Se il segreto della trattoria fosse l’essere interclassista? Mi faccio questa domanda mentre scendo i tornanti che in meno di un quarto d’ora conducono dal quartiere completamente urbano di Genova Pra’, noto per il basilico anche se le coltivazioni non si vedono, alla Trattoria Baccicin dü carü che si trova lungo la strada statale che conduce dal quartiere genovese fino a Ovada in quello che è già Piemonte.
E mi chiedo se il segreto sia l’interclassismo perché mi convinco sempre di più che i posti dove si sta bene presentano delle caratteristiche di crocevia che mi sembrano ritornare e dunque suggeriscono una intrinseca necessità, perché la trattoria sia tale e il piacere di frequentarla si trasformi nella voglia di ritornarci: anche se il menù non cambia come nei ristoranti gastronomici e la carta dei vini, per quanto ricca, non presenta quasi mai degli sconvolgimenti.
Ma cosa significa interclassista?
Dovendo dare sostanza a un aggettivo che emerge con un procedimento induttivo dalla frequentazione di luoghi come la trattoria dell’alba di Piadena o ormai iconico locale di Gemma a Roddino, o i luoghi del fu Ermes e della signora Aldina, in Modena, a mio parere interclassista significa una serie di cose tutto sommato abbastanza ben definite.
Il primo luogo La Trattoria ha sempre una clientela locale affezionata che non è arrivata con gli anni ma continua ad essere fedele al luogo nonostante gli anni. Certo questo è più agevole quando il locale presenta anche la mescita al bar, ma in generale credo che si possa derivare questa condizione: se un luogo gastronomico è frequentatissimo ma non ha una clientela locale che passa anche per il meccanico con l’officina vicina e il cliente che ritorna anche se il titolare precedente con cui giocava carte ormai è scomparso da decenni, non è proprio una trattoria. Rischia di essere un’attrazione turistica.
Se però oltre a una affezionata clientela locale, non particolarmente scelta o facoltosa, non si trova anche una clientela che fa di quel luogo un posto di destinazione, manca un elemento dell’interclassismo. Quindi sono ugualmente necessari i Gourmet che si sciroppano centinaia di chilometri per assaggiare un tajarin 40 tuorli oppure la minestra dei mietitori o ancora la coppa di vitella fatta con la droga Manzi quanto lo sono gli avventori habitués. Nella trattoria che deve essere interclassista si parlano magari nella stessa frase il dialetto e l’italiano standard o addirittura un po’ di inglese francese o tedesco.
Per essere interclassista verso le categorie di avventori di cui ai punti 1 e 2, la trattoria non può avere un menù completamente schiacciato sulle specialità locali che soddisfano certamente che arriva da fuori, perché sarebbero una troppo limitata occasione di frequentazione proprio per la gente del posto. Quindi, accanto ai mostri sacri della cucina avita, la trattoria ospita ragionate sperimentazioni basate essenzialmente sulla curiosità di chi la conduce.
Collegato al punto precedente è l’aspetto di scambio che c’è tra la clientela della trattoria e chi conduce la trattoria. Infatti in trattoria si parla oltre a mangiare e spesso si parla tra oste e ospiti perché la piacevolezza del luogo dipende molto dall’interesse per chi la frequenta che dimostra chi la conduce. Corollario di questo, evidentemente, è la curiosità rispetto a quel produttore di cui parla il cliente o di quella ricetta che viene ricordata per compararla ad un piatto realizzato in trattoria. Dunque la trattoria non può essere in alcun modo autarchica né nostalgica, perché sono atteggiamenti antagonisti dell’interclassismo, ma, pur sapendo perfettamente da dove viene e in cosa consiste la sua identità, è aperta alle contaminazioni. Queste ultime non dipendono tanto da una masterclass frequentata dal cuoco o dall’ultimo hype sentito in città, bensì dall’influenza o meglio dall’Interscambio con i clienti. Una condizione che richiede all’oste un livello di estroversione e un’ambizione ad interagire con gli ospiti ben oltre ciò che si considera come moderno e rispettoso della privacy. La privacy sta alla gentrification come la cordialità curiosa dell’oste sta alla trattoria.
La trattoria contemporanea e interclassista anche nell’arredamento e nella mise en place. Sai perfettamente che non ti devi vestire apposta per andarci ma sai che troverai la pulizia di un luogo magari spartano ma curato nella sua semplicità e soprattutto che i piatti e i vini saranno serviti senza sciatteria: i bicchieri non saranno l’ultima serie di Riedel ma nemmeno dei Duralex in cui si fatica a vedere attraverso. Analogamente i piatti non saranno dei dischi volanti ma nemmeno delle creazioni sgargianti che però impediscono di apprezzare la naturalità dei colori delle portate. Magari alle pareti ci sarà ancora la perlinatura in legno degli anni Settanta e una vecchia stufa darà calore in inverno in maniera non omogenea come un moderno riscaldamento a pavimento, però tutto questo contribuirà all’atmosfera scevra dall’infurre qualsivoglia soggezione.
L’interclassismo della trattoria si vede anche nel menu, nella sua concezione che non è minimalista ma non è nemmeno prodiga di alternative, con l’unica eccezione di fuori-Menù perché la trattoria è interclassista anche nella misura in cui crea connessioni tra avventore e territorio. Se il fungaiolo di fiducia o il trifolao o il pescatore hanno avuto più fortuna del solito, non ci si pensa due volte ad inserire come fuori-menù, magari proprio per gli avventori più affezionati, quella prelibatezza che diversamente non è programmabile.
Interclassismo è anche non avere un aspetto esteriore particolarmente rutilante né un parcheggio particolarmente capiente. Le trattorie nascono sui luoghi di passaggio tradizionalmente, ma spesso sono sorte quando le auto non c’erano ancora. La loro natura sarebbe intaccata se rispetto ad un luogo carico di storia si trovassero in quella che oggi si potrebbe definire una comoda location, più adatta certo a un centro commerciale che a un luogo del buen vivir. Dunque, stessa, poca, comodità sia che si guidi una Porsche sia che si arrivi in panda perché l’interclassismo non guarda in faccia nessuno.
Mi sembra che a queste poche caratteristiche sommariamente delineate corrisponde a bene il Baccicin dü Carü che in genovese significa Battista quello piccolo, dal momento che, a Genova, Giovanni Battista è patrono della città e quindi iGiovanni Battista e relativi Giobatta abbondano da sempre. Un antenato diversamente alto valse quel soprannome che ancora individua la Trattoria, nata per i carri e per i carrettieri che collegavano il basso Piemonte e Liguria alla fine dell’Ottocento.
I piatti simbolo sono una manciata e valgono tutti il viaggio: la galantina di vitella è la sintesi del gusto genovese per le carni delicate, impreziosita dall’aroma distintivo della droga Manzi. Le acciughe marinate secondo la ricetta di Pì, moglie del compianto e insostituibile il professor Giovanni Rebora, sono una chicca che fa sentire il mare anche se ci si trova nel verde abbacinante dell’entroterra più ripido. Il minestrone è una poesia, la trippa accomodata che ve lo dico a fare e naturalmente non può mancare il brandacujùn che qui non è mantecato come ormai è molto comune trovare ma ancora con i pezzi di patata e di merluzzo ben individuabili oltre che decorato con uno squisito trito di oliva.
Se i piatti che prepara Rosella sono indimenticabili, il compagno ideale di tanta creatività sono i vini che Gianni, il fratello, seleziona e consiglia con grande cura, ammannendo le chicche che scova quando si muove per andare ad approvvigionarsi di verdure, carni, grandi conserve dai fornitori di Piemonte e Liguria. Si beve ragionato al bacicin e ce n’è per tutti i gusti, sia per chi preferisce i vini naturali sia per chi preferisce la solita tradizione convenzionale.
Ultima menzione per quello che è letteralmente l’ultimo boccone e vivaddio l’impressione che rimane a lungo con chi ha consumato il pasto qui. Un dolce classicissimo, composto di torta al cioccolato e pànera, regala una combinazione di tale qualità e delicatezza che raramente, anche il ristoranti gastronomici capita di trovare.
La panara è connubio felicissimo di panna e caffè che si unisce a una torta al cioccolato la cui ricetta tradizionale è stata ibridata con quella di una cliente che aveva una nonna di origine ungherese pasticcera dilettante ma molto capace: come volevasi dimostrare!
Baccicin dü Carü Via Fado 115, Genova
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