Il mistero russo dei dazi: chi imbroglia?

22 Lug 2011, 16:35 | a cura di

San Pietroburgo, da qualche giorno, i doganieri applicano le nuove norme sul “valore minimo” (quello che con delicato anglicismo viene definito “customer profile”) del vino italiano senza un particolare accanimento contabile. Controllano la documentazione dell’azienda esportatrice, le bolle di accompagnamento, le fa

tture indirizzate alle  società d’importazione (nel grafico accanto alla testata c’è l’elenco completo), verificano se le partite di vino sfuso, da tavola, le casse di Igt  stanno dentro il “tetto fiscale minimo” di 1,6 euro al litro (su cui si applicano l’accisa al 20%, l’Iva al 18% oltre al costo della fascetta, 10 cent a bottiglia) e danno il via libera.

 

Gli importatori che dichiarano prezzi inferiori a 1,6 euro possono sì sdoganare il vino ma debbono pagare le imposte calcolate sul “customer profile” di 1,6 euro salvo poi chiedere il rimborso della differenza fino a 1,2 euro. Insomma, alla dogana di San Pietroburgo, le cose stanno più o meno come stavano il 20 giugno scorso quando dalla filiera – Federvini in testa – si alzarono vibranti proteste (con contorno di interrogazioni parlamentari, dichiarazioni di fuoco, interventi ministeriali, polemiche giornalistiche sul tradimento fiscal-enologico dell’amico-Putin nei confronti dell’amico-Berlusconi) contro l’introduzione di quel tetto minimo che di fatto – e di colpo -  moltiplicava per due il prezzo finale (da 100 a 200 rubli, almeno) di una bottiglia di Lambrusco o di spumante che ormai non manca mai nel carrello della spesa dei russi.

 

Le cose vanno peggio, invece, alla dogana di Mosca: la verifica sul prezzo indicato nei documenti – svela a Tre Bicchieri un importatore che ha chiesto di non essere citato - è al limite dell’oppressione: “Vogliono conoscere il costo del vino, della bottiglia, del tappo…e guai a protestare”. Si va avanti così da settimane e la protesta italiana è servita solo ad ottenere una sola concessione: l'abbassamento del “tetto minimo” (a 1,2 euro) ma solo a dimostrazione. “Come a dire” protesta il nostro importatore “che siamo tutti fiscalmente inaffidabili fino a prova contraria”.

 

Ma perché? Perché, spiegano fonti della stessa ambasciata italiana, il servizio doganale russo – ispirato, insinua qualcuno, dalla concorrenza: per esempio i produttori di vino georgiani o moldavi che hanno riallacciato le vecchie relazioni commerciali con Mosca – ha fatto qualche verifica e ha scoperto che in alcuni casi il valore delle partite esportate e importate dall’Italia con corrispondeva. Da cui il sospetto che si sottofatturassero partite di vino e che la compensazione esportatori-importatori avvenisse in un secondo tempo, al momento del saldo, utilizzando canali ben più difficili da controllare: finanziarie domiciliate in Svizzera, nelle isole Cayman, perfino in Nuova Zelanda.

 

Così si spiega la decisione di alzare la base di calcolo, il costo minimo al litro. Operazione che ha messo in crisi quasi esclusivamente il vino “mass market”, lambruschi spumanti e sfusi che viaggiano a prezzi inferiori a 1,6 euro. Come se ne uscirà? Difficile immaginare una marcia indietro di Mosca. Anzi, c’è chi teme un ulteriore giro di vite dopo l’allargamento della tassazione anche ai vini con gradazione inferiore agli 8 gradi prima esenti. Gli indizi non mancano: le licenze di importazione alle società russe da triennali sono diventate annuali; qualcuna è stata ritirata (salvo successivo rilascio dietro congruo pagamento); le analisi enologiche sui campioni di vino sono improvvisamente aumentate al punto da richiedere l’intervento dell’Oiv da Parigi per il rispetto degli standard internazionali.

 

E tutto questo mentre il vino italiano esplode letteralmente in tutta la Russia con tassi di crescita che ad aprile scorso sfioravano l’82%. Chi vuole approfittare del boom del vino italiano?

 

di Giuseppe Corsentino

22/07/2011

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