A chi fa paura la libertà di vigna

6 Mar 2012, 16:47 | a cura di

Un ulteriore tassello contro la liberalizzazione dei diritti d'impianto dal 2016 si aggiunge all'accesa discussione sull'applicazione della riforma Ocm vino del 2008. L'Arev, Assemblea delle regioni viticole europee (75 regioni di 18 Paesi), ha presentato nei giorni scorsi uno studio realizzato dal Moisa, l'unità di ricerca di Montpellier

, sugli impatti socio-economici e territoriali, analizzando i casi di Australia, Argentina, Spagna, Francia, Portogallo.

 

Un documento molto atteso in vista dell'allargamento del fronte del “no” che conta oggi 14 Stati membri, rappresentanti 205 voti, favorevoli alla revisione di questo punto dell'Ocm vino. Ad oggi, mancano 40 voti per avere la maggioranza qualificata che costringerebbe la Commissione Ue a rivedere i suoi piani nel quadro della riforma Pac.

 

Per questo l'Arev, guidata dal presidente Jean Paul Bachy, socialista (è stato anche presidente del dipartimento delle Ardenne), si è appellata anche a Belgio (12 voti), Bulgaria (10) e Polonia (27). Come si può immaginare lo studio è stato fatto anche per coinvolgere nuovi Paesi. Ma quali sono i suoi risultati? Innanzitutto, la dimensione dell'impresa viticola non è necessariamente sinonimo di crescita dei redditi e di economie di scala come sostiene l'Ue nelle argomentazioni a favore della deregulation.

 

Un elemento, questo, che emerge soprattutto in Francia, dove vige un sistema regolato di quote, e dove a parità di prezzo di vendita del vino, la superficie ha un'influenza modesta sulla produttività del lavoro, più spesso al ribasso che al rialzo (tranne che nella Champagne). “L'abolizione dei diritti – scrive l'Arev – si tradurrebbe essenzialmente nel calo dei prezzi legato alla crescita dell'offerta. Ed essendo i prezzi il fattore determinante del reddito, più che la crescita aziendale, l'effetto sarà quello contrario”.

 

In secondo luogo, per l'Arev, l'assenza di un sistema di regole non ha permesso a grandi paesi produttori come l'Australia di evitare gli squilibri di mercato derivanti dalla sovrapproduzione e le conseguenti estirpazioni, crolli dei valori fondiari, fallimenti. E' anche vero, scrive ancora l'Arev, che un sistema lassista di diritti di impianto non evita, come accaduto in Argentina, Aquitania, Valle della Loira e Alentejo, il rischio-sovrapproduzione.

 

Inoltre, l'esistenza dei diritti non ha finora ostacolato la crescita della superficie media delle aziende: “In Europa, negli ultimi dieci anni, il numero di aziende si è ridotto e la superficie unitaria è cresciuta”; mentre i redditi dei viticoltori non hanno raggiunto i livelli auspicati “ma non sarà l'aumento della superficie media, derivante dall'abolizione dei diritti, a farli crescere”.

 

Alcuni risultati dello studio sono particolarmente allarmanti: “La liberalizzazione degli impianti – dice l'Arev – avrà un impatto diretto sulla delocalizzazione dei vigneti. Le terre abbandonate porteranno alla lottizzazione selvaggia, a terreni incolti, e infine alla 'chiusura' dei paesaggi” su cui interi Paesi europei hanno sviluppato le proprie economie. “Il capitale ambientale e paesaggistico delle regioni viticole sarà inevitabilmente leso e s'innesterà una delocalizzazione verso le zone di pianura – si legge nel documento – che colpirà il sistema enoturistico oltre che la competitività dei vigneti di montagna, con le conseguenze ambientali che ne derivano”.

 

Conclusione dell'Arev: si va verso un settore vinicolo che tende sempre più all'industrializzazione con aziende, pressate dalla crisi, che hanno sempre più necessità di investimenti veloci e di produrre volumi da smerciare rapidamente.

 

Gianluca Atzeni

06/03/2012

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