Salumi spalmabili, dalla ‘nduja al ciauscolo: storia, preparazione e abbinamenti

20 Ott 2020, 11:58 | a cura di
Se non li avete mai assaggiati dovete rimediare, se già li conoscete un ripasso è sempre utile. 'Nduja, ventricina, ciauscolo e altri ancora.

Con gli insaccati classici hanno in comune la trasformazione della carne e, talvolta, i tempi di stagionatura. Ma non di certo la non la consistenza finale. I salumi morbidi sono il sogno inconfessabile di ogni goloso che si rispetti: saporiti come gli affettati e versatili quanto una crema spalmabile. Ecco una guida per (ri)conoscerli, dalla storia alle tecniche di preparazione, senza trascurare gli abbinamenti giusti per portarli in tavola.

Salumi spalmabili italiani. I più importanti

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La ‘nduja: la storia del salume piccante calabrese

Impossibile confonderla con altri insaccati: unica nel suo genere, seppur sottoposta a molte “imitazioni”, la ‘nduja è uno dei prodotti più rappresentativi della cucina calabrese. Un piccolo capolavoro di artigianato locale nato per esigenza della popolazione povera, con l’intento di consumare i tagli meno nobili della carne di maiale (soprattutto interiora, trippa e polmoni, ma anche parti della testa e del tessuto muscolare). La prima curiosità è legata al nome, che deriva dal termine latino “inductilla” e fa riferimento all’atto di introdurre una cosa dentro l’altra; significato che, come vedremo fra poco, richiama il processo di realizzazione del salume. Sembra che la ricetta della nduja sia stata messa a punto per la prima volta dagli abitanti di Spilinga, un minuscolo borgo situato sull’altopiano del Poro, in provincia di Vibo Valentia, cui va il merito di aver conservato la memoria delle tecniche di lavorazione originarie (ecco la lista dei produttori più importanti della zona). Non a caso, proprio qui si svolge ogni anno, a partire dall’8 agosto, la sagra più antica fra quelle dedicate al prodotto, istituita nel 1975.

Preparazione della ‘nduja e abbinamenti in cucina

Oltre agli scarti del maiale, la ‘nduja contiene una discreta quantità di peperoncino piccante calabrese, utilizzato come conservante sin dai tempi più antichi, che rende superflua l’aggiunta di eventuali additivi chimici. Ma torniamo sull’origine del nome: in effetti, il salume si prepara tritando e impastando la carne di maiale insieme al peperoncino, fino a ottenere un composto cremoso che viene inserito nel budello dell’animale. Dopo l'“inductio” si pratica una lieve affumicatura con le erbe aromatiche offerte dal territorio, cui segue la stagionatura da 3 a 6 mesi, a seconda della tipologia di insaccato (in barattolo, come crema spalmabile, o in forma solida da affettare). La consistenza della pasta è morbida e scioglievole, mentre all’assaggio il gusto pungente del peperoncino compete con il sapore naturale della carne. Queste caratteristiche rendono la ‘nduja un ingrediente ideale da abbinare al pane rustico leggermente tostato, a formaggi di media stagionatura o ai formati di pasta tipici calabresi, come gli scialatielli. Oggi, però, viene impiegata anche come topping sulla pizza (qui una ricetta da fare a casa) o come ripieno di altri impasti - in primis ravioli o polpette fritte.

ventricina-teramana. Foto Slow Food

Foto Slow Food

La ventricina: storia e curiosità

Fonti alla mano, la produzione di ventricina in Abruzzo sembra essersi diffusa a partire dall’inizio dell’800 nei pressi di Chieti, ma la comparsa ufficiale del termine nel “Vocabolario di uso abruzzese” di Gennaro Finamore risale al 1880. Ad ogni modo, sappiamo che in un primo momento l’insaccato era composto soltanto da carne di maiale, sale e semi di finocchio; a tingerlo di rosso, dalla metà del secolo successivo, è arrivato il peperoncino, che proprio in quel periodo iniziava a diffondersi da un estremo all’altro della regione. Ma perché oggi la ventricina è associata in particolar modo alla città di Vasto? Probabilmente, la causa va attribuita ai numerosi allevamenti suini e alle coltivazioni di peperoni che, negli ultimi anni, sono cresciuti a dismisura proprio nelle campagne vastesi.

Preparazione e caratteristiche della Ventricina Dop

La ventricina, in realtà, viene prodotta sia in Abruzzo che in Molise. Le versioni più note sono quella vastese (che non è spalmabile e non Dop) composta per il 70% da parti magre del maiale e per il 30% da tagli grassi (qui ve l’abbiamo descritta nel dettaglio), e quella spalmabile teramana, in cui prevalgono questi ultimi (60-70%). La proporzione fra gli ingredienti influisce sia sulla grana del salume - a pasta fine, con inclusione di pezzi grassi - sia sul sapore. Ciò che caratterizza questa specialità tradizionale, però, è soprattutto l’aggiunta di peperoncino, pepe bianco, aglio e semi di finocchio, che le conferiscono una buona complessità aromatica. Per preparare la ventricina secondo il disciplinare Dop si inserisce il composto in un budello di suino modellato con la classica forma ovoidale, che viene fatto stagionare per almeno un centinaio di giorni; il salume certificato – inoltre - ha un peso che va da 1 a 2,5 Kg. Per gustarlo al meglio (oltre a fare affidamento sui migliori produttori abruzzesi) si consiglia di abbinarlo a formaggi piuttosto saporiti, come il caciocavallo, e ai pomodori maturi; è questo il caso della chitarrina al ragù di ventricina, un primo piatto molto amato in Abruzzo.

 

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Il ciauscolo: storia del salume contadino marchigiano

Come abbiamo già osservato nel caso della ventricina, spesso il nome di un prodotto rivela le sue origini: “ciabusculum”, in latino, significa “cibo di piccole dimensioni”, e sta proprio ad indicare lo snack preferito dei contadini locali, che avevano bisogno di portare con sé una merenda energetica per alleviare il duro lavoro nei campi. La sua storia dev’essere molto antica, perché pare che già i longobardi ne conoscessero la tecnica di produzione, perfezionata nel corso del Medioevo. I primi documenti che ce ne parlano risalgono a inizio ‘700 e sono stati rinvenuti nel maceratese, ma di lì a poco il ciauscolo si è diffuso in tutta l’area dei Monti Sibillini, che comprende anche Fermo, Ascoli Piceno, Terni e il capoluogo regionale marchigiano; l’equivalente umbro, invece, è il Cremoso di Norcia. Dal 2006, inoltre, ha ottenuto il marchio IGP e in etichetta viene designato come “prodotto della montagna”.

Produzione del ciauscolo e abbinamenti tipici

A prima vista, il ciauscolo si differenzia dalla 'nduja e dalla ventricina per il colore roseo e per la maggiore morbidezza della pasta. Il salume marchigiano, infatti, è a base di tagli particolarmente grassi come pancetta e lardo, fatti frollare più volte e impastati insieme a vino bianco, pepe e aglio. Il composto ottenuto viene inserito nel classico budello suino di forma cilindrica e allungata: ecco perché il ciauscolo ricorda un salame di medie dimensioni, diversamente dalla ventricina. La grande spalmabilità, paragonabile proprio a quella di una crema, è dovuta ai tempi ridotti di stagionatura (intorno alle 2 settimane), che conferiscono al prodotto un sapore meno pungente rispetto agli insaccati di provenienza abruzzese e calabrese. Ma a cosa possiamo abbinare il ciauscolo? Anche in questo caso, i formaggi locali di media stagionatura sono la soluzione migliore: consigliamo la Casciotta di Urbino, un'eccellenza Dop marchigiana, e i pecorini dell'entroterra dal gusto deciso. Per comporre un piatto unico si può optare per i formati di pasta rustici, come le tagliatelle lavorate a mano, oppure per la pizza ripiena, cotta in forno e farcita con cipolla. Un’ottima alternativa è la crescia, focaccia tipica marchigiana che nell'ascolano viene farcita a mo' di piadina con una generosa quantità di salame spalmabile. E poi, provate la nostra ricetta delle crocchette di patate con ciauscolo e limone.

Altri salumi spalmabili italiani

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La soprèssa vicentina

Primo salume spalmabile ad ottenere la certificazione Dop in Veneto, la soprèssa prodotta nel territorio di Vicenza si distingue per l'utilizzo dei tagli pregiati del maiale - fra cui coscia, lombo e grasso di gola - e l'insaccatura nel budello di bovino (qui abbiamo raccontato come avviene). La proporzione equilibrata fra parti magre e grasse e la macinatura a freddo delle carni contribuiscono a rendere la pasta fine e scioglievole. Il tempo di stagionatura, che può superare 6 mesi, e l'aggiunta di un mix di spezie oltre a sale e pepe, fanno sì che il colore risulti tendente al grigio, piuttosto che al rosato. Il piatto più famoso a base di soprèssa è sicuramente la polenta di mais, in cui il salume è abbinato ai funghi cotti nel vino. Ancora una volta, però, l'accoppiata vincente è con il pane; sia durante i pasti principali, che al momento dell'aperitivo, i veneti portano spesso in tavola "pan e soprèssa".

Infine, una curiosità: la prima immagine che attesta il consumo di questo prodotto tipico si trova in un dipinto del pittore cinquecentesco Jacopo da Bassano, dove uno dei personaggi è rappresentato nell’atto di tagliarne una fetta. La soprèssa, quindi, è nata più di mezzo secolo fa.

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Leberwurst e boudin: i salumi morbidi di montagna

Per concludere il nostro viaggio alla scoperta dei salumi spalmabili dobbiamo far riferimento a due prodotti tipici del Nord Italia, che possono avere una consistenza molto variabile. Spesso, però, presentano una pasta cremosa, che li differenzia nettamente dagli insaccati compatti con un tempo di stagionatura maggiore.

Iniziamo dal leberwurst, molto diffuso in territorio tedesco (dov’è nato), ma anche in Trentino-Alto Adige, precisamente a Bolzano. Si tratta di un salume a base di carne precotta e fegato crudo di suino, che viene impastato a mano ed insaccato in un budello naturale. Dopo la cottura ad alte temperature, la morbida salsiccia può essere consumata ancora fresca o affumicata. La versione italiana, rispetto a quella tedesca, si riconosce dalla macinatura grossolana della carne.

Il boudin è invece un sanguinaccio caratteristico del territorio valdostano, composto da numerosi ingredienti: oltre al lardo e al sangue del maiale, infatti, contiene patate e barbabietole bollite, vino e una combinazione di spezie di origine naturale. Qui è la barbabietola a fare da conservante, dopo un periodo di stagionatura brevissimo (circa 2 settimane) allo scopo di fissare colore e aromi. Il boudin si mangia fresco o bollito, con patate e insalate di montagna che ne esaltano piacevolmente il retrogusto dolce.

a cura di Lucia Facchini

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