Cucina anni '90. Storia gastronomica italiana

10 Giu 2019, 13:00 | a cura di
Gli anni Novanta rimangono i più imperscrutabili di tutti, i meno studiati, i meno codificati. Nel mensile di giugno abbiamo cercato di capirci qualcosa.

Ci sono stati due crolli a delimitare un decennio. Nel novembre del 1989 quello del Muro di Berlino. Nel settembre del 2001 quello delle Torri Gemelle di New York. Il primo crollo ha fatto finire un’epoca, il secondo ne ha fatta iniziare un’altra. Ma in mezzo, cos’è successo? Sono successi gli anni '90.

Cosa c'è stato prima e dopo gli anni '90

Nel 1989, con il crollo di un muro, finisce un’era. Nel 2001, con il frantumarsi di due torri, ne inizia un’altra. Ma in mezzo, cos’è successo? Tra la fine della Stagione della Speranza e l'inizio di quella della Paura che è stato? Gli anni Novanta sono un passaggio fondamentale nella vita di chi abbia superato la quarantina: si sono aperti come Era dell'Ottimismo - la fine del comunismo, delle ideologie… - si sono chiusi sotto le macerie del World Trade Center e i manganelli di Genova. Eppure rimangono i più imperscrutabili di tutti, i meno studiati, i meno codificati. Com’era l’Italia? E soprattutto: come si mangiava?

Raccontare la cucina di un decennio è cosa lunga

Anche perché per capirci qualcosa è necessario prima un poco di contesto. E per contesto intendiamo, naturalmente, Silvio. Silvio, sì: rimembrate ancora? Il 17 febbraio 1992 una macchina della polizia si dirige verso il Pio Albergo Trivulzio dove arresta Mario Chiesa, socialista, che ha appena intascato una mazzetta da sette milioni di lire. È l’inizio dell’inchiesta Mani Pulite che travolge la politica italiana, mettendo fine a quella che verrà chiamata la Prima Repubblica. Sono gli anni del pool, di Antonio Di Pietro, di Gherardo Colombo, di Piercamillo Davigo, delle monetine a Craxi di fronte all’Hotel Raphael (è il 30 aprile 1993). Due anni dopo il piccolo schermo viene riempito da una faccia che tutti imparano a conoscere bene: è il 26 gennaio del 1994 e l'imprenditore Silvio Berlusconi dalle proprie reti televisive annuncia l'epocale “discesa in campo”. Il 27 e 28 marzo dello stesso anno, con un partito nuovo e una campagna elettorale lampo vince le elezioni e l’11 maggio diventa Presidente del Consiglio. Questi sono gli anni Novanta che vengono in mente a tutti.

Silvio, Mani Pulite, e poi?

Le vicende giudiziarie. La politica. Ma la vita degli italiani? Com’era la vita degli italiani? Prendiamo un punto di inizio non a caso, l’8 luglio. Ricordate dov'eravate l’8 luglio 1990? Stavate guardando Diego Armando Maradona stringere la mano a Lothar Matthaus all'Olimpico di Roma all’inizio della finale dei Mondiali di Italia 90, Argentina contro Germania ovest. Finisce uno a zero per i tedeschi, gol di Brehme a dieci minuti dalla fine. Ecco, quell’otto luglio comincia un decennio misterioso, allegro e depresso, luminoso e controverso.

In radio arrivano le boy & girl band stupidine – le Spice Girls, i Backstreet Boys – ma anche lo scazzo esistenzialista dei Nirvana, l'inarrivabile depressione di Creep dei Radiohead; in televisione vincono le menate adolescenziali di Beverly Hills, di Melrose Place, di Dawson Creek ma anche il loro contraltare, la provincia esoterica e grottesca di Twin Peeks; Fiorello canta il karaoke e Baggio sbaglia il rigore; Ambra è radioconnessa con Boncompagni (prima puntata di “Non è la Rai”: 9 settembre 1991), l’estate vuol dire Festivalbar, al pomeriggio tutti di fronte al “Principe di Bel-Air” (prima puntata: 10 settembre 1990); i ragazzi danno da mangiare al Tamagotchi e si sfondano di Game Boy, leggono Cioè e guardano Holly e Benji, le famiglie provano a indovinare le canzoni con Sarabanda, gli adolescenti appuntano pensieri sulla Smemoranda e i ragazzoni sprofondano sul divano devastandosi di Fifa 98.

Cucina anni '90 vs. cucina anni '80

Ma il cibo? Qual è il cibo degli anni Novanta? In Italia le rivoluzioni, diciamolo, sono arrivate nel decennio precedente. Vi basti questo triplete a dimostrarlo:

1985 - a Bolzano apre il primo Mc Donald’s italiano.

1986 - Gualtiero Marchesi conquista per la prima volta le tre stelle Michelin con il ristorante in via Bonvesin de la Riva a Milano.

1986 - a Bra nasce Slow Food, il movimento fondato da Carlin Petrini in evidente contrapposizione con la cultura crescente del fast food. E nello stesso anno sboccia anche il Gambero Rosso.

Dunque, nel mezzo del decennio precedente, in pochi mesi è arrivata la globalizzazione, è giunta al suo massimo apice la cucina italiana moderna, è stata avviata la rivoluzione del prodotto, del territorio, della consapevolezza, del “mangiare è un atto agricolo”. Tanta roba gli anni Ottanta!

Difficile per il decennio successivo rivaleggiare con una decade così tosta, così rivoluzionaria. E in effetti gli anni Novanta sono quelli del consolidamento e dei germogli: si fortifica quello che è stato costruito prima e comincia a crescere ciò che diventerà grande dopo. Ma prima di parlare con i protagonisti di quegli anni e di fare qualche riflessione, concentriamoci su ciò che era arrivato nelle case degli italiani.

Cucina anni '90. Il cibo industriale

Per le feste ancora vanno i cocktail di gamberi e la Regina degli anni Ottanta – sua maestà la rucola – trova il perfetto accostamento con la tagliata e i pomodorini; d’un tratto lo yogurt diventa gelato; d’estate che bella festa è l’insalata di riso, d’inverno che grande consolazione la crêpe alla Nutella; a colazione fanno capolino e subito dilagano i plumcake che entreranno saldamente nelle abitudini degli italiani, in riva al mare si leccano coni di gelato “gusto Puffo”. Il cibo arriva nelle case degli italiani sempre più dalla grande distribuzione – che consolida la sua diffusione nel Paese – ma ancor prima attraverso la televisione commerciale che continua nella propria cavalcata iniziata, anche qui, nel decennio precedente.

Lo spot alimentare più ricordato?

Quello mitico della Ferrero Rocher: la contessa che tartassa Ambrogio con la sua voglia di “qualcosa di buono” è del 1992. Un giovanissimo Stefano Accorsi sui lidi romagnoli costruisce la sua popolarità semplicemente ripetendo “Granel, stracciatel... Du’ gust is megl che uan” (è il 1995). Il vestito di Charlize Theron si sfilaccia per un Martini nello spot più mozzafiato della decade (oggi sarebbe ritenuto sessista?), mentre in quello più familiare e rassicurante la tenera Kaori (emblema di una wave giapponese che conquisterà mezza Italia a suon di sushi) va matta per il Philadelphia.

L’industria alimentare, insomma, sta continuando a prendersi il paese: la robiola del supermarket vince su quella del casaro, i du’ gust sul gelatiere artigianale: in quegli anni Carlin Petrini ha molto da fare per riuscire a convincere i consumatori italiani che piccolo e locale è bello. Il chilometro zero non se lo fila nessuno. In un bellissimo, recente racconto, Donatella Di Pietrantonio – autrice de "L'arminuta", premio Campiello 2018 – ricorda l'infanzia abruzzese e dice che odiava il pecorino perché ce n'era tanto: allora locale faceva ancora rima con "provinciale", si cercava il diverso, il lontano, "fatto in fabbrica" perseverava a esercitare un fascino da Boom, da Italia industriale. Sembra passata una vita. E in effetti è passata una vita! Perché gli anni Novanta sembrano sempre l’altro ieri e invece è un quarto di secolo fa…

Anni '90 sono anni di passaggio e l'Albereta ne è il luogo

La paella? La facevamo tutte le sere!” Se lo ricorda bene Matteo Baronetto – da un lustro chef di Del Cambio a Torino – che nel 1992 lavorava in una pizzeria vicina a casa, nella cintura torinese e preparava spesso quello che per tanti motivi possiamo considerare il piatto simbolo del decennio. Simbolo di europeismo, di scambio, di apertura e di fratellanza tra popoli, al sapore di Interrail e Erasmus (oltre che di riso bruciato). Poco dopo, nel 1994, il giovane Matteo arriva da Gualtiero Marchesi che s'è appena trasferito all’Albereta. Marchesi è consolidato, fortissimo. In cucina qui, a un passo dal lago d'Iseo, lo chef è Cracco: con lui ci sono Berton e Camanini; Crippa è appena andato via, in Giappone, Lo Priore anche, ha appena lasciato. Ci sono tanti dei cuochi che faranno grande la cucina italiana del terzo millennio. Da questo punto di vista i Novanta sono anni di passaggio e l'Albereta ne è il luogo.

Hanno ucciso l'uomo ragno. E anche le trattorie

Ma se nell’alta cucina è tempo di transizioni, nella ristorazione popolare si sta perpetrando un delitto efferato: qualcuno sta uccidendo le più grandi trattorie del Buon Paese. Chi è il colpevole? Il fast food, certo, Petrini ci combatte dagli anni Ottanta. Ma le osterie sono, soprattutto, vittime del fuoco amico. A sparare sono le pizzerie. “In quella in cui lavoravo – continua Baronetto – non solo facevamo paella in continuazione, ma tanti gamberi con la salsa cocktail e un altro grande classico: gli spaghetti allo scoglio. Per finire, l’aspic”. Proprio in quegli anni le pizzerie del nord – al sud già succedeva – cominciano ad affiancare al forno la cucina. “Fu un grande errore: se le pizzerie avessero continuato a fare solo pizze, sarebbero sopravvissute le trattorie. Con un doppio vantaggio: migliori pizze, miglior cucina”. Se le ricorda, le pizzerie anni Novanta, Baronetto: quelle con le tovaglie di carta a quadri e i fermagli che dopo un cliente facevi un fagotto e buttavi via tutto; quelle in cui non si prenotava e si faceva la fila; quelle in cui s’andava con la squadra di calcetto ed era un evento; quelle in cui alla gente non fregava niente del locale… “poi a un certo punto sono arrivati gli arredi belli, il bancone del pesce, l'aria condizionata ed è finita un’era”.

È l'Italia che va, profumo di sigarette

Va detto che l'aria condizionata ci voleva. Non solo per l’estate, ma perché nei ristoranti si fumava. Ma ve lo ricordate? Sembra passata un'era geologica, e invece siamo noi, vent'anni fa: prima del ministro Sirchia ci sparavamo dei gran pacchetti di Marlboro, aspirando voluttuosamente tra una portata e l'altra. Fumavano tanto, sempre, ovunque. Sugli spaghetti allo scoglio, sul vitello tonnato, sulla pizza, sulla panna cotta (che in quegli anni ha avuto un inspiegabile boom) e sul profiterole industriale, bevendo Barolo e Sassicaia, in trattoria e nei gastronomici. Ma il palato non ne risentiva?” viene da chiedersi oggi, che viviamo i beati anni del castigo in cui non possiamo più fare niente e forse nemmeno ne abbiamo più voglia. Uno dei più grandi nasi italiani – inteso come intenditore di vini – disse: "fumo e questo non mi fa perdere più del 5% delle mie capacità olfattivo-gustative". Non abbiamo strumenti per confermare o smentire questa affermazione, ma la verità è che la domanda è sbagliata: a tavola, negli anni Novanta, si stava soprattutto per stare insieme, far casino, trascorrere la serata. Il ristorante, anche quello chic, era spesso un pretesto: mangiavamo meno fuori, e quando uscivamo volevamo far bisboccia. Non vi sovvengono quegli anni così adorabilmente cazzari? Secondo voi esageriamo a ricordandoli così? Beh, allora se non vi fidate di noi, fidatevi di Mauro Uliassi.

Uliassi 1990: cura, fritti e Champagne

Che anno il 1990. Sul lungomare di Senigallia apre “Uliassi – Cucina di mare”. “Che energia c’era, che forza... Senigallia era piena di gente, vivacissima”. Sulla riviera adriatica sono anni di grigliate e fritti misti; “Ma si mangiava già bene – racconta il super chef marchigiano con il suo tono entusiasta – C’era Moreno Cedroni sempre pieno, faceva gli scampi con la polenta, il pesce al sale... Noi abbiamo pensato di seguirne l’onda e via, tempi pazzeschi”. Ricorda Uliassi che all’inizio del decennio ebbe due intuizioni che resero il ristorante popolare: “Abbiamo preso delle padelle in rame bellissime e cominciato a servire cozze e vongole non nella pirofila, come gli altri, ma dentro questi splendidi contenitori; e poi tutti facevano l’insalata di mare mettendo assieme due seppie e due gamberi il lunedì per poi servirla tutta la settimana: noi cominciammo a servirla tiepida, con le verdure, le fave, gli asparagi, con più cura…”. Ecco: la cura. La padella più bella, l'insalata fatta per benino: gli anni Novanta sono anche questo, la cucina italiana tutta – non solo Marchesi, ma anche un ristorantino in una località balneare – che si fa mano mano più raffinata, più attenta. Le cose buone già c'erano, ora si fanno più precise. C'è più controllo, ma, come si sa, il controllo serve se dietro ha potenza: “Avevamo una capanna messa insieme con lo stucco ma eravamo sempre stipati all’inverosimile, ogni sera stappavamo Dom Perignon perché avevamo raggiunto un nuovo record, di numeri, di piatti... Lavoravamo come bestie ma tutto ci dava carica: il mare, la gente di Senigallia che ci ha voluto subito bene... poi quando nel 1995 ci è arrivato un telegramma dalla Michelin che ci aveva dato una stella non ci potevamo credere”.

L'Italia vista d'oltreconfine

Nel 1990 Uliassi vara “una capanna messa assieme con lo stucco”, nel 1993 un giovane che sarebbe diventato un grande cuoco, invece, lascia l’Italia. È Antonio Guida – oggi Tre Forchette al Seta di Milano – e sbarca a Zurigo, per cucinare da “Orsini – Ristorante Cucina Italiana”. “Ho fatto l’opposto di quello che consiglio oggi ai giovani – sorride Guida – dico loro di formarsi nel nostro Paese, conoscere le nostre cucine, poi andare all’estero e infine tornare; io invece ho cominciato da fuori”. E la cucina italiana vista da Zurigo ha l’aspetto del tris di pasta: “Era il piatto più richiesto in assoluto: un piatto tripartito con tagliolini al pomodoro, agnolotti di borragine e ricotta, ravioloni di carne con panna e formaggio. Faceva il tricolore, era vendutissimo, ma a me non piaceva: i tre gusti non legavano”. Guida ancora ha il menu di quell’anno in cui c’è una cucina italiana garbata, per il pubblico internazionale: carpaccio piemontese, insalata d’indivia con scampi all’olio extra vergine, minestrone alla paesana, pasta e fagioli alla veneta, zuppa pavese, crema di pomodoro e basilico, piccola marmitta di coda di bue, taglierini al pesto, spaghetti all’arrabbiata, tortellini di pesce con astice e gamberoni, raviolo aperto al ragù di rombo, filetto di sogliola ai carciofi freschi, costoletta di vitello alla milanese, zuppa inglese. “Zurigo è stata formativa: là ho visto quello che avevo studiato a scuola, le grandi cucine, le grandi brigate, la gerarchia... In questo gli svizzeri sono imbattibili”. Poi Guida si fa tre anni da Pierre Gagnaire – di cui ricorda ancora lo scampo in tempura con foglie di verdura disidratate – e, proprio alla fine del millennio, torna in Italia. Ma non in un posto qualsiasi: nel 1999 approda all’Enoteca Pinchiorri. “Facevamo i grandi piatti che hanno reso grande l’enoteca, i pici con le briciole, il rombo col fegato grasso, il piccione con i fagioli”: Guida ancora conserva i menu di allora con gli appunti per la perfetta esecuzione, è un diletto scorrerli anche perché sono un simbolo di quel decennio.

Si mangiava meglio senza social?

Siamo arrivati fin qui senza parlare dell'elefante nella stanza. Anche perché nel 1990 l'elefante non c'era: Internet era roba da smanettoni, i social non esistevano, coi telefonini a malapena si riusciva a telefonare se estraevi bene l'antenna. Sembra incredibile ma sì, c'è stata un'era in cui non prenotavamo con The Fork ma telefonavamo, non ordinavamo con Deliveroo ma veniva il ragazzo di Pizza Speedy, non facevamo freddare la pasta cercando l'angolatura perfetta per fotografarla e, soprattutto, non correvamo a postare su Instgram per fare i fenomeni e su TripAdvisor per fare i rompicoglioni. I social hanno avuto due effetti molto negativi e uno molto positivo sulla ristorazione: dunque questi tre fenomeni vanno letti al contrario parlando di trent'anni fa. Il primo effetto molto negativo è stato lo spingere i cuochi a concentrarsi troppo sull'estetica per rendere le ricette fotogeniche e in generale i ristoratori a occuparsi troppo della reputazione a discapito della sostanza. Ci sono piatti che ormai sono come certe Miss: bellissimi ma appena aprono bocca non sanno (di) niente. Il secondo effetto negativo è stato trasformare i clienti in giudici a tempo pieno (che poi era lo scopo originario e becero di Facebook: dare i voti alle ragazze). Quello molto positivo è: la circolazione della conoscenza. Dunque, ribaltando la questione, negli anni Novanta c'era una cucina più volta al buono che al bello e i clienti erano più rilassati e si sedevano a tavola per godersi la serata senza interrogarsi con aria accigliata di che tipo di shiso fosse fatta la decorazione. Al contrario, ottenere informazioni sulla cucina, sui ristoranti, era molto più difficile e bisognava ricorrere a strumenti ad hoc come le buone, vecchie guide gastronomiche: non per nulla le guide del Gambero Rosso e Osterie d'Italia nascono proprio in quel decennio e negli anni ’90 tutte le pubblicazioni di settore vendevano dieci volte quel che vendono oggi.

Ora sarebbe davvero interessante una dissertazione su vantaggi e svantaggi di un sistema fondato sulle competenze rispetto a uno basato sulla condivisione tra pari; ma francamente è troppo finanche per noi. Ci limiteremo dunque a parafrasare Raf: "cosa resterà di questi anni Novanta?" Qualcosa sta tornando – una cucina più semplice, meno estetizzante, meno sfidante, la tavola come convivialità, l’importanza della sala – ma temiamo ci siano ingredienti persi se non per sempre, per molto. Il più prezioso? L'entusiasmo di quegli anni. L'entusiasmo uno non se lo può dare. O forse sì?

a cura di Luca Iaccarino

disegni di Marcello Crescenzi

Articolo uscito nel numero di giugno 2019 del Gambero Rosso. Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store
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