La mitologia della storia di questo territorio plasma anche l’origine di questo vitigno particolare, polposo e buccioso, dal tannino morbido. A circondare le vigne distese di verdure, olivi, cereali… Sapori decisi ed eleganti. E un vino che ha trovato la via del futuro.
Il territorio
La Capitanata, la Daunia o semplicemente il Foggiano, le campagne del Tavoliere pugliese strette tra la coda d’Appennino e il promontorio del Gargano, liberate da un mare e da un cielo infinito che si fondono nel blu; e campi sterminati, pietra, uliveti, capolavori medievali e barocchi, influenze greche e saracene tra splendori e contraddizioni, profili ruvidi e cuori caldi, l’eco delle transumanze abruzzesi, quello della dominazione spagnola… Talvolta per definire un territorio non basterebbe viverci, abitarlo da generazioni, figurarsi attraversarlo seppur a caccia di incontri, parole, idee; puoi al massimo cogliere un pretesto, il simbolo che in un lampo sembra racchiuderne l’essenza.
L’uva e la mitologia
Prendi per esempio quest’uva dalla buccia spessa e nera, col suo acino polposo che matura tardi ma restituisce fierezza, potenza, e volendo anche trame tanniche raffinate, note di fiori e piccoli frutti rossi, folate di brezza marina. Era buona per il taglio, l’uva di Troia, aveva tutte le caratteristiche giuste per far da spalla a certi esili vitigni del nord: colore intenso che vira al violaceo, grado alcolico importante, ottime rese quantitative specialmente nell’evolversi delle coltivazioni a tendone. Ma ci si è accorti che è troppo bella, buona, identitaria e nobile per disperderla nel sangue degli altri, per cui si è preferito rimetterla al centro, adoprarsi per restituirle il palcoscenico che merita.
Il mito la vorrebbe figlia dell’eroe greco Diomede, che finita la guerra vagabondò per l’Adriatico e risalì il fiume Ofanto portandosi appresso pietroni e tralci di vite dalla città di Troia. Altre piste riconducono alla più vicina Troia pugliese, un comune alle appendici dei Dauni (ospita la Concattedrale romanica col rosone a undici raggi che compariva nelle vecchie banconote da 5.000 lire), oppure alla città albanese di Kruja, o alla Rioja spagnola. Il finale non cambia, ed è questo inizio di recupero e rilancio, nonché una giovane Doc (Tavoliere Nero di Troia, ancora utilizzata da pochi produttori) e nuove sperimentazioni che fanno presagire un futuro prossimo assai intrigante.

Si parte da San Severo
Il viaggio può cominciare da San Severo, a suo tempo capoluogo di Capitanata, paese simbolo del barocco pugliese con diciotto chiese storiche, cunicoli di cantine a formare una sorta di città sotterranea e d’intorno una vasta, ondeggiante pianura calcarea dedicata perlopiù a oliveti e uve bianche. Ma l’azienda D’Alfonso Del Sordo, ovvero la storia del vino di zona (fu avviata nel 1860), è anche artefice del riscatto del grande Nero, quello di Troia.
Gianfelice segue 35 ettari e una produzione di circa 200mila bottiglie annue con attitudine da artigiano, un occhio al mercato e i piedi saldi nella tradizione. Nel 1993 era un giovane laureato in giurisprudenza, quando il padre Antonio morì in una sciagurata disgrazia aerea e gli lasciò il timone tra le mani. Puntò subito alla caratterizzazione dei vini, tracciando rotte che guardavano all’estero ma rivalutando le uve autoctone, di proprietà e vendemmiate a mano, alcune provenienti da vigneti di oltre quarant’anni. «Il tempo di orientare la bussola, anche affidandoci a enologi affermati come Severino Garofano e Luigi Moio, per poi capire che l’azienda aveva un’identità e poteva imporla, trasmettendo il proprio carattere». A monte l’idea di smarcarsi dalla cultura locale, che badava più alla quantità che alla qualità, finché tutta la Puglia enoica non ha cominciato a crescere “seppur a doppia velocità, perché era il Salento a fare da traino”.
Guado San Leo è il cru aziendale, da un raro clone a bacca piccola di Nero di Troia, il Bombino è il fratello bianco che gli fa da contraltare: “Hanno enormi potenzialità espressive, sapranno affermarsi oltre ogni aspettativa”. La tenuta Coppanetta, ai piedi del promontorio Garganico, è il cuore delle produzioni, ed è qui che sorgono le cantine per vinificazione e imbottigliamento.
“Nessuna ricetta assoluta, massima attenzione per interpretare lo spirito del produttore e la vocazione del territorio” dice Cristiano Chiloiro, giovane enologo tarantino cresciuto in Romagna, con precedenti esperienze a fianco di Cotarella e Soldera. “Territorio che talvolta non ha saputo cogliere l’attimo e guardare avanti” gli fa eco Gianfelice; “è una parola semplice, territorio, ma la si riempie coi fatti, mettendo insieme storia, tempo, relazioni umane e moltissimo lavoro”.
Nei dintorni, numeri importanti e risultati di rilievo per tenuta Coppadoro, realtà imprenditoriale avviata agli albori del Duemila con ambiziosi obiettivi di leadership. I tre vigneti delle “contrade” Ratino, Cotinone e Coppadoro formano il giardino del sogno, 125 ettari in produzione e altri 40 che attendono un pieno impiego. Guidata da una gruppo giovane ed entusiasta, l’emblema aziendale è racchiuso nel fiore del cardo stilizzato nel logo, “simbolo di crescita ed eleganza”. I loro Nero di Troia sono Stibadium, con intensa macerazione sulle bucce e dodici mesi di affinamento in barriques, e Brando, a incarnare “la dedizione dell’omonimo viticoltore che ha curato le nostre viti con instancabile passione per un’intera generazione”.
Il viaggio continua in compagnia di Valentina Passalacqua e il suo progetto avviato nell’abbraccio della biodinamica e della Montagna del Sole, di Alberto Longo, che ha dato forma ai suoi sogni affondandovi le radici di 35 ettari vitati, rilevando un’antica masseria denominata Fattoria Cavalli. E di diverse aziende a sud di Foggia: Podere 29, Cantine Spelonga e Cantine Paradiso.
a cura di Emiliano Gucci
QUESTO È NULLA...
Nel numero di settembre del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate il racconto completo con la bella storia della Cantina d'Araprìe un focus sul Bombino bianco, ovvero l'altra faccia del Nero di Troia. Un servizio di 10 pagine che include anche le 5 tavole da non perdere tra l'Adriatico e il Tavoliere, i 9 olivocoltori da conoscere e il racconto di Peppe Zullo, chef a Orsara di Puglia.
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