Semplificazione e snellimento burocratico per export e lavoro. Parlano due grandi chef: Francesco Apreda e Cristina Bowerman

5 Feb 2014, 14:37 | a cura di
Non vogliono legalizzare la schiavitù o il contrabbando, ma le loro recenti esperienze li portano a chiedere – e a gran voce anche – che tutto il sistema in cui si muovono sia più elastico. E che le leggi vadano incontro alle esigenze di chi vuole trasmettere la cultura dell'alta cucina.

Sul sito di uno dei ristoranti più famosi del mondo, il Noma di Copenhagen, c'è una sezione dal titolo 'alumni' in cui sono elencati tutti i giovani che hanno completato con successo lo stage formativo e che sono andati a lavorare in altri ristoranti, forti di un biglietto da visita eccellente. In Francia invece esistono degli uffici preposti alla spedizione di prodotti alimentari all'estero che hanno il compito di analizzare tutte le differenti restrizioni doganali e agevolare le spedizioni. Insomma, si tratta di due casi differenti che hanno un punto in comune: l'apertura verso l'estero. Entrambi gli esempi forniscono un'idea di come, in modi diversi, si possa agevolare la diffusione della cultura alimentare. E questo ha un ritorno sia economico che d'immagine.In Italia non è così. Delle numerose difficoltà che uno chef deve superare quando incontra la burocrazia hanno parlato Cristina Bowerman e Francesco Apreda. La prima, durante la presentazione del libro Ci salveranno gli chef (del libro vi abbiamo parlato in una notizia di ieri), è intervenuta su lavoro e stage. “Noi facciamo formazione quando prendiamo uno stagista nelle nostre cucine. Spesso dobbiamo impiegare molto tempo per agevolarlo nel passaggio tra teoria e pratica” ha spiegato la chef di Glass Hosteria e di Romeo, entrambi a Roma. “La cucina di un ristorante non è quella di una scuola di cucina, i tempi sono fondamentali e spesso lo stagista deve adattarsi ad una situazione nuova e questo richiede fatica da entrambe le parti. Come se questo non bastasse, la legge impone al ristoratore una serie di obblighi che non ne agevolano affatto la presenza. Uno su tutti è l'orario. Un praticante non può lavorare oltre le ore 21, cioè proprio nel momento in cui la cucina è a pieno regime e il servizio è in corso”.

Francesco Apreda, chef dell’Imago, il ristorante dell’Hotel Hassler di Roma, ha raccontato invece il singolare episodio in cui si è trovato a dover nascondere un tartufo bianco nella valigia per andare ad una presentazione che da qualche anno si tiene in India. Il gemellaggio Italia – India prevede infatti una serie di dimostrazioni da parte dello chef nel preparare i prodotti che più rappresentano l'eccellenza italiana. “Il primo anno che sono andato in India non sapevo come portare il tartufo. Se avessi seguito tutta la procedura non sarei mai arrivato in tempo. E così sono partito con quattro chili di tartufo bianco nella mia valigia. Andavo a trasmettere l'eccellenza del Made in Italy in un paese che ci stava accogliendo a braccia aperte e mi sono dovuto sentire come un contrabbandiere. L'anno successivo mi sono mosso per tempo e, per arrivare in India, il tartufo spedito dall'Italia è dovuto passare per l'Olanda”.

Insomma, il mercato del Made in Italy, che si tratti di prodotti o di tecniche, quando viene monetizzato raggiunge cifre a nove zeri ma le enormi potenzialità della sua diffusione nel mondo vengono ostacolate da un apparato legislativo intricato e lento, assolutamente non in linea con il resto del mondo. E la domanda sorge spontanea: se nonostante tutte le difficoltà che la cultura gastronomica italiana incontra per uscire dai confini vale miliardi di euro, quale sarebbe il suo valore se fosse supportata da un sistema fluido e dinamico?

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