Riuscirà la viticoltura italiana a fare a meno del rame?

28 Nov 2018, 16:30 | a cura di

Bruxelles rinnova l'utilizzo del rame in agricoltura, con un piccolo abbassamento delle dosi consentite: 28 kg distribuiti in 7 anni. Ma esistono oggi delle soluzioni alternative e sostenibili dal punto di vista economico per chi coltiva in regime biologico? Dagli integratori ai vitigni resistenti, facciamo il punto con chi li sta sperimentando

Rame sì, rame no? In questi mesi si sono succedute proposte e dietrofront, che hanno lasciato nell'incertezza i produttori agricoli, soprattutto chi coltiva in regime biologico. E alla fine è arrivata la risoluzione di Bruxelles che ha deciso di rinnovarne l'utilizzo e ha confermato il calcolo della media matematica, quindi la distribuzione su più anni: 4 kg l'anno (invece dei 6 attuali), con la possiiblità di sforare in annate difficili, a patto di restare dentro i 28 kg in 7 anni. Le nuove disposizioni entreranno in vigore a partire dal primo febbraio 2019. Pericolo scampato e sospiro di sollievo, quindi, per i produttori, che al momento non si ritrovano delle valide alternative a questo fungicida. Tuttavia, vista la strada della riduzione imboccata e gli innegabili impatti del rame sul suolo, pensare a nuove soluzioni è doveroso.

Il rame e gli effetti sulle piante e sul terreno

Ma prima di analizzare le possiibli alternative, cechiamo di capire di cosa si tratta e quali sono le sue funzioni. Il rame è uno dei fungicidi più utilizzato in agricoltura sotto varie forme, come solfato di rame, tribasico, idrossido, ossicloruro. In particolare, in viticoltura, è il principio attivo utilizzato da oltre un secolo contro la peronospora della vite. Viene neutralizzato con idrato di calce al fine di ridurne l'acidità, in un composto che prende il nome di poltiglia bordolese. L'applicazione avviene tramite trattamento fogliare in fase preventiva. Può essere applicato senza particolari problemi durante tutto il ciclo vegetativo della vite, ma se ne sconsiglia l'uso nel periodo della fioritura. Non essendo un prodotto di sintesi, è consentito anche in agricoltura biologica, dove funge anche da fertilizzante. Ma, essendo un metallo pesante, tende ad accumularsi nei primi strati del terreno, con impatti negativi sulla vita microbica, sullo sviluppo di batteri, alghe, micorrize, funghi e lombrichi. Viene allontano dal terreno esclusivamente dall'azione delle piogge. Tuttavia oggi farne a meno è praticamente impossibile, soprattutto per chi produce in regime biologico e non ha, quindi, altri prodotti ammessi.

L'appello di Fivi

Non ha mai nascoto le sue preoccupazioni, a tal proposito, la Fivi, che in più occasioni ha lanciato il suo appello al Mipaaft, per una soluzione meno penalizzante per i produttori di biologico. In particolare, la presidente Matilde Poggi, in questi mesi, aveva chiesto soluzioni meno drastiche e più graduali. “Nessuno di noi è contento di buttare rame nel terreno, ma c'è bisogno di tempo affinché la ricerca vada a avanti e chi fa biologico possa trovare soluzioni migliori. Al momento, purtroppo, non ne possiamo fare a meno”. Sulla possibile strada da seguire Poggi aveva proposto un primo step con riduzione a 5 kg, per passare nel 2024 a 4 kg.  La soluzione della Commissione Europea è comunque accettabile: “Non siamo del tutto soddisfatti, ma abbiamo evitato il peggio” è il suo commento a caldo “la proposta dell’EFSA del 2016 di vietare l’utilizzo del rame in agricoltura e la successiva proposta della Commissione Europea di togliere la possibilità di calcolare la quantità di rame utilizzabile con il metodo della media matematica sarebbero state davvero disastrose”.

La viticoltura oltre il rame, secondo la Fondazione Mach

E passiamo, adesso, al campo della ricerca. Cosa dobbiam aspettarci per il futuro prossimo? Per avere un quadro chiaro della situazione, non potevamo che rivolgerci al centro di ricerca e sperimentazione per eccellenza: la Fondazione Edmund Mach di San Michele all'Adige. Partendo da una domanda secca: il rame è oggi sostituibile? Altrettanto secca la risposta del dirigente del Centro trasferimento tecnologico Claudio Ioriatti: Per chi fa agricoltura biologica non esistono ancora delle valide alternative contro la peronospora.Tuttavia, è innegabile che il rame dia dei problemi al terreno e ai suoi microrganismi”. Motivo per cui, davanti alle possibili riduzioni che molto probabilmente arriveranno dall'Ue, la Fondazione non si trova di certo impreparata. “Se, oggi del rame non si può fare a meno” spiega Ioratti “ridurne le dosi è, invece, possibile. Grazie all'ausilio di altri prodotti. Prodotti che hanno un effetto di compensazione, ma che da soli non darebbero comunque gli stessi risultati del rame”. L'elenco è lungo e continua ad arricchirsi. Ci sono estratto di equiseto, oli essenziali, chitosano (vedi a tal proposito la sperimentazione dell'Università di Ancona nel paragrafo successivo). Ma la strada di questi, chiamiamoli “integratori” non è l'unica percorribile. Ve ne è un'altra che, però, presuppone la revisione della viticoltura tradizionale.

Una sorta di rivoluzione copernicana, che passa dal produrre altro vino e coltivare altre uve. Non quelle blasonate. Ed è la strada delle varietà resistenti (ne avevamo fatto una degustazione qualche tempo fa) su cui stanno puntando diverse cantine: dall'altoatesina Lieselehof del produttore Werner Morandell alla cantina cooperativa Rauscedo, passando per la Cantina sociale di Trento fino all'ultima, in ordine di tempo, in collaborazione dei Vivai Rauscedo I Feudi di Romans, il marchio di punta dell’Azienda Agricola Lorenzon di San Canzian d’Isonzo.

Varietà selezionate sia in Italia, ma anche dalle università tedesche e ungheresi”continua il direttore“alcune sono già sul mercatoe c'è chi già produce i propri vini a partire da queste varietà.Si tratta di incroci tra vite europea, che porta il carattere della qualità, e vite americana, che porta quello della resistenza. Sono, ovviamente, varietà sotto osservazione, perché sono resistenti alla peronospora, ma magari possono contrarre nuove malattie. Anche in questo caso, quindi, qualche trattamento può rivelarsi comunque necessario”.

Sulla scia delle varietà resistenti si “innesta”, poi, la tecnica del genoma editing, studiata già da anni dalla stessa Fondazione Mach: “Abbiamo un programma di briefing su questa tecnica” rivela Ioratti “in questo caso si tratta di inserire i caratteri di resistenza su varietà classiche. Purtroppo, però, la decisione della Corte Europea di considerare il genoma editing come Ogm ha bloccato l'entusiasmo su questi studi. Ma di certo le sperimentazioni non si fermeranno, perché magari in un futuro non troppo lontano la normativa potrebbe cambiare”. In attesa di quel futuro, il direttore del Centro ci tiene, però, a precisare come, in ogni caso, prima di qualunque trattamento contro le malattie della vite sia necessario intervenire a monte sulle tecniche agronomiche, con le dovute differenze tra zone, come quelle del Sud, dove le condizioni climatiche sono più favorevoli alla viticoltura, e quelle umide più soggette all'insorgere di malattie della vite: “Non basta pensare di sostituire questo o quel prodotto se prima non si interviene correttamente sulla pianta e sul terreno. Base di partenza per una viticoltura di qualità e rispettosa dell'ambiente”.

 

Moncaro e l'Università di Ancona sperimentano il chitosano

Se gli Istituti vanno avanti con la ricerca, neppure le cantine stanno a guardare. Com'è il caso di Moncaro, la cooperativa di Montecarotto (Ancona), che già da anni (era il 2012) ha iniziato a sperimentare soluzioni alternative al rame, insieme all'Università di Ancona. In particolare con l'Istituto di Fisiopatologia e il professore Gianfranco Romanazzi. Le soluzioni sono, poi, state inserite in un bando della Regione Marche che è arrivato nei primi posti della graduatoria e che potrebbe presto avere dei risvolti sulla viticoltura marchigiana. A dare i risultati più soddisfacenti è il chitosano, un polisaccaride estratto dall'esoscheletro dei crostacei che, come il rame, ha una funzione preventiva. “Lo abbiamo utilizzato sia nell'area del Conero, per il Montepulciano, sia nella zona del Verdicchio” ci spiega l'enologo di Moncaro Giuliano D'Ignazi e possiamo dire che, anche in un'annata come questa, caratterizzata da un'ampia diffusione della peronospora, è riuscito a contenere bene la malattia. Tanto che non abbiamo riscontrato differenza tra le vigne trattate con il chitosano e quelle trattate con il rame”. Anzi: una differenza, in realtà, c'è. Ed è quella economica. “Purtroppo il chitosano costa tre volte il rame” continua l'enologo “per cui essere sostenibile dal punto di vista ambientale, non coincide con l'esserlo dal punto di vista economico. Oltretutto, in caso di piogge o di nuovi germogliamenti, diventa necessario ripetere il trattamento”. Anche per questo motivo, sostituire del tutto il rame - da qui a breve - non è possibile (in molti casi lo si usa in modo complementare). Ma essere in linea con eventuali abbassamenti delle dosi richieste dall'Ue sì. “Il nostro obiettivo non è eliminare il rame d'embléee dappertutto” chiarisce D'Ignazi “c'è bisogno almeno di un triennio affinché si possa passare dalla fase sperimentale a quella operativa, sperando anche in un contenimento dei costi. Ma la strada è quella giusta, anche perché va ricordato che il rame è fortemente impattante, sia sull'ambiente(è nocivo per i microrganismi utili al terreno e per la flora microbica e si deposita nel terreno; ndr), sia sul vino, per quel che riguarda la parte aromatica. Dal nostro punto di vista, l'esigenza di sostituirlo è nata, non solo da una scelta sostenibile, ma anche dal voler trovare una soluzione alle ossidazioni. Il rame, infatti, funge da catalizzatore e, quindi, nelle prime fasi di vinificazione va ad ossidare parte degli aromi delle uve. Soprattutto nei vitigni bianchi, dove gli aromi sono molto più sensibili all'ossigeno”. Vale a dire che trattare in modo diverso – che sia con il chitosano o con altri prodotti - può, non solo contenere le malattie senza avere effetti negativi sull'ambiente, ma addirittura dare vini migliori.

a cura di Loredana Sottile

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 22 novembre

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