Climate change: come cambia la viticoltura con il surriscaldamento terrestre

11 Dic 2018, 16:00 | a cura di
In Polonia i grandi della Terra si riuniscono per contrastare il riscaldamento globale. Un problema che riguarda anche il mondo della vitivinicoltura.

Solo due generazioni per salvare il Pianeta dal cambiamento climatico. Dopo potrebbe essere troppo tardi. È questo l'SOS lanciato dal presidente dell'Istituto superiore di Sanità Walter Ricciardi dalla Polonia, dove si sta tenendo la conferenza internazionale sul clima Cop 24, organizzata dalle Nazioni Unite per fare il punto sulla situazione attuale e trovare possibili soluzioni.

Il problema riguarda, prima di tutto, la salute dell'uomo e la sua stessa esistenza, ma non ne sono immuni le attività connesse alla terra, viticoltura in testa. Non è un caso che negli ultimi tempi l'argomento clima sia diventato protagonista di ogni incontro, convegno o dibattito sulla viticoltura, tenuto a qualunque altitudine e latitudine del globo.

I due modelli previsionali e le loro conseguenze

I due modelli previsionali climatici (1,5 gradi e 2 gradi) prevedono entrambi – con impatti diversi - un incremento delle temperature medie nella maggior parte delle regioni terrestri e negli oceani, forti precipitazioni in varie regioni, mentre in altre un probabile deficit di siccità e precipitazioni.

A creare ulteriori preoccupazioni, c'è anche l'innalzamento medio del livello del mare, previsto in un range compreso tra 0.26 e 0.77 metri entro il 2100, in caso di aumento di temperature di 1,5 gradi. Superiore di circa 0,1 metri nel caso in cui si tendesse ad un incremento di temperature di 2 gradi. Ovviamente in un caso o nell'altro, gli impatti sugli ecosistemi e sulle specie in essi viventi sarebbero alquanto importanti, così come quelli sulla salute umana. Sulla terra ferma particolarmente colpite sarebbero le foreste, ma in generale l'agricoltura sarebbe messa a dura prova. In questo percorso, purtroppo inevitabile, l'unico obiettivo possibile nei prossimi anni è cercare di non superare il primo modello previsionale. Ma per farlo bisogna cominciare da subito. A tal proposito l'Intergovernmental Panel on Climate Change, dalla Polonia, ha confermato che, per tenersi entro gli 1,5 °C, sarà necessario tagliare le emissioni di CO2 del 45% entro il 2020. In mancanza di azioni radicali, la temperatura media aumenterà oltre i 2 °C.

Il futuro dei vigneti

Solo qualche settimana fa, un monito da non sottovalutare è arrivato dalla 27esima edizione di Merano WineFestival, dove il climatologo Georg Kaser ha fornito una serie di preoccupanti dati scientifici che confermano i due modelli di clima di Lee Hannah, climatologo di Conservation International. Secondo questi studi, le regioni vinicole più importanti del mondo - dal Cile alla Toscana, dalla Borgogna all’Australia - vedranno diminuire le loro aree coltivabili dal 25% al 73% entro il 2050, e ciò costringerà i viticoltori a piantare nuovi vigneti in ecosistemi precedentemente indisturbati, a latitudini più alte o altitudini più elevate, eliminando le specie vegetali e animali locali. Una soluzione? “Cambiare le proprie abitudini” ha detto, senza giri di parole, il professore Kaser “e le politiche a livello mondiale, altrimenti sarà il clima a cambiarle drammaticamente”. E questo solo per sperare di rientrare nel primo modello previsionale, secondo cui il riscaldamento globale dovrebbe raggiungere 1,5 gradi Celsius tra il 2030 e il 2052. Anche se, al momento, l'andamento annuale porta a ipotizzare che l'incremento potrebbe essere più alto: tra 1,5 e 2 gradi.

Vitigni italiani i più resistenti

Basta dare un'occhiata a ciò che succede nel corso dell'anno, per capire come ormai ci si trovi in situazioni climatiche inaspettate e del tutto nuove: primavere precoci, gelate tardive, estati molto calde e siccitose, segnate a tratti da violenti temporali con piogge intense e grandine. Cosa può fare la viticoltura per adattarsi a tutto questo, senza mettere a rischio la propria esistenza? Ne abbiamo parlato con Luigi Frusciante, professore di genetica agraria dell'Università di Napoli, intervenuto all'Anteprima di Vitigno Italia a Napoli. “Per mitigare i danni” ha spiegato “è necessario coltivare varietà di vite che meglio si adattano a tali cambiamenti. I grandi vitigni italiani (aglianico, nebbiolo, sangiovese, magliocco, garganica etc.) hanno mostrato una maggiore adattabilità alle sfavorevoli condizioni climatiche. Viceversa, i vitigni internazionali hanno sofferto in modo particolare le condizioni climatiche avverse, come si è verificato nel 2017, anno caratterizzato da alte temperature e siccità”.

Nuove varietà e diversità genetica

Rivolgersi a determinate varietà piuttosto che ad altre, non è, però, l'unica risposta possibile. Ci sono anche delle misure di adattamento che vanno osservate, come ricorda Frusciante: “Una strategia di adattamento a questi mutamenti ambientali è la selezione di nuovi genotipi, con diversa tolleranza alle alte temperature e maggiore resistenza alle principali patologie, quali peronospora e oidio. Lo sviluppo di varietà più adatte alle nuove condizioni ambientali” continua “si rivela una preziosa strategia di innovazione nel rispetto della tradizione. Le moderne tecniche di miglioramento genetico vanno proprio in questa direzione e consentono di delineare varietà vitivinicole tradizionali, dalle ricercate caratteristiche, ottimizzate per far fronte al cambiamento climatico in atto e per ridurre i trattamenti antiparassitari”.

A onor del vero, però, i dati che provengono oggi dal panorama vitivinicolo mondiale non sono così incoraggianti: 12 varietà di vite da vino (solo l’1% di quelle coltivate, ovvero circa 1.100 varietà) occupano il 45% del suolo dedicato ai vigneti nel mondo, raggiungendo, in alcuni Paesi, persino l’80%.

Si utilizza, dunque, solo una piccolissima percentuale della diversità genetica viticola esistente su scala globale. “La maggior parte di queste varietà è precoce” continua il professore Frusciante “quindi soffre enormemente le temperature elevate su lungo periodo e la siccità, fattori che incidono significativamente anche sulla qualità del vino. Tra le varietà non comprese nell’1% maggiormente coltivato, se ne rinvengono alcune con buona tolleranza alle alte temperature e alla siccità e dunque con un potenziale di estremo interesse”. Ed è anche da queste che bisogna ripartire per non rischiare di ritrovarsi impreparati a fattori ambientali sempre meno controllabili.

Spostamento dei vigneti. Le aspettative del Regno Unito

Tra le conseguenze dei cambiamenti climatici, c'è anche lo spostamento dei vigneti verso l'alto e verso Nord. Così, se alcune regioni (soprattutto quelle del Sud) ne temono gli effetti, altre guardano ai cambiamenti come a una nuova opportunità. È il caso dell'Inghilterra e del Galles che, infatti, già da tempo hanno iniziato a studiare e individuare le aree più vocate alla viticoltura. Qualche settimana fa, l'Università di East Anglia ha pubblicato uno studio secondo cui, nei prossimi anni, la produzione inglese di vino (in particolare di bollicine) potrebbe rivaleggiare con quella francese. La ricerca, che si basa sul modello combinato EWVS (Terrestrial and climatic English and Welsh Viticulture Suitability) ha individuato almeno 35mila ettari di terreno (non ancora vitati), adatti all'espansione. In gran parte, si trovano nel Kent, nel Sussex e nell'Anglia orientale, dove le temperature più miti, rispetto al passato, potrebbero regalare interessanti sorprese. A dimostrazione di come il Regno Unito ormai faccia sul serio, nel documento si indicano anche le caratteristiche che i nuovi impianti inglesi e gallesi dovrebbero soddisfare: un'altezza ideale inferiore a 100 metri (inferiore a quella della regione dello Champagne per evitare l'eccessiva azione del vento); esposizione a Sud; pendenza del terreno compresa tra il 5 e 10% in modo da non dover rinunciare all'impiego di macchinari.

Lo studio, che sembra anche un'esortazione patriottica a lanciarsi in modo più deciso nella produzione vitivinicola, conclude manifestando una certa sorpresa nel constatare che la maggior parte di queste aree vocate abbia per tutto questo tempo trascurato la viticoltura. Quanto tempo passerà, adesso, prima che si passi dalla teoria alla pratica?

Cambiamento climatico e cambiamento varietale

Non è la prima volta che nella storia si assiste a dei cambiamenti climatici di notevole portata. Senza andare troppo indietro nel tempo, basterà ricordare due eventi: la Little Climatic Optimum, del periodo medievale (dal nono al 14esimo secolo), quando le alte temperature “spinsero” la viticoltura verso Nord, in particolare verso l'Inghilterra; la Little Ice Age, la piccola glaciazione (tra il 14esimo e il 19esimo secolo), che fece compiere alla viticoltura il percorso inverso, spostando il fulcro verso la Francia e l'Italia. “La vite è una pianta emblematica nella ricostruzione del clima in Europa” lo dice il professor Attilio Scienza che ricorda che “nella storia, il cambiamento varietale ha dato il maggior contributo adattativo, con la scelta di varietà capaci di superare le crisi climatiche, spesso portando vitigni da altre zone”. Qualche esempio? “L’introduzione dello Chardonnay e del Gouais in Champagne in sostituzione del Pinot nero e di altre varietà originarie, è avvenuta durante la 'piccola glaciazione' dal XIV al XVIII sec. Così, nel Veneto molte varietà tardive furono abbandonate in occasione della grande gelata del 1709 e alla ripresa delle condizioni climatiche favorevoli, la forte richiesta di vino favorì la coltivazione dei vitigni più produttivi”.

Oggi la storia si ripete: “nella Heathcote australiana, al posto dei vitigni provenienti dalle regioni continentali europee, si stanno introducendo varietà dell’Italia centro meridionale, quali ad esempio il Montepulciano, il Nero d’Avola, il Sagrantino, l’Aglianico. Interessanti anche i risultati di alcune varietà ottenute in California e nel sud della Francia a partire dagli anni ’50, incrociando vitigni meridionali con vitigni atlantici”.

a cura di Loredana Sottile

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 6 dicembre

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