Pierpaolo Petrassi: “Ecco come funziona il (super)mercato inglese”

18 Mar 2016, 09:30 | a cura di

Quanto conta il vino italiano nella Gdo inglese? Lo abbiamo chiesto al responsabile del settore wine&spirtis della catena Waitrose: “L'Italia è seconda solo alla Francia, ma attenzione al Nuovo Mondo. Adesso servirebbe più coraggio”. A partire dai formati

Nato e cresciuto in Uk, il suo nome italianissimo ne 'tradisce' le origini: Pierpaolo Petrassi oggi è uno dei maggiori buyer (oltre che conoscitore) di vino in Inghilterra, tanto da essere al momento l'unico Master of Wine legato – grazie alla doppia cittadinanza - al nostro Paese. Alle spalle, oltre a un padre romano e una madre altoatesina, ha 33 anni di esperienza nel mondo del vino: è stato direttore acquisti per la catena di supermercati Tesco e per il grossista WaverlyTbs e da sei anni è l'Head of Buying - Beers, Wines, Spirits & Tobacco di Waitrose, il gruppo di supermercati di fascia medio-alta del Regno Unito. Insomma, è uno che il mercato inglese lo conosce bene, così come le dinamiche che lo governano. Insieme a lui abbiamo fatto un giro tra gli scaffali di Waitrose, provando a ricavarne una piccola analisi di mercato e individuandone, all'interno, il posizionamento dei vini italiani.

 

Waitrose

350 punti vendita, fatturato 6,5 miliardi di sterline. Il settore alcolici (vino, birra, liquori) rappresenta il 12% sull'intera gamma di prodotti e fattura 760 milioni di sterline l'anno. In catalogo ci sono circa 1200 referenze. La provenienza di vini fermi (escluse bollicine, vini rosé e vini dolci) è Francia (288), Italia 92, Australia 90, Nuova zelanda 60, Spagna 64 e a seguire Cile, Sudafrica, Inghilterra e Galles, California, Germania.

 

Partiamo dal mercato inglese. Come sono cambiati i gusti dei consumatori in questi 30 anni e come si inseriscono, in questa evoluzione, i vini italiani?

I consumi di vino in Inghilterra si possono ormai definire quotidiani, cosa impensabile fino a poco tempo fa, quando lo erano solo bevande come la birra e il tè. Parlando di vini italiani, se guardiamo a 25-30 anni fa, devo dire che ero molto preoccupato per il loro destino qui in Inghilterra. Per tantissimo tempo si son visti solo le denominazioni più famose vendute a prezzi bassissimi e a molto meno del loro valore. Mancava una campagna promozionale ben organizzata per dare una spinta in più: per tanto tempo si è lasciato fare al mercato senza avere una direzione specifica.

 

E poi, ci siamo organizzati meglio?

Diciamo che è stato un po' il mercato stesso a sistemare le cose, aiutato parecchio dai grandi chef che, qui a Londra - dove la cucina italiana ha un ruolo molto importante - hanno saputo trainare bene il vino.

 

Oggi ci sono denominazioni che hanno più successo di altre?

Sicuramente ce ne sono molte di più rispetto al passato, ad esempio Gavi, Lugana, Greco di Tufo. Mi piace ricordare il Montepulciano d'Abruzzo, che ha conquistato gli inglesi per il suo stile fruttato e morbido, molto vicino al Nuovo Mondo, o le denominazioni siciliane che sono cresciute molto grazie ai monovitigni, mentre è più difficile trovare un Etna Rosso in Gdo. Al contrario, la denominazione che ha perso di più rispetto a 20 anni fa è il Frascati. Infine vanno molto bene Prosecco e Pinot Grigio: nonostante il mercato sia un po' inflazionato, l'attrazione è forte. Ma si tenga presente che levendite di Pinot Grigio non dominano la gamma di vini bianchi italiani, come facevano qualche anno fa. Magari alcuni consumatori hanno conosciuto l’Italia tramite questo vino, ma ora bevono anche altri bianchi di più alta qualità.

 

L'attrazione di cui parlava prima è legata soprattutto al prezzo?

Anche. Il mercato inglese è ancora molto attento al rapporto qualità-prezzo. Senza considerare che l'Inghilterra è il secondo Paese europeo per valore delle accise, dopo l'Irlanda: 4 miliardi di sterline solo dal settore vino vanno ogni anno nelle casse dello Stato. Per cui l'attenzione al prezzo è molto alta, con i dovuti distinguo. Waitrose, per esempio, rappresenta un'eccezione perché il nostro cliente medio è molto curioso ed è disposto a spendere un po' di più per avere un prodotto di qualità.

 

Andando nello specifico, quanto è disposto a spendere?

La media nazionale per una bottiglia di vino comprata in Gdo è di 5 sterline. Noi, come dicevo, rappresentiamo un po' un'eccezione visto che siamo sopra di almeno due punti: circa 7,5 sterline. C'è da dire, però, che per ora il nostro settore soffre molto per la concorrenza sempre più aggressiva dei discount. È difficile stare dietro ai loro prezzi, ma è chiaro che parliamo di prodotti ben differenti.

 

Rimaniamo sul terreno dei competitor, ma soffermiamoci sulla concorrenza al prodotto: il vino italiano oggi chi deve temere?

Ormai, soprattutto qui in Inghilterra, la competizione è su scala globale. Parlando di Waitrose, c'è da dire che il cliente è molto legato ai vini europei: i francesi, che rappresentano le maggiori referenze sullo scaffale, gli italiani e gli spagnoli. E in generale ci sono certe denominazioni che richiamo alla fedeltà: chi beve Borgogna, difficilmente cambierà, così come chi beve Barolo. Ma il Nuovo Mondo ha certi marchi molto conosciuti e anche molto accessibili, penso a Jacob´s Creek, a Gallo... Poi si tenga presente che l’Italia - volendo fare un paragone non troppo azzardato col settore automobilistico - produce ed esporta molte più bottiglie ‘Fiat’ che bottiglie ‘Ferrari’.

 

Nell'ambito della concorrenza, il nostro sistema di denominazioni è un ostacolo o un valore aggiunto? Voglio dire, un consumatore inglese medio conosce e capisce la differenza tra un Chianti Docg e un Chianti Classico o tra un Prosecco e un Prosecco Superiore?

Diciamo che a molti non interessa saperlo. E d'altronde non possiamo stare lì a imporre un sistema così contorto: dobbiamo renderci conto che c'è uno zenit di interesse oltre il quale il consumatore medio non andrà. L'interesse è molto legato al vitigno: per esempio chi compra Pinot Grigio, magari non farà troppo caso alla sua provenienza. Se vogliamo 'vendere' un territorio, allora è più immediata ed efficace l'immagine regionale: in questo senso le regioni italiane più frequentate dai turisti inglesi sono Toscana, Lazio, Umbria, Veneto, Sicilia e Piemonte.

 

Quali strategie adottare, quindi, per emergere nel mare indistinto dello scaffale?

In alcuni casi basta poco: un nome pronunciabile, un'etichetta internazionale...

 

E voi, nello specifico, come cercate di indirizzare i consumi?

Cerchiamo di dare ai nostri clienti il coraggio di sperimentare. Nel nostro reparto ci sono tre squadre di buyer che cercano di indirizzare i consumatori anche attraverso delle segnalazioni sullo scaffale. Poi cerchiamo di raccontare la storia dei vini e le loro caratteristiche: periodicamente pubblichiamo un catalogo di etichette con queste informazioni. O nei periodi festivi, come adesso per Pasqua, proponiamo abbinamenti col cibo, ad esempio agnello e Chianti. Proposte che si riescono a realizzare ancora meglio attraverso il nostro sito e-commerce.

 

L'e-commerce appunto. Una parola-chiave, tanto che secondo Wine Intelligence in Uk le vendite online valgono il 10%. Qual è la vostra esperienza in merito?

Non possiamo che confermare questo trend. Anzi rilanciamo: Waitrose ha chiuso il 2015 con una crescita del +19% in valore delle vendite di vino online. Nel canale tradizionale abbiamo realizzato a valore un +3%. La differenza di passo tra i due canali è notevole. Diciamo che ce lo aspettavamo, per questo abbiamo di recente rilanciato il nostro portale. Bisogna, poi, considerare che il vino si presta particolarmente alla vendita online: è più facile raccontarlo, magari con l'apporto di video e immagini. Senza considerare che il consumatore si sente più sicuro perché ha la possibilità di confrontare immediatamente i prezzi. Certo, tutti noi viviamo con lo spettro di Amazon che potrebbe cannibalizzare il mercato da un momento all'altro, ma lo sforzo di questo gigante dell'e-commerce va soprattutto in direzione dei grandi marchi molto conosciuti: difficilmente si concentrerà sui piccoli.

 

E voi, invece, come selezionate i vini da inserire in catalogo?

Abbiamo dei nostri buyer che, a differenza di ciò che avviene negli altri supermercati, si occupano sia dalla parte commerciale sia di quella tecnica perché sono profondi conoscitori non solo del mercato, ma anche del vino. Per quanto riguarda le aziende, la nostra filosofia è di avere dei rapporti ben consolidati: siamo chiaramente aperti alla novità, ma puntiamo sull'affidabilità. Se un vino entra in catalogo difficilmente vi resterà solo per un anno. Anche se tendiamo a differenziare l'offerta, quindi non prendiamo un 'pacchetto completo', ma di solito uno, al massimo due vini per azienda.

 

E poi ci sono le private label...

Sì, abbiamo dei vini a marchio Waitrose, ma comunque imbottigliati nel luogo d'origine (tra gli italiani rientrano nella categoria Chianti Classico Barone Ricasoli; Ripasso Valpolicella Fratelli Recchia; ndr) ma, rispetto ai nostri competitor, rappresentano solo una piccola percentuale della nostra offerta, che non si spinge oltre il 10%.

 

Guardiamo al futuro. Dal suo osservatorio privilegiato sulle nuove tendenze, quali sono le prossime sfide per il vino?

Il coraggio è tutto. E nel vino significa saper rischiare. Come? Penso ad esempio al formato: sa perché oggi utilizziamo principalmente la bottiglia 0,75? Non perché sia la più comoda, ma perché, quando le bottiglie si facevano artigianalmente, bastava un solo soffio di polmoni per ottenere quella misura. Ci siamo cascati tutti e ci siamo uniformati ad una regola ormai superata. Oggi avremmo usato altri criteri di scelta: per esempio, per un ragazzo che vuol bere, ma con moderazione, o per una persona single, non sarebbe più comodo un formato 0,50? Allora forse bisognerebbe trovare il coraggio di proporre nuovi criteri - e mi riferisco a formato, tappo e anche contenitore (vedi alla voce bag in box; ndr) - che potrebbero avvicinare il consumatore, soprattutto quello più giovane. Andando sul concreto, Marks and Spencer all'interno dei corner food posti nella stazioni londinesi ha iniziato a proporre vino nel formato 0,25. Ma non solo: è possibile acquistare anche gin tonic in lattina. La mia preoccupazione è che, se il vino non si rinnoverà anche in queste piccole cose, prima o poi possa arrivare un nuovo prodotto ad intercettare la domanda, mettendolo da parte.

 

Vuole dare un consiglio agli aspiranti Master of Wine italiani? C'è un motivo per cui nessun altro connazionale ha ancora conquistato il titolo?

Ho avuto modo di conoscere e formare alcuni aspiranti MW italiani molto bravi. Probabilmente, però, oltre a trattarsi di un percorso estremamente complicato, la difficoltà maggiore sta nell'approccio molto anglosassone. Gli italiani conoscono bene i propri vini, ma non altrettanto quelli stranieri. Gli australiani, un po' come gli inglesi, hanno invece una conoscenza globale, probabilmente perché da loro gira moltissimo vino internazionale, mentre mi rendo conto che in Italia non c'è lo stesso facile accesso. Ma per capire il proprio vino e il mercato, bisogna anche guardare oltre. Mi auguro che anche l'Italia abbia presto i suoi MW.

 

 

a cura di Loredana Sottile

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 10 marzo

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