Identità Golose 2019. La seconda giornata in 6 parole

25 Mar 2019, 11:25 | a cura di
Entra nel vivo il congresso gastronomico milanese, con i palchi sempre più affollati di chef. E si continua a declinare il concetto di nuove memorie, con riflessioni che si interrogano sul linguaggio della cucina, e sulla necessità di ritrovare leggerezza.

Passato

E non tradizione. Sull’abusato concetto, che spesso finisce per essere ostacolo alla libertà di pensiero e all’espressione della propria creatività, finiranno per concentrarsi diversi interventi di giornata, ma sempre da una prospettiva che finalmente smentisce la sterile opposizione tradizione-innovazione. Del resto si parla di memorie, anche se il tema – costruire nuove memorie – proietta verso esperienze che non sono ancora state vissute. Ecco allora la lezione di Fabio Pisani e Alessandro Negrini, inossidabile duo all’opera da Aimo e Nadia (Il Luogo di Aimo e Nadia, Milano), sempre più saldi alla guida di un gruppo di ristorazione solido. Sul palco presentano due interpretazioni originali di primi piatti tipicamente italiani: gnocchi al ragù e spaghetti al pomodoro (degli anni Ottanta). E però i primi sono gnocchi di taralli, in omaggio alla Puglia, i secondi vengono serviti in bianco, con un mestolo di sugo a condirli solo una volta impiattati, come tante volte abbiamo visto sulle tavole casalinghe, specie in passato: “Il rapporto tra sugo e pasta è interpersonale, ognuno di noi vuole scegliere come dosare il condimento. Noi diamo questa possibilità anche al ristorante”. Una provocazione, forse, se non altro estetica, nell’era delle mise en place perfette. Ma funzionale a spiegare un pensiero: “Spesso si pensa all’alta cucina italiana di ricerca come qualcosa che dimentica. Invece noi facciamo ricerca sul passato, dalla storia degli ingredienti alle abitudini di consumo di un tempo”.

Carlo Cracco sul palco di Identità Golose

Carlo Cracco

E un percorso avanti e indietro nel tempo apre la seconda giornata con l'intervento di Carlo Cracco (Cracco, Milano) che porta la versione 2019 del suo rognone e ostrica, presentato nel 2010 a Le Fooding. Da allora qualcosa è cambiato nell'esperienza di Cracco e nella ricetta. Un tempo cruda, oggi cotta in ogni elemento e trasformata in un evocativo sasso nel mare. Si gioca ancora con i ricordi, quello concentrato nel brodo che si accompagna al cervo e quello dello sgroppino - quel sorbetto alcolico immancabile nei ristoranti veneti di un tempo, a separare i piatti di pesce da quelli di carne - qui trasformato con accenti orientali, sapidità e acidità a completare ogni sorso.

Consuetudine (cosa NON è la tradizione)

L’altra faccia della medaglia del costante richiamo alla tradizione è proprio il rischio di banalizzarne l’essenza. Un limpidissimo – come di consueto – Massimiliano Alajmo (Le Calandre, Rubano) incanta l’auditorium con la sua riflessione, che parte da una negazione: “La tradizione non può essere consuetudine, non è un’abitudine acquisita. Ma una consegna; e trova le sue origini nel sacro. Nel caso della cucina è la materia prima che porta l’immagine del macrocosmo nel micro: quindi la frequentazione della materia prima è per noi un’opportunità, cucinare significa respirare la materia. E la tradizione è un dono essenziale, da trattare con coerenza, integrità, rispetto. Invece spesso c’è un problema di linguaggio, nel definirla”. Tanto è lucido l’oratore sul palco, da portare con sé anche Corrado Assenza, presente in platea: “Da tempo ho cancellato la parola tradizione dal mio vocabolario. Perché è la cultura che ci porta al vero, e riassume in sé tutte le altre cose”. Cultura come fattore umano, dunque, da cui la cucina non può prescindere: “Non sono i piatti a evolvere” spiega Alajmo “ma noi”.

Mehmet Gurs prepara un piatto a Identità Golose

Mehmet Gurs

La tradizione è un concetto su cui metto un punto interrogativo”, fa eco Mehmet Gurs (Mikla, Istanbul). Nato in Finlandia, cresciuto in Svezia, è per metà turco, di quella che lui chiama Anatolia, quel coacervo di culture, popoli, tradizioni e stratificazioni “dove ci sono mediterranei, persiani, siberiani. Non so neanche che voglia dire nuova tradizione. Le cose cambiano velocemente, consideriamo tradizione una cosa vecchia un secolo, ma cosa sono 100 anni nella storia?”. Bisogna spingersi oltre recuperando qualcosa dal passato: “Tornare indietro per andare avanti”. Racconta un luogo che è mille luoghi, anche gastronomici, dove la società si regge anche sulle comunità agricole – “prima cercavo il prodotto migliore, ora cerco il produttore per sviluppare relazioni durature, perché il fattore umano conta” - alcune anche in mano a donne. Verso questa comunità sente di avere una responsabilità, come nei confronti dell'ambiente e della biodiversità (e il caso del recupero di un frumento antichissimo che rischiava di scomparire è emblematico). Così nella sua cucina gli alimenti non hanno marchi, ma nomi, quelli dei produttori, e lancia la sua sfida alla cosiddetta tradizione cercando di allargare i confini, assumendosi il rischio dell'errore. Ma sempre a partire dalla materia prima, che arriva dalla terra, dal cielo e dal mare.

Condivisione (del sapere)

Cerchiamo di pensare sempre che stiamo andando al ristorante, non in guerra!” esclama un emozionatissimo Alberto Gipponi (Dina, Gussago) che si ridimensiona e ci ridimensiona “si parla spesso di numeri, ma si sono dimenticati i rapporti e le relazioni”. E lui, invece, per preparare il suo intervento a Identità Golose ha coinvolto amici e colleghi: Oliver Piras, Davide Caranchini, Riccardo Canella, Terry Giacomello, Baiocco Zanasi, Franco Aliberti, Filippo Camarata, Pierpaolo Ferracuti, Matteo Baronetto, Davide Oldani. E molti altri. “Il confronto è aperto a tutti, e tutti siamo più della sommatoria delle nostre ricette. È vero, della sogliola, Escoffier ha catalogato 187 ricette, vanno lette tutte, assimilate riproponendo gesti che altri prima di noi hanno fatto”. Poi, però, bisogna evolversi: “Bisogna essere cuochi del nostro tempo. Magari tenendo un ingrediente della ricetta originale per crearne una nuova, e con gli ingredienti originari che avanzano si possono creare altre mille combinazioni. Senza mai avere paura delle proprie idee. Cito Baronetto secondo il quale è un po' l'era del paurismo”. Costruire nuove memorie, dunque, senza preconcetti, senza aspettative, senza paura dell'altro, condividendo i propri saperi: “La cucina non è mia, non è sua, la cucina è di tutti. Redzepi, Adrià e i fratelli Roca hanno condiviso”.

Condivisione e scambio di saperi e idee sono anche le modalità creative da cui non può prescindere il lavoro di Ezra Kedem, pioniere della New Israeli Cuisine. Da più di vent’anni cerca di codificare un linguaggio del cibo che possa raccontare il gusto israeliano, come scoperta di un’identità culturale che fa fatica a trovare le sue radici. E allora lui va a cercarle in giro per il Mediterraneo – pur restando attaccato alla sua terra, dove a settembre avvierà un nuovo progetto: “è molto più appagante avere successo nel posto dove sei nato, che in giro per il mondo” – soprattutto in Italia, dove ha imparato a condividere memorie, ricette e ingredienti con molti cuochi, come Pietro Zito e Massimo Riccioli.

Tim Raue prepare un piatto a Identità Golose

Tim Raue

Condivisione? Ce l'hai, ce l'abbiamo tutti. Fai qualcosa che ami e porti in tavola, così condividi, non su internet. Siamo già social” così uno scatenato Tim Raue (Raue, Berlino) racconta come ha obbligato il suo sous chef a staccarsi dal telefonino “e concentrarsi su quel che faceva lui non su quel che fanno gli altri”, e aggiunge: “In una giornata 1116 messaggi, pazzesco!”. L'invito è a mandare al diavolo Instagram, “le foto non significano niente, nella vita reale a nessuno importa di un piatto ben decorato, che tra l'altro non va neanche più di moda, le persone vogliono un piatto buono, conta quel che si mangia”. Chiaro, no?

Josè Avillez prepara un piatto a Identità Golose

Josè Avillez

Per creare nuove memorie dobbiamo raccontare nuove storie” esordisce José Avillez (Belcanto, Lisbona) spiegando come lui, con la sua memoria gustativa, ha a che fare con la memoria dei suoi ospiti. Di questi frammenti di storia personale alcuni sono condivisi, altri no. “Un nuovo piatto è una nuova storia che crea una nuova memoria” aggiunge uno dei protagonisti della rivoluzione gastronomica portoghese, una cultura che tanto deve e tanto ha dato ad altre cucine nel mondo. Prodotti, ricette, abitudini. Ogni ingrediente nei suoi piatti ha una storia alle spalle: il dashi con cui accompagna il tipico pesce alla griglia ricorda la scoperta del Giappone di oltre 5 secoli fa, l'avocado invece rimanda al Sudamerica. Un giro del mondo con i piedi ben piantati nel Portogallo. Del resto è proprio Avillez che, in soli 7 anni, ha colonizzato mezza Lisbona con i suoi ristoranti di cucina sia portoghese che internazionale (è un mago della differenziazione e delle collaborazioni): oltre 10, e un altro – di cucina asiatica - è in arrivo.

Leggerezza (come stato d'animo)

Ma la chiave di volta è la leggerezza: “Stiamo parlando di mangiare, dobbiamo tornare a essere liberi e leggeri”. Aggiunge Gipponi. “Dobbiamo tornare al piacere nudo: appaghiamoci di quello che incontriamo e se non è un gusto che conosciamo incaselliamolo nella nostra memoria. Godiamo. Lo dico a me stesso, perché sono il primo a passare le nottate pensando a come cuocere le carcasse di pollo o alla tridimensionalità della ricetta. Cerchiamo di ridimensionarci, di alleggerirci, senza mai banalizzare quel che facciamo

Leggerezza senza mai banalizzare”, citando Gipponi, è anche il fil rouge di altri interventi - che gli chef abbiano iniziato a prendersi meno sul serio? - come quello di Gonzalo Luzarraga (Rigò, Londra) che candidamente ammette come spesso modifichi le ricette per assecondare i gusti del pubblico londinese o come a volte basti un piccolo escamotage per far passare un concetto inizialmente non accettato: “All'inizio ci chiedevano la carbonara, poi pian piano hanno compreso che facevamo alta cucina italiana. Tutto è iniziato traducendo gli ingredienti, che prima erano scritti in italiano, in inglese”.

Oppure dell'intervento di Giuseppe Lo Iudice e Alessandro Miocchi (Retrobottega, Roma), i quali ripercorrendo la loro storia, dagli esordi nel 2015 all'ampliamento all'apertura del nuovo pastificio, non hanno nascosto i tanti errori fatti. “All'inizio abbiamo preso un locale piccolo, senza finestra, con un'unica porta e cappe non a norma. Un disastro!”. Tutti errori dovuti all'inesperienza, che li ha spinti a evolversi, e ad evolvere un format che rimane un unicum a Roma e forse in Italia. E che ora sta spingendo sull'acceleratore della cucina vegetale con una ricerca che passa, anche e soprattutto, dalla raccolta delle erbe selvatiche, con il prezioso contributo di Alessandro Di Tizio (presto ne sentirete parlare, se continuerete a seguirci). Un'usanza, quella di raccogliere le erbe, che negli anni s'è andata via via perdendo, e che i ragazzi di Retrobottega stanno cercando di valorizzare, creando nuove memorie. Emblematica è la loro crepinette con trenta, a volte quaranta, erbe selvatiche.

L’appello alla leggerezza di Massimiliano Alajmo, invece, è strettamente connesso alla bellezza: “Facciamoci rapire dalla bellezza, costantemente. Il rapporto con la materia prima, la possibilità di respirarla, l’incontro con un artigiano… Tutto questo non può e non deve creare ansia. In cucina è accettabile solo la tensione positiva, ma dobbiamo godere dell’opportunità di cucinare”. Concorda e rilancia Corrado Assenza, rivolgendosi ai giovani cuochi: “Toglietevi le tensioni, pensate a rendere gli altri felici. Non fatevi prendere dal cameratismo inutile e banale”. Dritto al punto.

Heinz Beck a Identità Golose

Heinz Beck

“Non si vive di solo pane”; “gallina vecchia fa buon brodo”; “ti sei scottato con la patata bollente e adesso soffi sul gelato”. Gioca la carta dello scherzo Heinz Beck (La Pergola, Roma) che prende spunto dai proverbi d'uso comune per i nuovi snack. Allusioni che strappano il sorriso e mettono in campo memorie vecchie e nuove: il pane che faceva la nonna, il brodo di gallina impresso nella memoria di uno dei ragazzi del suo team, la patata fredda ripiena di sorbetto che si presenta sulla brace come fosse appena cotta. E poi il caffellatte, che è memoria condivisa da tutti ma diversa per ognuno, che strizza l'occhio ai nuovi metodi di trasmissione dei ricordi, quelli legati alla rete; è così che il caffellatte (in crema) incontra la tartelletta a forma di boomerang per mettere a segno un calembour di parole e sapori.

Parola d'ordine: divertimento. “La prima cosa che chiedo ai miei clienti, dopo cena, è se si sono divertiti. Perché se non c'è divertimento è inutile parlare di cucina”. Diego Guerrero è coerente fino al midollo. Vuole che si divertano i suoi clienti e vuole divertirsi lui. All'apertura del DSTAgE (Madrid) 5 anni fa, aveva le idee chiare: “Volevamo un posto diverso dagli stellati in cui avevamo lavorato, un posto che avremmo voluto frequentare come clienti”. Poi le stelle sono arrivate – due - ma lo spirito è rimasto lo stesso. “Volevamo che ci fosse libertà, naturalità e sincerità con noi stessi, volevamo creare la nostra identità, ma senza allontanarci dall'eccellenza”. E che tutto avesse anche un impatto positivo, sulle persone che lavorano con lui (DSTAgE è chiuso nel week end - “lavoriamo tantissimo e benissimo durante la settimana”) e sull'ambiente: il no waste è pratica quotidiana, sia con il lavoro di recupero della plastica fatto con l'Istituto Europeo di Design per creare gli stampi, sia nella cucina che punta a trarre il massimo da ogni prodotto. “Unico ingrediente unico piatto” è l'idea che conta molteplici applicazioni: il bigné di pasta di calamaro in purezza, la terrina di solo carabinero (testa, antenne, zampe incluse), il peperoncino arrostito (un salto indietro nei suoi ricordi di bambino), la candida spuma di baccalà e baccalà alla brace, e il dolce di latte e riso senza latte (con amazake e koji a fermentare). Una cucina di un solo prodotto dove emerge un altro ingrediente: il tempo, padrone dei processi di fermentazione.

Non devo soddisfare tutti, ma fare quel che voglio in modo leggero” fa Tim Raue “quindi elimino lattosio e carboidrati non perché sono buono e mi preoccupo di tutti, ma perché se poi c'è qualcuno che ha difficoltà con questi alimenti sono problemi. Così ho preferito toglierlo e avere piatti leggerissimi dai sapori decisi, con acidità forti”.

Consapevolezza

Pubblico in fermento durante i quaranta minuti di Diego Rossi (Trippa, Milano) a Identità di carne. 40 minuti per 7 piatti, utilizzando tutte le parti della pecora: tartare di coscia di pecora con cedro e maionese fatta con il cervello; pulled pork di coscia di pecora; fregola con ragù fatto con la pancia, sempre di pecora. E ancora crepinette contenente una polpetta fatta con rognoni, fegato e la coscia avanzata dalla tartare; collo bollito; cuore cotto a bassa temperatura e passato sulla brace e infine midollo con scaloppe di filetto e tartufo bianco. “Della pecora non si butta via nulla, solo così onoriamo e celebriamo la morte di un animale. La tendenza è quella di mangiare carne senza più rispettare l'animale, dovremmo invece fare un giro al macello per acquisire consapevolezza”. E Diego chiosa al grido di “Viva la Trattoria!”. Che attualmente è sempre più orientata a costruire nuove memorie recuperando tradizioni tramite la sensibilità e la consapevolezza odierne.

Noi tedeschi non abbiamo una tradizione importante” ammette Tim Raue, “per moltissimo tempo abbiamo copiato quel che si faceva in Francia poi, intorno al 2000, abbiamo cominciato a maturare un nostro stile. Ma anche oggi l'unico tedesco nella 50 Best sono io. E faccio cucina asiatica, perché da fuori non si vede, ma dentro sono orientale”. Raue mescola le sue origini teutoniche, il gusto per certi sapori pieni, solidi, forti, con le istanze del lontano Oriente. Il pesce al vapore con porro zenzero e salsa di soia (nel suo ristorante ne usa di pregiatissime, invecchiate anche 10 anni, che costano più di mille euro al litro), con una punta di burro chiarificato a ricordare che si trova pur sempre in Germania. Ma poi torna ai sapori della sua infanzia nel tipico cosciotto di maiale con crauti trasformato con spunti orientali, cotture attente e cura nel prodotto. “Metà tornava indietro e lo mangiavamo noi. Così siamo ingrassati tutti, per questo ora sono vegano”.

Modello di consapevolezza da prendere a esempio è anche Paulo Airaudo (Amelia, San Sebastian): “La sostenibilità economica per un ristorante è importante al pari della consapevolezza etica, nel supporto ai piccoli produttori, nell’abbattimento degli sprechi e dei costi superflui, nella giusta retribuzione del lavoro. Nel mio ristorante il conto sarà più caro, ma il cliente sa perché. Ed è libero di sceglierci, se apprezza la nostra idea di qualità e trasparenza”.

Aspettativa

Bella lezione sulle dinamiche che regolano il rapporto tra chi fa ristorazione e clienti quella di una Karime Lopez (Osteria Gucci, Firenze) incredibilmente a proprio agio con la lingua italiana e ben instradata dal lavoro del team che fa capo a Massimo Bottura. Lei, dal canto suo, ci mette energia e chiarezza, oltre a condividere sul palco il pezzetto di Messico che porta nel cuore. Dunque creare nuove memorie, all’Osteria Gucci, passa per il superamento delle aspettative – specie quelle visive, che ci accompagnano ancor prima di arrivare a tavola – in cerca di un’esperienza fondata sulla sorpresa: “Noi non vogliamo accontentare le aspettative del cliente, ma offrirgli la possibilità di crearsi una nuova memoria. Del resto esiste un risultato definitivo in cucina? No, e non tutto può essere sempre come te lo aspetti. Il nostro esercizio è quello di trasformare esperienze sorprendenti in memorie durature per chi mangia”. Oh la Chianina è un piatto che gioca su questo concetto, chiamando in causa l’approccio visivo al cibo: “Il nostro è un gioco sulla forma che parte da uno scopo preciso. L’idea di nascondere la carne è legata alla volontà di farla sentire, più che vedere. Perché la carne di Chianina può essere molto più di un pezzo di bistecca buonissimo”.

 

a cura di Antonella De Santis, Livia Montagnoli e Annalisa Zordan

foto Brambilla Serrani

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