Il Sagrantino e le genti del Montefalco

15 Mar 2019, 12:00 | a cura di
Vino che rimanda nel nome alla sacralità, scuro, ricco di tannini, rispecchia bene anche il carattere della gente che lo produce. È il Sagrantino, protagonista di uno speciale nel mensile di marzo del Gambero Rosso.

Austero, potente, scuro quasi oscuro, per certi versi in contrasto con le luminose colline che lo cullano e diffondono nel mondo, eppure come loro capace di insospettabili dolcezze e profumi inebrianti. Poderoso, tosto, impenetrabile, in apparenza in conflitto con il sorriso franco di chi lo lavora: ma questa è gente cocciuta, si dice, e ogni vino somiglia a chi lo fa, e viceversa. Un cazzotto dato bene e il più caldo degli abbracci, la più morbida delle carezze: il Sagrantino ha in dote tutto ciò. E i suoi interpreti lo traghettano verso scenari diversi: in molti pensano che le sue potenzialità siano ancora da indagare.

Sagrantino: il territorio

Siamo a Bevagna, Castel Ritaldi, Giano, Gualdo Cattaneo o più probabilmente a Montefalco, la Ringhiera dell’Umbria che pare affacciarsi sulla regione intera, sul monte Subasio e su Spoleto, Foligno, Spello, Assisi inframmezzate da onde di campi e bosco, l’argento degli ulivi che fraziona l’oro del sole. È una città racchiusa da mura trecentesche, con antiche viti che debordano dai giardini e gemme d’arte che richiamano dalle vecchie chiese, prendi gli affreschi di Benozzo Gozzoli che da soli valgono il viaggio. Individuare quand’è che il Sagrantino vi affonda le radici non è semplice, di certo lo si trova menzionato in un documento del 1549.

Sagrantino: l'uva

Ricca di polifenoli e zuccheri, è un’uva super da cui i frati ricavano un passito da rituale, i contadini qualche bottiglia per le grandi feste: il nome avrebbe quindi a che fare con la sacralità. Della versione in secco, chiamiamola da pasto, si tramandano poche tracce, poi per decenni la varietà comincia a sparire anche dai vigneti. Fino a una nuova, esplosiva giovinezza, fotografabile con la DOC del 1979 e la DOCG del 1992, ovvero nel pieno boom dei vini muscolari e concentrati ambito dove i tannini del Sagrantino possono giocarsi al meglio le loro carte scendendo in campo da protagonisti.

Il Sagrantino secondo Caprai

Che Marco Caprai abbia un talento innato lo si capisce al volo. La dote di vedere oltre, di porsi obiettivi e immaginare la via per raggiungerli: gli nasce in testa un’idea e senti subito l’incedere delle truppe che muovono per realizzarla. Da condottiero ha bisogno di fiducia, coesione, reattività: meglio i motori veloci, silenziosi e puliti del futuro rispetto agli eserciti a cavallo, perché crede nella tecnologia e nella modernità. Nel 1988 prende le redini della Arnaldo Caprai avviata nel 1971 dal padre, imprenditore tessile di successo, e punta dritto sul Sagrantino in secco e rivoluziona tutto. Vigneti, cantina, metodi di lavoro e vendita. Avvia collaborazioni con istituti di ricerca, lancia sperimentazioni e un nuovo concetto di comunicazione.

La crescita dell'intero territorio

E mi dicono che non comunico neppure in famiglia – scherza – pensate lo sforzo che mi è costato”. Si dice pure che abbia un caratteraccio: “ma talvolta è necessario, per scardinare il sistema”. Perché finisce che forzando i tempi Marco non fa crescere soltanto la sua azienda, ma il territorio intero, dove vigneti e cantine cominciano a moltiplicarsi, produzione e qualità crescono di pari passo. “Montefalco aveva un’enoteca in piazza e c’erano già il Consorzio di Tutela, la Confraternita del Sagrantino. Al vino mancava però una definizione tangibile, che per noi è diventata quella internazionale, vocata all’eccellenza e legata al turismo”.

Un’azienda culturale e concreta

Un’azienda culturale, la sua (“Ci sono più laureati qui che in qualsiasi altra impresa”), ma al tempo stesso concreta ed esigente: “Il mercato è complesso e l’imperativo è programmare, sempre, ragion per cui è la politica che deve sostenere l’impresa e non viceversa”. Come sarebbe andata

lavorando in una regione limitrofa? “Forse avremmo faticato di meno, ma chissà se i risultati sarebbero stati gli stessi”. 136 ettari vitati si dipanano da località Torre, sui 350 metri di altitudine media; 800mila bottiglie l’anno, continue iniziative di studio e promozione, brevetti depositati e in corso di perfezionamento: un motore che non si ferma “e che al centro mantiene sempre l’uomo. Il vino ti permette di sfidare i tuoi limiti”.

Il nuovo enologo è il celebre Michel Rolland, il Sagrantino di punta è il 25 Anni, complesso e suadente, lanciato per il compleanno aziendale del ’93 e ripetutamente premiato con i Tre Bicchieri. Spinning Beauty è invece un assist alla proverbiale longevità varietale: prodotto con uve selezionate dal vigneto Monte della Torre e affinato otto anni in barrique, si ispira ai grandi classici mondiali e scalpita per affiancarli, come nell’indole del suo inventore. Che in tanta agguerrita intraprendenza tradisce un fondo di timidezza a renderlo ancor più speciale. “Il bello è che ogni bottiglia si muove autonomamente e può raggiungere qualsiasi tavola del pianeta. Portandovi sopra un nome, un cognome, e soprattutto un’inconfondibile identità territoriale”.

Il Sagrantino secondo Antonelli

Azienda storica che contribuisce al successo del Sagrantino è la Antonelli San Marco, con base nella magnifica tenuta che dal XIII al XIX secolo appartenne al Vescovado di Spoleto. 175 ettari di cui 50 a vigneto, certificazione biologica dal 2012 per “un vino più buono e più salutare: abbassare le difese impone di alzare la qualità delle uve”. Annessi scuola di cucina e struttura ricettiva per immergersi appieno nel clima del territorio, “che non prescinde dal Sagrantino e attorno al Sagrantino si è rafforzato”. Filippo Antonelli disegna la sua vita e la sua idea di vino con encomiabile pacatezza, ma la determinazione è svelata dai risultati ottenuti. Il bisnonno Francesco, avvocato di Spoleto, acquistò la proprietà nel 1881, e per decenni son state rare le bottiglie di passito e Montefalco Rosso a violare la prassi della vendita in sfuso. Solo con l’arrivo della DOC si incrementarono i vigneti e si investì sulla qualità.

La rottura di Filippo con le generazioni precedenti

Filippo, laureato in agronomia a Perugia, saltò in sella nel 1986 e ruppe la storia di generazioni di avvocati. “Secondo un detto che circola in famiglia ci sono tre modi di depauperare il patrimonio: con le donne, con il gioco e con l’agricoltura. Il primo è il più divertente, il secondo il più rapido, il terzo è il più sicuro. E anche mio padre la pensava così”. Eppure lui non si scoraggiò. Il Sagrantino era già in corsa, cavalcava l’onda e mostrava i muscoli, affibbiandosi un’etichetta che col tempo si sarebbe rivelata controproducente. “Noi abbiamo sempre ambito a vini equilibrati, eleganti, frutto di estrazioni delicate e di un uso moderato di legni grandi”, anche se la ricerca non si ferma e in cantina occhieggiano anfore e cemento di ultima generazione. “La maturazione delle giovani vigne, figlie di quegli anni, ci aiuta a interpretare meglio questa varietà. Ma ancora molto si deve fare con lo studio e la parcellizzazione dei versanti, per capire cosa può offrirci la terra laddove ha contato soprattutto la mano dell’uomo”.

L'idea di un terzo Sagrantino

In tal senso si pensa a un terzo Sagrantino, un finissimo cru proveniente dal Molino dell’Attone, da affiancare al classico e al più potente Chiuse di Pannone. Senza mollare la storica, splendida versione passita. “Il territorio ci offre varie declinazioni della varietà, e questa non è una cosa facile da veicolare”, e qua entrano in gioco anche i pensieri da presidente del Consorzio di Tutela, carica che Filippo è tornato a ricoprire dopo oltre venti anni. In cantina si avvale della consulenza di Paolo Salvi, definito scherzosamente “toscano ma perbene”, a sostenere l’enologo di casa Massimiliano Caburazzi, mentre ogni suo passo è scortato dalla fedelissima Nina, una bastardina proveniente dai lidi romani. È proprio alle porte della Capitale che Filippo, forse per esorcizzare le preveggenze del padre, raddoppia la posta con una seconda azienda vinicola di famiglia, Castello di Torre in Pietra. “Mentre con Vittorio Zoppi ho fondato Antica Torino”, giusto per non dimenticare che dal lato materno le radici son piemontesi: “il primo prodotto è un Vermouth Rosso che vuole riflettere lo stile di quella grande città”.

a cura di Emiliano Gucci

 

QUESTO È NULLA...

Nel numero di marzo del Gambero Rosso, in questi giorni in edicola, trovate il racconto completo anche con le testimonianze dei fratelli Pardi e di Peter Heilbron della Tenuta Bellafonte. Un servizio di 10 pagine che comprende i 5 piatti per assaporare al meglio i vini del Montefalco, un'utile timeline per comprendere la storia del Sagrantino, un focus sul Trebbiano Spoletino. E ancora, gli indirizzi dove andare a mangiare e bere, i 9 vini più rappresentativi del territorio e un contributo di Giorgione che racconta la sua tavola.

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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