Massimo Spigaroli

8 Nov 2010, 16:02 | a cura di

Paladino dei salumi parmensi Spigaroli ha vinto la sua doppia crociata: recuperare un salume antico e unire qualità e quantità. «È tutta questione di proporzioni. Per fare 5.000 prosciutti l’anno servono 1.200 metri di antiche cantine»...


Ci sono persone

che non vivono senza sfide. Se non ne hanno una sotto mano la cercano. Se non la trovano la creano. Massimo fa parte di questo club. E quel che è peggio è che dello stesso club fa parte anche la sua famiglia: è un’eredità di casa Spigaroli. Dalla baracchetta davanti al traghetto sul Po al ristorante in muratura. Da mezzadri a possidenti.

«E tutto grazie a una lepre – fa ottimista Massimo – se mio nonno non l’avesse uccisa per sbaglio, o se invece di dichiararlo onestamente se la fosse mangiata, non sarebbe stato cacciato dal podere del maestro Giuseppe Verdi e non sarebbe arrivato alla Corte Pallavicina. E noi oggi non saremmo qui».

La conversazione avviene passeggiando nei terreni di quello che fu il castello dei marchesi Pallavicino, nella Bassa Parmense prossima al Cremonese: edificato nel XV secolo e trasformato in azienda agricola nel Settecento, è oggi proprietà degli Spigaroli. Una bella scrofa nera di Parma con i suoi piccoli grufola intorno ai nostri piedi.

«Mi ritengo fortunato. Provengo da una famiglia che aveva acquisito i saperi. Sapeva cosa sono la qualità e l’onestà. Era portata a fare le cose bene e a reinvestire. Il nostro scopo è non perdere le tradizioni, rispettare e portare avanti il lavoro dei nostri avi. Come un’asticella posta molto in alto alla quale tendere e arrivare. E dove siamo arrivati».

Indubbiamente è merito dei suoi genitori se oggi gli Spigaroli sono proprietari di quest’oasi di gusto e relax a Polesine Parmense, nel cuore delle Terre Verdiane: sono loro che partiti dalla baracchetta in legno e lamiera, con grandi sacrifici, hanno messo su il ristorante Al Cavallino Bianco. Ma si deve anche a Massimo e al fratello Luciano se, nel 1990, hanno acquistato l’Antica Corte Pallavicina, se il locale è oggi una delle tavole d’autore della zona e se la Corte è stata restituita alle sue vocazioni originarie, residenza d’epoca e azienda agricola dove si coltiva, si alleva e si fa cultura materiale: da qui proviene quasi tutto quello che arriva in tavola.

«Compriamo solo il 5 per cento. Il resto è tutto nostro». È stato Massimo a inventarsi –girando in lungo e in largo, nel senso letterale del termine, mezza Europa – l’allevamento di nera di Parma e di borghigiana, antiche razze suine che si ritenevano perdute, a recuperare un antico grande salume che stava scomparendo, difendendolo da chi lo voleva far diventare un prodotto industriale da fare ovunque in capannoni climatizzati, e a riprendere la produzione della spalla cruda, un dinosauro della salumeria della Bassa dall’incredibile potenza di aromi e sapore.

«Andando a lavorare nei ristoranti all’estero come cuoco ho scoperto prodotti che non avevano niente di speciale ma che erano molto più valorizzati dei nostri, pagati anche 30 volte di più. Da qui mi è scattata una molla: salvaguardare il nostro culatello fatto secondo le vecchie tradizioni, lavorato nei modi e nei tempi giusti, stagionato in cantina. Ancora un po’ e gli sarebbe rimasto solo il nome. Il sindaco di Zibello in un primo momento non era convinto. “Ma i tempi sono cambiati, gli dicevo io, prima si pensava alla quantità. Ma ora – erano gli anni Ottanta – i tempi sono maturi, non possiamo non cavalcare l’onda”».

Oggi il culatello di Zibello, di cui Massimo è il presidente del consorzio di tutela e il promotore del Presidio Slow Food, è un prodotto di alta gourmandise internazionale.

«Abbiamo creato un mostro sacro, di prestigio e business. Abbiamo messo a punto il sistema culatello, una fenomenologia fatta di qualità della materia prima, di condizioni microclimatiche – aria, nebbie, umidità del vicino Po – e di genius loci, ossia tradizione, saperi, esperienza».

Ma la sfida più grande di Massimo è di aver saputo conciliare eccellenza, lavorazione naturale e forza commerciale. Praticamente come entrare nella fatidica cruna dell’ago. I suoi culatelli vincono il titolo di “culatello supremo” al gran galà della Confraternita dedicata, arrivano sui banchi dell’alta gastronomia italiana e sulle tavole di ristoranti stellati, hanno tra i loro estimatori Alain Ducasse e Carlo d’Inghilterra.

Qual è il segreto – domandiamo – per raggiungere il difficilissimo equilibrio tra qualità e quantità? Qual è il punto prima del quale si è ancora artigiani e oltre il quale non lo si è più e si diventa industriali? Qual è il confine che marca la differenza tra un prodotto di nicchia e uno di massa?

«Vuole una definizione di artigiano? Non lo so, non l’ho mai capito! Non ho mai pensato alla quantità e alla commercializzazione ma solo alla qualità del prodotto. Il resto è venuto dopo – dice mostrandomi una delle stanze del relais aperto un paio d’anni fa all’interno del castello, un fascinoso mix di antico e moderno, civiltà contadina e alto design, comfort ed eleganza in un ambiente apparentemente rustico e spartano –. Ci sono artigiani che hanno impianti come gli industriali. E ci sono aziende che lavorano con criteri antichi, rimasti artigiani nel modo di fare. È una questione di rispetto delle tradizioni e di proporzioni. Puoi fare un prodotto nei capannoni ma non è più il vero culatello. Puoi mettere una maggiore quantità di salumi negli stessi spazi, ma così perdi la qualità, e anche il guadagno. Noi ci siamo dati dei numeri: 5.000 pezzi l’anno di culatello in oltre 1.200 metri quadrati. Non di più. Questa è la proporzione che ci consente il nostro giro di cantine e stanze antiche affacciate sul Po, ricoperte da muffe nobili centenarie. Non sono contro la modernizzazione. La modernizzazione ha portato a un miglioramento della qualità del vino e dell’olio, va bene per fare salumi standard ma non per i grandi salumi. Nello Champagne ci sono i cru, i grand cru e i prodotti base. Vanno bene tutti secondo il target e il prezzo. Ma non si possono perdere i grand cru, la tradizione, le punte. Il salume vive di microclima. Se glielo togliamo non avremo più quell’esaltazione di profumi e di gusti dovuti alle muffe delle cantine di stagionatura, non avremo più quella consistenza morbida e vellutata, quel sapore dolce e particolare di essenze fiumarole che ricordano la rosa e la viola. Tutte cose che ci regala la vicinanza del grande fiume Po».

di mara Nocilla

novembre 2010

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