Oggi è un barman affermato in tutto il mondo, una colonna della mixology italiana. Il suo locale capitolino, sulla via che porta a San Pietro, sembra il confine da superare prima di ritrovarsi in una dimensione trascendentale. E qui, dietro il bancone di Chorus, dove è approdato da due anni, Massimo D'Addezio domina la scena, studia i gusti dei presenti, elargisce consigli, promette raffinate evasioni, carpisce le tendenze in corso e le interpreta alla sua maniera.
D'altronde il mondo del beverage lo conosce bene: “Mio zio era un commerciante di vino, mio padre aveva un'enoteca-osteria nel quartiere romano di Centocelle. In mezzo all'alcol ci sono cresciuto: è come un circo che si tramanda in famiglia. Ricordo ancora le botti di legno nella cantina e il vino che arrivava da Velletri”. A lui - protagonista della seconda serie di Spirtis, i maestri del cocktail su Gambero Rosso Channel - abbiamo chiesto di parlarci del mondo dei cocktail, uno dei settori che, al contrario del vino, gode di un momento particolarmente positivo: i consumi italiani sono in salita soprattutto nella fascia 18-44 anni, con particolari picchi per le donne fino a 24 anni. In dieci anni (2006-2016), la voce “aperitivi, amari, superalcolici” è cresciuta del 19,6%, mentre vino e birra hanno perso complessivamente il 16,5%.
Rispetto al vino, dove i consumi interni sono in calo ormai da diversi anni, come va sul fronte cocktail?
Siamo in controtendenza: i consumi sono in aumento e soprattutto cresce la consapevolezza. Il cliente adesso ha capito che quando si parla di cocktail non ci si riferisce solo a Mojito o Caipirinha, così come non si parla solo di Rum, ma anche di Mezcal, Vodka, Tequila, Gin, ognuno con le proprie caratteristiche e le proprie varianti. Per questo è anche disposto a pagare di più. E mentre cresce la richiesta, crescono anche i prodotti e cresce la loro qualità.
L'etilometro non ha creato dei problemi?
Sì, ma ha anche fatto cambiare il modo di bere: più ricercato, consapevole e attento.
È possibile trovare un punto di contatto tra vino e cocktail?
Certo, pur tenendo presente che la base alcolica del vino è molto più bassa rispetto a quella dei superalcolici. Ad ogni modo molti dei più celebri cocktail prevedono l'uso di vini, soprattutto di bianchi e bollicine.
Bollicine francesi o italiane?
Dipende. Quelle italiane stanno vivendo un momento positivo, per esempio con il mio Japanese75, nella cui ricetta originale c'è il French75, mi son preso la licenza di usare Trento Doc al posto dello Champagne. In fondo quel che mi interessa è l'uvaggio e quello del metodo classico italiano consente di arrivare a risultati ottimali.
Significa che anche nella mixology, la territorialità inizia ad avere lo stesso valore aggiunto che ha nell'ambito del vino?
Esatto. Penso ad esempio ai cocktail fatti con i vini bianchi, come il Kir. Di solito quelli che si prestano di più a questa miscelazione sono i vini giovani con spiccata acidità, in molti casi internazionali. Ma una delle tendenze in corso è l'uso di vini che interpretano il territorio: il Grillo se ci si trova in Sicilia o il Greco di Tufo in Campania. E non mancano neppure gli esempi con il vino rosso. Uno su ttuti, il New York Sour, per il quale si prediligono vini più corposi, pieni, che qui in Italia possono variare dal Montepulciano d'Abruzzo al Sangiovese.
Cosa ci dici, invece, del Prosecco?
Sul Prosecco c'è poco da aggiungere rispetto all'evidenza: per capire la portata del fenomeno basti un aneddoto. Quando ero allo Stravinskij Bar del De Russie avevo deciso di puntare tutto sulle bollicine di fascia medio-alta: champagne-metodo classico italiano. Insomma, niente Prosecco. E com'è andata a finire? Dopo poco tempo son dovuto tornare sui miei passi: tutti i clienti, soprattutto gli stranieri, ci chiedevano l'“italian champagne”, che per loro era, appunto, il Prosecco. All'estero ormai è diventato un must.
Dal Prosecco allo Spritz il passo è breve ...
Quando vado all'estero è uno dei cocktail che mi chiedono più spesso di realizzare. E pensare che in principio, nella ricetta originale il Prosecco non c'era: era semplicemente un vino allungato con acqua, nato nel Nord Italia durante ladominazione asburgica. La prima evoluzione fu l'uso dell'acqua di Seltz, che arrivava dalla città tedesca di Selters. Ma la vera svolta l'ha segnata la Campari, che ha introdotto prima l'Aperol e poi anche il Prosecco, riscrivendo di fatto la ricetta, diventata, così, un successo mondiale.
Oltre all'Aperol Spritz, quali sono gli altri cocktail italiani più conosciuti e diffusi all'estero?
Nell'ordine di nascita: Milano-Torino; Americano; Negroni. La base è la stessa per tutti e tre e la loro storia è un susseguirsi di eventi, aggiunte e casualità. Parte tutto dal Vermut, che in origine si beveva semplicemente liscio, poi per renderlo più aromatico si è evoluto nel Vermut Chinato, per arrivare, infine, all'aggiunta di bitter Campari. Da qui il nome di Milano (patria del Campari)-Torino (patria del Vermut). O il contrario, Torino-Milano: a seconda dai punti di vista e della città di appartenenza di chi ne parla! L'altro step è la nascita dell'Americano, semplicemente con l'aggiunta di Soda. Ma la storia evolutiva non è finita: nel1920 ritorna a Firenze, dal suo soggiorno americano, il Conte Camillo Negroni. Dice che Oltreoceano va di moda il Gin e lo fa aggiungere alla ricetta. Da allora è boom: tutti vogliono l'Americano alla moda del conte. Nasce il Negroni.
E la storia potrebbe continuare con la leggendaria “invenzione” del Negroni sbagliato...
… che nasce al Bar Basso di Milano. Narra la leggenda che il barman inforcò il Prosecco (ancora lui! ndr) al posto del Gin. Il risultato fece impazzire la cliente cui era destinato.
Nei racconti di questi cocktail, oltre al Prosecco, c'è anche un altro grande protagonista: il vino ippocratico a base di assenzio, meglio conosciuto come Vermut. Un prodotto italianissimo e antico, che, però, oggi rappresenta quasi una novità. Com'è che per tanti anni ce ne eravamo dimenticati?
La sua riscoperta risale a 5/6 anni fa. E il merito non è italiano: come era già avvenuto 150 anni fa, furono i barman americani a riconoscere nel Vermut un valido alleato, grazie alla sua componente aromatica importante. Il primo arrivo del Vermut in America aveva portato alla nascita del Manhattan, a base di whisky di segale, Vermut rosso e angostura. Chiaramente negli anni de Proibizionismo americano, il Vermut, così come il Campari o il Fernet Branca per citarne alcuni, non potevano entrare in Usa se non come medicinali, per poi essere utilizzati sotto banco nella preparazione di cocktail. Per quanto mi riguarda e in tempi decisamente più recenti, ricordo che quando 15 anni fa andavo a comprare il Vermut in enoteca le bottiglie erano ricoperte da una coltre di polvere.
Oggi sarebbe impensabile. Tanto che la sua riscoperta ha portato alla nascita dell'Istituto del Vermut e al riconoscimento del Mipaaf. Come lo vedi il suo futuro?
Lo vedo roseo. Senz'altro è il suo momento. Dall'originale ricetta di Carpano, ricco di caramello e vaniglia, a mano a mano sono nate nuove interpretazioni, più secche e meno dolci. Anche se in questo momento la vera novità è il ritorno alle origini.
Qual è, invece, la novità nei gusti dei consumatori in fatto di cocktail?
Anche qui la tendenza è di andare verso gusti più aromatici e più dolci. Una tendenza che non condivido troppo, perché per me la mixology è anche sour.
Altro trend in corso. Se dico foodpairing cosa mi dici?
Non ci credo molto in rapporto ai cocktail. Ogni preparazione presuppone quella che si definisce tecnologia: preparazione, scelta del bicchiere, tipo e quantità di ghiaccio da utilizzare in rapporto alla quantità di alcol e poi tempi di assunzione. Tutte cose che andrebbero completamente stravolte per adattarsi ai piatti. Oggi molti grandi chef hanno introdotto l'abbinamento dei loro piatti ai cocktail, in sostituzione del vino, ma siamo davvero sicuri che il cliente riesca ad arrivare al quarto/quinto bicchiere senza sentirsi appesantito? Per me non funziona. Senza contare che l'abbinamento è relativo: il vero bevitore, se inizia con un cocktail finisce con lo stesso.
Allora, anche noi, finiamo da dove abbiamo iniziato. Com'è che non hai continuato l'attività di enotecario nel locale di famiglia?
La vecchia Osteria Tranquilli - era il nome del primo proprietario che decidemmo di tenere quando rilevammo l'attività - la chiudemmo nel 1987. Lo scandalo del metanolo fu un colpo durissimo per il vino: i consumi caddero a picco e così decidemmo di dedicarci ad altro.
Allora (come oggi?) il futuro era nella mixology ...
Vedremo. Intanto, oggi nei locali dell'Osteria del quartiere Centocelle ci hanno messo un McDonald's.
a cura di Loredana Sottile
Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 11 maggio
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