Libri. Sui pedali tra i filari – da Prato al Chianti e ritorno

3 Giu 2015, 11:00 | a cura di
Oggi vi regaliamo l'anteprima di “Sui pedali tra i filari – da Prato al Chianti e ritorno” di Emiliano Gucci. È un libro che celebra il viaggio slow, quello in bicicletta che si consuma nei paesaggi del Chianti. Esce il 4 giugno 2015 in libreria.

In Sui pedali tra i filari – da Prato al Chianti e ritorno, Emiliano Gucci canta il suo amore per la bici, il buon vino, le sue strade, le sue genti. L'amore per la sua terra di Toscana che tanto sa di quei vigneti e di quel vino in cui Gucci si immerge da un nuovo punto di osservazione, quello che nasce dal viaggiare lento in bicicletta. Che permette una visione nuova, capace di sentire odori e suoni, percepire dettagli e godere dall'interno della bellezza dei luoghi e delle storie che raccontano.
Il libro” dice Gucci “è una pedalata narrativa che attraversa la città e le periferie cercando di coglierne nuovi significati, per poi tuffarsi nel verde, tra le meravigliose colline toscane, faticando sulle salite che furono di Bartali e Magni, Nencini e Bitossi e sui polverosi saliscendi de L’Eroica; finendo per chiacchierare di viticultura, di lavoro e di sogni, con chi da queste terre trae il succo migliore”.

Il libro esce mercoledì 4 giugno 2015, nella collana Contromano dell'editore Laterza e ve ne proponiamo un estratto per accompagnare questi giorni di festa, augurando a tutti di riuscire a godere, per qualche giorno, dell'andamento lento. Quello in cui, per dirla con le parole di Emiliano Gucci, si realizza una separazione da se stessi.“Come uscire dalla solita dimensione ed entrare in quella della bicicletta”. Che può essere anche quella di una passeggiata a piedi, di un bicchiere di buon vino bevuto con la voglia di perdersi per trovare qualcosa: “la storia di una bottiglia e di un posto, di una tipologia d’uva e di vinificazione, delle persone che ci hanno messo il cervello e la fatica, i risparmi, l’energia degli anni migliori, talvolta di una vita intera”.
 

Allora prendo la bici ed esco

Talvolta è per immergermi nella più semplice quotidianità, comprare il pane e poi andare a lavorare, ed è comunque diverso dal farlo rinchiuso nell’abitacolo di un’automobile; lo sguardo è più aperto, il corpo più vivo. Il tempo, anche quando galoppa, appare meno beffardo. E sfilano più sopportabili le strade di sempre, la ciclabile sul fiume Bisenzio e i giardini della stazione, le anonime rotatorie che introducono al centro. Si apre più alleata la giornata intera, qualsiasi essa sia.
Altre volte, è proprio per voltare questa pagina e immaginarmi altrove.
È quando posso pedalare più a lungo, non preoccupandomi dell’orologio che batte, del sudore che scende. Quando posso rilanciare e perdermi oltre, sulle strade più appartate delle mie colline, scalando il Montalbano o sconfinando nel Chianti per inventarmi le tappe del cuore. È lì che il gioco si fa incanto.
Io ho capito che quella fatica iniziale che tanti chiamano scaldarsi, oppure rompere il fiato, è per mio conto una separazione da me stesso. Come uscire dalla solita dimensione ed entrare in quella della bicicletta. Di me, con la mia bicicletta. Di là ci sono ancora io ma in una forma nuova, più risoluta, e sono più dolci i profili, magnetici i colori, meravigliosi i luoghi che mi concedono la passerella. Probabilmente esistono ancora paure e rimpianti, di là, frustrazioni e ingiustizie e dolore ma tutto appare vago, evanescente, a tratti da riscrivere. Ci sono i limiti di sempre, ma talvolta sembrano più facili da superare. Talvolta è come non ci fossero.
È giusto in quei momenti che godo proprio come un riccio.

La vetta, uno scorcio di meraviglia, un sorso d’acqua tiepida, il sorriso aperto, un albero che s’inchina, quel profumo tra il pane e il miele che non ha spiegazioni razionali; due donne che salutano, la discesa e il vento in faccia, la facilità. Tra i vigneti magnifici, nel verde brillante del grano e poi di colpo nel grigio delle zone industriali, fa lo stesso, nel Macrolotto da attraversare per tornare a casa, tra i clacson e le megabuche della statale. Nella mortifera indole fracassata di questi luoghi bui.
Nel privilegio di questa terra mia, che non cambierei con nessun’altra al mondo, in barba agli amici che progettano sempre di scappare via. Che poi verranno anche la stanchezza e lo sconforto, già lo so, e il tempo tornerà nemico, il traffico pure, e la periferia sarà di nuovo oscena e invidierò quei pochi che fuggono davvero, ma pazienza, intanto avrò messo in cascina la mia giornaliera dose di tesoretto, da cui attingere per ogni istante in cui sarà difficile restare accesi.
*
 

Un bicchiere di vino è un altro tipo di fuga

Che non ha niente a che vedere con il bere per dimenticare. È piuttosto bere per ricordarsi chi siamo e quanto è bello stare qui. È una fuga che vuol trovare qualcosa. Che può guardare all’indietro, tracciare la storia di una bottiglia e di un posto, di una tipologia d’uva e di vinificazione, delle persone che ci hanno messo il cervello e la fatica, i risparmi, l’energia degli anni migliori, talvolta di una vita intera; hanno lavorato duramente, sperimentato, combattuto, provato e riprovato, hanno perso e vinto, sono arrivati fin qua.
È saperli abbracciare. È immaginare il sole e le piogge di quell’annata, a quelle latitudini, a quelle altitudini, e quanto erano fredde le notti e quanto era secco il vento, quanto era limpida l’alba; rivedere i giorni della vendemmia con i sorrisi e gli sbadigli, la schiena e le braccia che dolgono, i dubbi, gli errori, la beffa del tempo che magari grandina e stronca tutto nel giro di due ore.
È la storia delle case, delle cantine, delle grotte, delle botti che hanno contenuto e accompagnato quel nettare per anni, dandogli e ricevendo un qualcosa, a ogni istante; è la storia del qualcosa che sanno raccontarci le etichette appiccicate sulle bottiglie: sempre troppo, sempre poco; è il perché di certi nomi e di certi disegni belli, brutti, indovinati o tirati a caso.
È la storia di tanta umanità.
E d’altro canto è anche un piacere semplice, primitivo, che sa esaudirsi da sé: ficcare il naso in un calice pieno, respirarne ogni nota di profumo e farlo ancora e poi ancora e poi assaggiarlo, berlo, gioirne, riprovare più tardi e sentire che va mutando, e sapere che sarebbe stato diverso se quella bottiglia l’avessi aperta l’anno scorso, o ne avessi aspettati altri due. Il vino che nasce, prende vigore e poi cresce e matura, invecchia, si siede e si stanca, muore, e tu che devi scegliere in quale frangente incontrarlo, indovinarlo un po’. Perdendoti in lui.

Un bicchiere di vino è le finestre che nella mente si aprono mentre lo bevi, la fantasia che accende. È il calore che sa darti, l’amore che viene più facile. È i gesti, i suoni del rituale: la capsula da incidere e togliere, lo stridio del cavatappi nel sughero, lo schioppo, il frusciare fluido nel calice.
È la forza di un’opera contadina assoluta, il connubio ideale tra la terra e l’uomo.
È succo d’uva che va mutando in aceto per una spontanea sequenza di processi chimici - l’essere umano che puntualmente s’intrufola e cerca di domarla, deviarla, pur di avere qualcosa di decente da mettere in tavola.
Ecco, forse è meno ridicolo sintetizzarlo così.

Sui pedali tra i filari – da Prato al Chianti e ritorno | Emiliano Gucci | Laterza | pagg. 208 | prezzo: 12 euro

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