Parlando con Gaia Gaja. Sostenibilità e altre storie di vino

18 Apr 2016, 08:28 | a cura di

Nuovo slancio sulla via della sostenibilità, ispirazione biodinamica, orizzonti ampi, analisi fuori dagli schemi. Gaia guida l’ingresso di Gaja nel futuro, insieme alla sorella Rossana e al fratello Giovanni. Ci racconta le sue passioni e le sue ricette sul fronte dell’internazionalizzazione.

Valorizzare la differenza

Tutto è cominciato dall’osteria, l’Osteria del Vapore. Era metà ’800, il Tanaro non era il fiumiciattolo di oggi e Barbaresco aveva un porto: una zattera la collegava con Alba. “Vicino all’attracco c’era la nostra osteria, lì è iniziata la produzione di vino. Tra i tanti visitatori, alcolizzati e giocatori d’azzardo che finivano per giocarsi anche mogli e vigneti”. Sorride Gaia Gaja.
 

 

 

 

Nel 1859 Giovanni Gaja – da una famiglia d’origine spagnola arrivata nella Langhe a metà ’700 – iniziò a imbottigliare il vino. “Quando tutti investivano nel Barolo, il mio bisnonno Angelo e Clotilde Ray investivano nei migliori terreni di Barbaresco. Ai tempi era considerato un vino minore, meno strutturato, meno potente, meno longevo del Barolo”. Il nonno Giovanni è ancora più ambizioso, amplia il patrimonio di terreni con i cru che hanno fatto grande l’azienda, Sorì Tildin, San Lorenzo, Costa Russi: “E ha trasformato quella differenza in valore”. Si lavorano solo uve proprie, nel 1961 entra in azienda Angelo che decide di vinificare separatamente i suoi vigneti e li racconta al mondo intero. Utilizza, tra i primi, la barrique, i vini segnano uno stacco: sono più morbidi, intensi e setosi.

Puntare all'estero

L’altra scommessa? Quella di puntare sul mercato americano, poi puntualmente esploso. Oggi Gaja è la quintessenza del vino italiano nel mondo. Abbiamo ritrovato le etichette, con quella grafica essenziale in bianco e nero, negli angoli più impensabili del globo: dal ristorante in un paesino alle porte di Taipei, nei vicoli di Giacarta, nei ristoranti italiani nell’insidiosa periferia di San Paolo. Nel 1995 e 1996 due acquisizioni sicure, prima Pieve di Santa Restituta a Montalcino, poi Ca’ Marcanda a Bolgheri.

Concretezza e basso profilo

E adesso? Si va ancora più a Sud? “No, anche se trovo affascinanti le Marche, la Campania, la Sicilia” spiega Gaia, che ha un debole per i bianchi che sanno sfidare il tempo “Sono sempre più convinta che il Piemonte sia una terra per bianchi da grande invecchiamento”. Ma qual è l’insegnamento del padre più prezioso per Gaia? “Tenere un basso profilo”. Gaia è determinata quanto curiosa. Cosa risponde Gaia a chi sostiene che i vini di Gaja son troppo cari? “Non li comprino, mica li ha ordinati il medico”.

 

 

La sostenibilità versione Gaja

E sulla sostenibilità? “I vini naturali sono in rottura con le pratiche convenzionali, così come lo era in Piemonte 40 anni fa lo stile moderno. Qualsiasi rottura degli schemi porta con sé estremizzazioni ed errori, è rischiosa, ma è anche utilissima a tutti perché costringe i convenzionali di ogni periodo storico ad ammettere e superare i proprio limiti. Il vino, la viticultura, hanno bisogno di buoni esempi ed innovazione; certo a volte nei vini naturali non sono riconoscibili varietà o territorio ma solo lo stile di vinificazione. C’è chi racconta il metodo che usa, ma non racconta chi è”.

Ma cosa fa Gaja? “Lavoriamo sulla salvaguardia e proliferazione della vita nel sottosuolo, tra i filari, intorno ai vigneti: obiettivo è favorire la resilienza delle viti a cambiamenti e avversità sempre più imprevedibili. Avanziamo attraverso l’osservazione e la sperimentazione costante di nuove pratiche (gestioni diverse degli inerbimenti, della gestione della parete fogliare, dei tempi di potatura, eccetera…). L’ispirazione filosofica è per certi versi biodinamica, ma non seguiamo alcun protocollo perché sarebbe limitante. Cerchiamo la strada più adatta possibile alle esigenze dei nostri vigneti. Inoltre, dal 2004 produciamo noi il compost, un’iniezione di vita per il suolo”.

Per esempio per combattere climi caldi e secchi bisogna mantenere l’umidità del terreno, alcuni vigneti non vengono arati, l’inerbimento è perenne, mentre in cantina arrivano uve sempre più mature e morbide (negli anni ’60 i ph del Barolo segnavano 3.1, oggi 3.7) e ambienti riduttivi come il cemento trovano nuova vita.

Fiori e api per una vitivinicultura green

Gaia e la sorella Rossana – Giovanni è il più piccolo, appena laureato e con le valigie pronte per un master negli USA – hanno dato una forte accelerazione verso una viticoltura sana. Il cambiamento climatico è la sfida di oggi e di domani e hanno convinto il padre a investire in collaborazioni con botanici, entomologi e diverse università: “Ogni monocultura (come la vite da queste parti) comporta un impoverimento dei terreni, siamo andati in Alta Langa per selezionare fiori e piante che non abbiamo più e abbiamo seminato questo mix nelle nostre vigne” racconta Gaia. L’ultimo esperimento è sulle api, al loro interno hanno dei lieviti preziosi: “Sono la nostra spia per la salute del vigneto” aggiunge la sorella RossanaCome induttori di resistenza utilizziamo estratti di piante: propoli, cannella, menta, estratti di alga, rosmarino”. Risultati? In una vendemmia come la 2014 solo rame e zolfo. “Non esistono ruoli ben precisi in famiglia, né direttori: tutti mettono naso su tutto” le fa eco Gaia.

 

Gaja

 

Una storia di grandi vini

La consistenza qualitativa è sempre stata la garanzia dei vini della famiglia: 51 Tre Bicchieri in 29 edizioni di Vini d’Italia, la più premiata di tutte. Rigore, dicevamo. Già con l’annata 1946 l’intera produzione fu venduta come sfuso. Lo stesso avvenne con la 1972, 1980, 1984 e 1992. Non sono stati prodotti i cru dell’annata 2012, ma con la 2013 e la 2014 il discorso cambia: “In passato sarebbero state considerate annate piccole, oggi sono grandi. La 2013 è una vendemmia che adoro, un’annata di grande finezza e bevibilità, con profumi eterei e fragranti. Uve perfette, con tannini dolci: è un’annata che esalta il carattere di ogni singolo vigneto. Mentre nel 2014 a Barbaresco ha piovuto molto meno che a Barolo, i vini sono più acidi e minerali. Ci saranno sorprese”.

Le annate del cuore

Stappiamo un Barbaresco 2001, Gaia ha una capacità di assaggio e di racconto fuori dalla norma. Ama vini sottili e uno stile tradizionale: quelli di Bruno Giacosa, Giacomo Conterno, Giuseppe Mascarello. Così chiediamo quali sono “le sue” annate: “Amo i 2001-1999-1989 e sono particolarmente legata a un vino bevuto a San Francisco nel 2004, in un ristorante affollato e rumoroso in cui un gran numero di collezionisti sciorinava vini eccezionali, troppi, senza purtroppo dedicarsene seriamente. L’atmosfera era goliardica, quando misi il naso sul bicchiere di un nostro Barbaresco 1989: fu come una sveglia inaspettata, quel vino aveva esattamente il profumo del vento di Barbaresco, di certi angoli del paese, delle scale che portano in cantina… un vino che urlava!” Ultima domanda sulle guide: servono ancora? “L’Italia è il paese con più guide al mondo! Rimarrano solo le più forti: i premi sono importanti, ma bisogna scrivere di più in inglese!”

Uno sguardo sul mondo

Otto vini su dieci di Gaja sono venduti all’estero; in testa Stati Uniti e Germania, poi Svizzera. Come va il business mondiale del vino? “La Francia ha goduto di due fondamentali alleati: la sua grande cucina che la faceva da regina ovunque nel mondo; e l’eterna rivale Inghilterra, che ha promosso (non senza interesse) la cultura dei vini di Bordeaux nei diversi paesi dell’ex Impero. È imbarazzante con quanta sufficienza sia stato sempre trattato il vino italiano ma le cose finalmente stanno cambiando”. Bordeaux ora è in difficoltà e il vino italiano sta recuperando quote... “Lo Stato Italiano deve investire in formazione soprattutto dove non c’è stato molto flusso migratorio: Russia e Cina. I ristoranti italiani sono sempre stati i migliori ambasciatori dell’enogastronomia e dello stile di vita italiano”.

Nel 2015 il prezzi medio dei vini fermi francesi si è attestato sui 5.60 euro al litro contro i 2.52 euro dei vini italiani. “Un divario che si spiega soprattutto con la capacità dei francesi di valorizzare, comunicare e commercializzare i loro vini meglio di noi”. L’Italia ha il primato della produzione di food wines (i vini da pasto): “Occorre guadagnare spazio anche sulle carte dei vini dei ristoranti etnici” spiega Gaia. E avverte: “Nell’export ancora sottovalutiamo l’Est: occorre guardare a Albania, Croazia, Slovenia, Polonia, Repubblica Ceca”. In chiave import? “Attenzione alla qualità dei vini della Ribeira Sacra in Spagna”. Parola di Gaja.

a cura di Lorenzo Ruggeri

linkedin facebook pinterest youtube rss twitter instagram facebook-blank rss-blank linkedin-blank pinterest youtube twitter instagram