Le grandi interviste di Tre Bicchieri. Silenzio, parla Gaja

1 Feb 2012, 16:52 | a cura di

Angelo Gaja, Italian Colossus come l’ha definito senza paura di esagerare Wine Spectator di ottobre dedicandogli la storia di copertina e un editoriale non meno entusiastico (“If you enjoy Italian wine, you owe a debt of gratitude to Angelo Gaja”), è appena tornato dal suo solito giro annuale in Borgogna dove ha visto co

se che non gli sono piaciute troppo.

 

“I vini della regione sono in gran spolvero sui mercati internazionali, soprattutto in America, tengono testa ai più blasonati cugini del Bordeaux e certe annate non sfigurano neanche nelle aste di Sotheby’s e Christies a Hong Kong…” comincia a raccontare a Tre Bicchieri un sabato pomeriggio di gennaio, con il grande portone della cantina di Barbaresco chiuso (dove un cartello avverte comunque che curiosi ed enoturisti del week end non sono tanto graditi: è preferibile telefonare e concordare un appuntamento) e le colline di quest’angolo di Langa, che forse diventerà Patrimonio dell’Umanità, coperte di neve.

 

Se i vini di Borgogna vanno bene, che cos’è che non l’ha convinta?
La struttura fondiaria della regione somiglia molto alla nostra, qui in Langa: aziende di piccola e media dimensione che, grazie all’eccellenza della produzione e al successo sul mercato, si trovano improvvisamente molto patrimonializzate: valori immobiliari mai visti.

 

Sarete contenti voi produttori delle Langhe e saranno contenti i vostri colleghi borgognoni.
Non è come appare. Su imprenditori-artigiani “medium size”, che magari si trovano a un passaggio delicato di generazione, con i figli che non vogliono stare in campagna, un’offerta milionaria da parte di un finanziere-glamour o di un private equity che vogliono investire anche nella terra e non solo nella carta della finanza, può esercitare, come dire?, un richiamo irresistibile. Ma la finanza è nemica della viticoltura come la intendiamo io e i miei amici di Langa.

 

E lei, come la intende la viticoltura? Come la intende Zonin, che pur essendo banchiere e pur avendo un’azienda vinicola da 110 milioni di euro di fatturato, si compiace a definirsi “vignaiolo”?

No, io non sono un vignaiolo e quella di Zonin è solo la snobberia di un grande industriale (che stimo). Se vuole proprio una definizione, si accontenti di questa: imprenditore agricolo dedito alla produzione di vino. Non sarà poetica, ma questo faccio.

 

Con straordinario, quasi ineguagliabile, successo da quasi mezzo secolo, come tutti sappiamo: da quando, nel lontano 1961, alla morte della nonna materna Clotilde Rey, forse la vera “ancestor”  - per dirla con Wine Spectator - a cui si deve il take-off di Gaja, lei entrò in azienda a fianco di suo padre Giovanni.
Sì, la storia è nota e non debbo certo ricordarla a Tre Bicchieri del Gambero Rosso, la guida che per anni ha dato il massimo punteggio ai miei vini. Posso solo ribadire che quel successo, che forse mia nonna aveva intravisto all’inizio del secolo scorso, è frutto di una continua, spasmodica ricerca della qualità e di una dimensione aziendale a misura di viticoltore-artigiano, di un tipo di imprenditore, per intenderci, che, se un anno la vendemmia non è all’altezza degli standard qualitativi, non imbottiglia. Vende tutto come sfuso e aspetta l’anno dopo. Sapesse quante volte l’ho fatto!

 

Anche perché l’azienda Gaja ha, come si dice, fieno in cascina: risorse finanziarie per resistere alla congiuntura enologica. Come le diceva sua nonna Clotilde? Ragazzo, se ti metti nel vino avrai successo, soldi e gloria.
Ma il successo, la case history di Gaja per dirla con gli americani, è stato costruito con una pazienza e una perseveranza che solo un imprenditore-artigiano può avere. Come vede, torniamo sempre al punto.

 

Pazienza, perseveranza ma anche grande conoscenza del territorio della Langa. Per un quarto di secolo suo padre, Giovanni, geometra e viticoltore, è stato il mediatore di terreni più esperto e più consultato della zona. Conosceva queste colline zolla per zolla, vigneto per vigneto e non si è fatto scappare nessuna occasione. E così oggi i Domaines di Gaja in Langa coprono cento ettari.
A cui si aggiungono 110 ettari nella zona di Bolgheri, Ca’ Marcanda, acquistata nel 1996, e 27 ettari a Montalcino (Pieve Santa Restituta), comprati due anni prima, nel 1994.

 

Vogliamo fare il conto delle bottiglie?
Trecentocinquantamila in Piemonte, 450mila a Bolgheri, 95mila a Montalcino.

 

Per un fatturato totale aggregato di…
Lo so che Tre Bicchieri è un quotidiano di economia, ma questi dati li conosciamo solo io e il mio commercialista, Carlo Castellengo di Alba. Li chieda a lui, se vuole (e il volto di Gaja si allarga in un sorriso azzurrissimo:ndr)

 

Tre Bicchieri può solo provare a fare un rapido calcolo: 350mila bottiglie di Barbaresco e Barolo a un prezzo medio (franco cantina) di 40 euro, fanno 14-15 milioni di euro; 450mila bottiglie di vini toscani di Ca’ Marcanda per dieci euro a bottiglia fanno 4,5 milioni di euro e 95mila Rosso e Brunello a 30 euro a bottiglia fanno altri 3 milioni di euro. Si può stimare un fatturato aggregato compreso tra i 25 e i 30 milioni di euro?
Magari! Credo che sia meno della metà. Però ha dimenticato la parte commerciale, la Gaja Distribuzione, costituita nel 1978 come snc, società in nome collettivo.

 

E già! Perché le altre società, le aziende vinicole, sono tutte società semplici, esse esse.
Per favore, non dica esse.esse qui in Langa che qualcuno potrebbe anche offendersi. La lotta partigiana, qui, è stata durissima. Battute a parte, credo che la società semplice sia, come dire?, il vestito giuridico più adatto all’imprenditore agricolo, al viticoltore-artigiano. Si risponde al mercato personalmente, con il nostro lavoro e con i nostri soldi. Delle mie aziende, solo una ha la forma della spa, Ca’ Marcanda, solo perché era già una spa con il vecchio proprietario, un industriale tessile toscano: è stato più semplice fare una girata sulle azioni che reintestare tutto a una società semplice. Col senno di poi, non so se ho fatto bene.

 

Ammetterà che la società semplice ha un trattamento fiscale privilegiato.
Si pagano le tasse sulla base dei redditi agrari e dominicali, è notorio. Poi c’è la parte commerciale con i suoi numeri e i suoi bilanci.

 

Riservati, ovviamente.
Ovviamente. Ma non perché ci sia qualcosa da nascondere! Solo non voglio che quando si parla o si scrive di Gaja, si metta dopo il nome quel numerino con la cifra del fatturato, come fa la stampa economica.

 

E se i dati di bilancio glieli chiedesse Mediobanca che ogni anno stila la graduatoria delle prime 99 aziende del vino italiano?
Non me li mai chiesti e non credo che lo farà. Gaja, ripeto, non vale per il suo fatturato, ma per la qualità dei suoi vini come riconoscono da decenni tutti gli esperti che li degustano e tutti i consumatori (all’85% stranieri) che li comprano a prezzi che non si possono certo definire modesti.

 

Solo nel circuito Horeca: né Gdo (non gli ipermercati, ma i magazzini Harrod’s per dire) né l’e-commerce sui siti alla moda dell’alta gastronomia.
Abbiamo registrato il dominio (www.gaja.com) ma non abbiamo un sito, né per raccontare l’azienda né tampoco per vendere il vino. Le mie due figlie, Gaia e Rossana (32 e 30 anni, rispettivamente:ndr) ci hanno provato, ma anche loro hanno lasciato perdere.

 

Rispetto della tradizione. Perchè la quinta generazione Gaja non si farà sedurre dalle sirene della finanza come certi produttori della Borgogna di cui lei ha parlato all’inizio di questa intervista.
Gaia sta diventando più brava di me a raccontare il vino ai grandi buyer internazionali. Rossana, che ha studiato psicologia, si sta facendo prendere dal business. E poi c’è il maschio, Giovanni, che fa la terza liceo classico.

 

Anche a lui dirà, come fece sua nonna con lei: Vai, ragazzo, nel vino ci sono successo, soldi, gloria?
I miti non si copiano.

 

di Giuseppe Corsentino

01/02/2012

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