posto che meritiamo, non sono una scoperta, sono una riscoperta».

 

I Chiarli, già a metà degli anni ’20 esportavano in Argentina e dopo la fine della guerra negli Stati Uniti.

 

«Nelle vecchie carte dell’ICI, l’Istituto per il commercio estero, i vini italiani imbottigliati ed esportati erano pochissimi: Barolo, Soave, Valpolicella, Verdicchio, Orvieto, Frascati, Cirò e, ovviamente, Sorbara, allora chiamato Sorbarese».

 

Gli anni bui del lambrusco sono quelli della presunzione di produrre milioni di bottiglie in serie, senza legami con la terra.

 

«Il lambrusco invece è anche storia di terroir», ride Sandro Cavicchioli. «Prendi il sorbara appunto, noi siamo fedeli a questi terreni di Cristo e Sorbara, i Chiarli hanno le vigne a Sozzigalli, verso Limidi, sulla riva sinistra del Secchia. Sono due terroir diversi, due diverse risposte. E ognuno di noi tifa per i suoi…».
Questa è la cultura della terra che nessuno fuori da qui sospetta.

 

Sandro Cavicchioli ti prende e ti porta in giro per vigne, in una pianura fatta di strade che si incrociano ad angolo retto, dove la geometria è rotta solo dalle curve degli argini. È un paesaggio di grande poesia, di nebbie e sagome d’alberi, che sembra non finire mai e che invece ha un suo raffinato linguaggio di suoli e acque.

«Noi siamo qui da generazioni», a parlare è Alberto Paltrinieri, un piccolo produttore che vinifica solamente le uve prodotte nei 15 ettari di proprietà, «e il nostro patrimonio è fatto di esperienza, l’esperienza che ci dice che il sorbara ha sapidità e profumi nei terreni sciolti, quelli vicino agli argini o quelli, abbastanza uniformi, di questo punto speciale, il Cristo, il punto dove Secchia e Panaro si avvicinano senza incontrarsi, una lingua di terra stretta tra i fiumi. Sono terreni sciolti, unici».

 

Alberto Paltrinieri è un piccolo produttore che non ha mai mollato l’identità più pura del sorbara, anche quando non andava di moda, come dice lui.

 

«L’idea dei territori del lambrusco, ci piace», cambiamo zona ma la filosofia resta la stessa, sostiene Giorgio Medici, «È un’idea che serve a spiegare un concetto fondamentale, un salto di qualità che può essere decisivo: il lambrusco non è un solo vino, ma un mondo di diversità, territori, caratteri. Noi abbiamo capito venti anni fa che per fare un salto di qualità serviva un rapporto più diretto tra uva e bottiglia, tra la vigna e il vino. Il lambrusco è anche fatto di grandi produzioni, ma questa possibilità di lettura dell’identità è qualcosa che eleva il rango di tutta la produzione.»

 

E infatti la famiglia Medici ha investito in campagna comprando diverse tenute e partendo dai vigneti. «I Tre bicchieri al Concerto nella mia testa sono i Tre bicchieri alle vigne di salamino della tenuta Rampata, un vero e proprio cru». (...)

Giorgio Melandri
26 gennaio 2010

N.B. L'articolo continua sul mensile di febbraio che sarà in edicola questa settimana. Oltre a un profilo dei maggiori produttori e alle schede dei principali vitigni da cui si ottiene il Lambrusco, troverete le 25 migliori etichette di questo vino secondo Gambero Rosso. Per ognuna una scheda di degustazione col punteggio in centesimi.

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