È il padrone di casa della 50 Best torinese, la prima edizione italiana della storia della lista più calda della gastronomia mondiale. Enrico Crippa è lo chef di Piazza Duomo ad Alba, unico ristorante piemontese in lista, l’anno scorso al 39° posto, l’unico a crescere tra gli italiani e tra i primi cinquanta ristoranti del mondo ininterrottamente dal 2013, quando esordì al 41° posto. Non solo, Crippa lavora anche nel ristorante della famiglia Ceretto, grande ambasciatrice delle Langhe, che si è battuta molto, soprattutto con Federico, per avere la kermesse in riva al Po. Chi meglio di lui per introdurci alla manifestazione che mette per una settimana l’Italia al centro della scena gastronomica mondiale?
Enrico, carico?
«Sono carico come Enrico Crippa e sono carico come italiano, ci tengo a dirlo. Sono convinto che sia io sia gli altri colleghi che sono in classifica tireremo fuori tutta la nostra italianità, staremo a vedere che cosa sapremo fare in un momento in cui la cucina italiana è molto messa bene. Oggi a pranzo ho Pia Leon, Virgilio Martínez, Bruno Verjus, Jorge Vallejo, stasera ho a cena Andreas Caminada, ed è un grande piacere e un grande onore cucinare per colleghi di questo livello. Poi sto facendo fare un sacco di visite del mio orto e ne sono orgoglioso. Insomma, tutto con la giusta pressione, la giusta adrenalina, quella che ti fa stare sul chi va là per non sbagliare».
Enrico Crippa
L’anno scorso ci fu un po’ di delusione? Quest’anno come andrà per l’Italia?
«Difficile dirlo. Normalmente, per vissuto, ogni volta che una nazione ha ospitato la cerimonia 50 Best, l’anno successivo i suoi ristoranti sono andati su. Giustamente, dal momento che ha potuto far vedere a un pubblico qualificato, che comprende anche i votanti della classifica, il proprio territorio e le proprie eccellenze. Per quest’anno vedremo, le incognite sono molte. Come mi spiegavano Eleonora Cozzella, la coordinatrice del panel di votanti italiani, e Massimo Bottura, non è che il primo vince con 50 e il secondo è a 30: è una questione di virgole, di mezzi punti, è facile che un anno puoi essere su e l’anno dopo puoi essere giù.»
Non trovi però che l’Italia sia un po’ sottovalutata nella classifica?
«Sottovalutati? Forse sì, siamo sottovalutati da anni, anche nel mondo del vino, stiamo uscendo un po’, però la Francia è sempre davanti a noi. Ma non dobbiamo piangerci addosso. La cosa importante è che noi ristoranti italiani storici della 50 Best ci siamo sempre: da dieci anni siamo sempre noi. L’importante non è l’exploit ma la continuità. E poi sai che ti dico?»
Un piatto di Piazza Duomo
No, dimmi…
«Io sono superfelice di essere nato in Italia e di lavorare qui perché c’è una possibilità di esprimersi da Nord a Sud in mille modi, c’è una diversità tra la mano di un cuoco napoletano e quella di un cuoco lombardo o di Bolzano che non trovi in altri Paesi. Forse solo in Sudamerica, dove passi dal mare alla montagna in un attimo e la biodiversità è maggiore.»
Ci sono differenze tra Michelin e 50 Best? Esiste una tipologia di ristorante adatta alla prima e un’altra considerata dalla seconda?
«Domanda difficile. Io da diversi anni sono sia nella 50 Best sia nella Michelin e posso dire che ci sono clienti che consultano entrambe le guide, ci sono quelli più affezionati alla guida rossa e altri più propensi a seguire le indicazioni della 50 Best. Se guardi la classifica, alla fine per la gran parte parliamo di ristoranti che hanno alti riconoscimenti in entrambe le guide, a parte quei Paesi in cui la Michelin non c’è.»
Però si pensa nell’ambiente che la 50 Best sia un po’ più punk…
«Punk? Mi piace questa parola… Diciamo che magari i ristoranti della 50 Best hanno qualcosa di più informale, però poi nella 50 Best ci sono anche locali super blasonati e costosi. Qualche anno fa, però, è vero che soprattutto in Francia venivano messi in classifica ristoranti bistronomici.»
La sala di Piazza Duomo[/caption]
Quanto contano secondo te le relazioni internazionali? I viaggi, le ospitate, i grandi congressi, le cene a quattro, sei, otto mani?
«Contano certamente: più tu ti sposti, più puoi interagire con i colleghi delle altre nazioni e prenderti anche i voti di altre regioni. Poi certo, ci sono anche quelli come me, che meno mi sposto e meglio sto, perché sto con la mia padella storta che so che devo metterla sul fuoco in una certa maniera, e so che qui trovo la materia prima che dico io. È vero che se vai da un’altra parte con altri ingredienti la tua inventiva può essere stimolata, ma io ho bisogno di conoscerlo bene un prodotto, di sentirlo, di toccarlo, di capire che cosa posso fare e non fare. Se te ne stai a casa, diventa un po’ più difficile.»
Quindi ti consideri un’eccezione nella 50 Best?
«Beh, l’eccezione numero uno è Asador Etxebarri, che sta là, Bittor Arguinzoniz si fa la sua brace e l’anno scorso era al numero 2. Ma probabilmente Etxebarri è stato il primo a fare una cosa che mai nessuno aveva fatto a quel livello lì, e molta gente si incuriosisce e va.»
Crippa nel suo mitico orto
E da te, perché vengono?
«Perché lavoro nelle Langhe, una terra che nella cucina può dire la sua anche storicamente, e poi è la terra del vino italiano come la Toscana. Magari tanta gente viene qui, gira per cantine, mi casca dentro, magari sono anche dei votanti.»
Però la Toscana nella 50 Best non ha ristoranti dal 2012…
«Ah allora il mio ragionamento non sta in piedi…» (ride)
Che cosa ti piacerebbe restasse della 50 Best a Torino?
«Vorrei che restasse nel cuore delle persone che sono passate per Piazza Duomo, per le Langhe, per il Piemonte, per l’Italia, qualcosa di indelebile. Che possano rendersi conto che siamo in un territorio fantastico, in una nazione bellissima, ricca di qualsiasi prodotto, di persone speciali, di vini fantastici. Vorrei che restassero i sorrisi e gli occhi che ho visto ieri, nel primo giorno di questa settimana speciale. A mangiare da me c’erano tutti i capi panel prenotati dalla 50 Best…» Tutti futuri voti, speriamo.
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