Contaminazioni

Parigi è sempre più italiana. Chi sono i cuochi che hanno cambiato la cucina della città

Dagli anni Duemila a oggi, la rivoluzione della bistronomia italiana a Parigi ha trasformato la scena culinaria della città, con giovani chef che hanno portato creatività, indipendenza e un nuovo modo di fare ristorazione

  • 02 Agosto, 2025

Erano i primi anni duemila quando Parigi impazziva per alcuni giovani chef italiani. Era l’epoca della Bistronomie, neologismo nato dalla fusione tra bistrot e gastronomie (intesa come fine dining) che definiva posti con una cucina di grande valore, ma senza riti (e costi) dell’alta ristorazione. Si aprivano, fuori dal centro, locali indipendenti con investimenti bassissimi: parecchi erano piccoli, alcuni scomodi, molti spartani, ma li percorreva un’atmosfera vibrante e coinvolgente. I limiti erano un detonatore di creatività: spesso non c’era possibilità di fare magazzino così il mercato e i prodotti di stagione – soprattutto quelli poveri – dettavano il ritmo di una cucina d’autore entusiasmante, moderna, ma anche facile e divertente che ottimizzava al massimo le risorse, anche umane. La carta era una rarità, vigeva un solo degustazione che cambiava spesso: prendere o lasciare, e la gente prendeva. Anche perché i menu giravano bassi, tra 35 e 50 euro. I piatti, poi, erano liberi, scanzonati, imprevedibili, ma anche parecchio precisi, con tanti rischi calcolati e qualcuno che lo era meno, ma in quella situazione non stonava mica. Assemblaggi arditi, nuove acidità, grande tecnica decontestualizzata rompevano le regole dell’alta cucina e salutavano i canoni classici d’oltralpe, mentre vini sorprendenti anticipavano quell’ondata del naturale che avrebbe contagiato un po’ tutti. C’era un groove palpabile, che certe volte usciva dritto dalla cucina dove si mescolavano i suoni del cibo a quelli di qualche stereo ben piazzato.

Rino

Bistronomia: nascita ed evoluzione di un movimento

Le liste d’attesa si allungavano, i nomi passavano di bocca in bocca e di cucina in cucina, fino al momento di giocare da solisti: Yves Camdeborde, Iñaki Aizpitarte, Bertrand Grébaut, Sven Chartier, Petter Nillson e poi Giovanni Passerini, Simone Tondo, Michele Farnesi, e insieme a loro ma più tangenziali anche Danny Imbroisi (con Ida, poi seguito da Epoca, Malro, Trattoria Quindici e Il Volo) e Gennaro Nasti (oggi con le pizzerie Popine, Bijou). Gli italiani erano un gruppo compatto, «c’era un elemento di collettività che oggi – racconta Passerini, pioniere della bistronomia in salsa nostrana con il suo Rino – si è un po’ diluito: l’origine italiana non è più un fattore di identificazione come lo era allora». Oggi sono sparpagliati, integrati in una folta presenza internazionale «quando siamo arrivati noi gli stranieri erano meno – sottolinea Simone Tondo – adesso c’è più fiducia nel knowledge estero, ma allora c’era un parterre di talenti, a livello europeo, da far venire la pelle d’oca: era il periodo dello Chateaubriand, di Petter Nilsson, Gagnaire era al pass, Ducasse era ancora proprietario, Pierangelini, Cracco e Bottura erano nell’età migliore: c’era una possibilità di scelta a un livello talmente alto che era contagioso». Tanto da porre le basi per far nascere qualcosa di nuovo.

Michele Farnesi. Dilia

La voglia di indipendenza e il ruolo della critica

«Il meccanismo di quegli anni – spiega Passerini – era semplice: sono giovane, ho qualcosa da dire, mi lancio e apro un ristorante mio». Le regole di ingaggio erano prodotto top, team ristretto, menu degustazione smilzo e dinamico per stare dentro una certa cifra. «Era una necessità oltre che un obiettivo – continua – quell’approccio ha permesso l’emancipazione di tanti cuochi che invece di passare 25 anni in uno stellato si sono detti: quasi quasi ci provo». D’altro canto la situazione era diversa: «all’epoca nostra non trovavi chi credeva in te, quindi tanto valeva buttarsi, magari anche troppo presto: ho aperto Rosval a 23 anni» fa Tondo «ma dopo qualche grande maison mi ero reso conto che avevo voglia di cucinare, non di vivere 15/20 anni in una brigata a seguire le idee e la gestione di qualcun altro». Così ha colto l’occasione di una convergenza felice per raccontare anche lui un’italianità fuori dagli stereotipi, moderna, disincantata, capace di contaminarsi. La gente li amava. La critica li amava: Omnivore e Le Fooding hanno avuto un ruolo fondamentale nella definizione di quel movimento alla stregua di quanto Gault e Millau ha fatto con la Nouvelle Cuisine, a rafforzare il ruolo fondamentale della critica per la presa di coscienza e autodeterminazione di movimenti di idee e artistici.

Qualcosa che la grande rivoluzione spagnola della cucina tecnoemozionale – chiamatela pure molecolare – lamenta di non aver fatto abbastanza. In quegli anni nella critica c’erano due voci fuori dal coro, che sostenevano una ristorazione ugualmente fuori dal coro, in cerca non solo di nuovi talenti ma anche di muovi codici. C’era un rapporto di stretta interdipendenza, al punto che sgonfiatasi l’una lo ha fatto anche le altre. «C’è un po’ di vuoto, ora, manca quell’energia che c’era 15 anni fa, quando era tutto autonomo e indipendente» fa Michele Farnesi. «Da una parte ora il giornalismo enogastronomico crea dei mostri, star usa e getta, dall’altra tanti aprono per la Michelin, sottomettendosi a certi paletti per adeguarsi a regole di altri, quindi senza spontaneità e identità». «C’è un po’ di involgarimento in tutti i campi – riprende Passerini – troppa autocelebrazione e poca spontaneità, e in questo c’entrano pure i social. E poi chi deve parlare di cibo ha perso un po’ di senso e di pubblico. Non c’è la penna di riferimento che sa interpretare il momento storico e inscatolarlo per svegliare le coscienze. Ma forse si mangia meglio di prima». Anche grazie a quel gruppo scapigliato. «Ci divertiamo e non ci prendevamo troppo sul serio». Poi quel momento magico è passato, «alla fine ha stancato: tonno bianco e ciliegie lo abbiamo fatto in 30, tartare di vitella con ostrica in 50, la matrice era troppo comune» racconta Passerini, anche se poi ognuno metteva qualche cosa di suo: chi un po’ di Italia, chi di Giappone.

Simone Tondo. Racines

L’epopea degli italiani a Parigi

Passerini ha bissato com il pastificio prima e la cave à vin Passerina poi, Michele Farnesi ha affiancato l’èpicerie Dilietta e Dilia Le Cave al ristorante Dilia (negli spazi del vecchio Roseval), Tondo oggi è felicemente alla guida di Racines, che chiamano bistrattoria. «Siamo cresciuti, ognuno a suo modo: chi deciso di aprire più posti, chi come me ha fatto scelte diverse: la mia esigenza non era avere più locali, ma più tempo, fare eventi, che è un modo di avvicinarmi all’arte, alla moda che mi porta alla tessitura, a quello che faceva mia nonna» dice. Non è più un nucleo compatto, insomma, ma un gruppo sparpagliato con caratteristiche diverse. «Dopo Rino ho deciso di non rinnegare la matrice italiana – spiega Passerini – ma parlerei più di progetto di ristorazione che di cucina: con mia moglie Justine volevamo che fosse un progetto più a l’ancienne, con una struttura e uno spirito italiano più che francese». Scrollarsi di dosso certe etichette non è stato facile. «Ora sento la responsabilità di servire un piatto di pasta, ma voglio avere la possibilità di fare un piatto fresco sulla scia di quanto fatto da Rino… e perché non dovrei fare la trippa o le polpette? All’inizio era forse un mischione un po’ confuso ma alla fine in questo caos si è creata una identità che non saprei definire».

Un piatto di Passerini. Foto: Mickael A. Bandassak

Oggi si dichiara più punk che mai – «mi sono liberato ancora di più – dice – poi ritrovo i vecchi file sul computer e riconosco idee e associazioni. Oggi il target di riferimento è più ampio, ma tendere la mano e uscire da una nicchia è stato un processo spontaneo, inconsapevole». Il motivo? È semplice: «come invecchio e cambio pelle io, cambia pelle anche la mia cucina». L’anagrafe ha il suo peso, ne è convinto anche Tondo: «il momento in cui dai il meglio di te come studio ed energia che lasci sul campo è tra i 20 e i 35/40 anni; Racines è arrivato nella parte migliore della mia vita, che ero già papà. A un certo punto devi tirare le somme di quel che hai dato e avuto, il mio sogno oggi è avere un ristorante da tutti i giorni, ho preso una stella in una osteria, ho fatto un 4 mani con Fulvio Pierangelini, ho avuto uno scambio sempre sincero con lui, Carlo e Massimo che mi hanno sempre guidato e consigliato come dei padri attenti… che posso chiedere di più?».

Un piatto di DIlia

Cosa è rimasto della bistronomia?

Secondo Farnesi di quella stagione è rimasto poco: «oggi una grande polarizzazione: da una parte ci sono i grandi gruppi e i ragazzi che aprono strutture importanti puntando alla stella, mentre la mia generazione se ne sbatteva, dall’altra si torna a una cucina diretta, ai sapori autentici, a posti quotidiani e meno cari. Un po’ è fisiologico: ci sono meno soldi in tasca e la gente cucina sempre meno a casa». E poi il panorama è cambiato; anche a Parigi c’è chi scommette su bar à vin con piccola cucina, come Stefano De Carli ex sous di Passerini che ha aperto Trouble «che si dichiara bar à vin, ma è un ristorantino che fa cose molto buone, un posto gioioso dove si sta molto bene» dice Farnesi. E chi sta nel mezzo? «Siamo sempre meno, sono uno dei vecchi e magari ne traggo anche beneficio, ma mi trovo a spiegare quel che 10 anni fa era la normalità, per esempio che non facciamo il servizio del cappotto, perché non è un ristorante da grande occasione, non lo è neanche il prezzo». Degustazioni da 65 a 98 euro (6, 8 o 9 corse, ma i menu lunghi oggi vanno meno) «mi sono imposto di non superare mai i 100 euro». Da Tondo il piatto che costa di più è a 25 euro, «faccio più cose in casa, trasformare ti consente di abbassare i costi» e poi nel tempo ha semplificato molto, ma anche lui non crede più nel modello bistronomie, del menu unico: «è un format che funziona con pochi passaggi e con una equipe ridotta a 4 elementi, e solo se sei sempre pieno». Ma non tutti hanno abbandonato quella formula: è il caso di Le Chateaubriand – uno dei templi della bistronomia – di Iñaki Aizpitarte dove c’è l’italiano Leonardo Righini.

Alessandra Del Favero e Oliver Piras. Il Carpaccio

I nuovi italiani

Il gruppo degli italiani si è ampliato, ma senza la connotazione di un tempo: a un certo punto sono arrivate le dépendance altolocate dei grandi nomi come Niko Romito al Bvlgari Hotel con Davide Capucchio o gli Alajmo al Caffè Stern con Alessandro Fornaro, o ancora i Cerea, che hanno affidato ad Alessandra Del Favero e Oliver Piras la cucina de Il Carpaccio del Royal Monceau. «Siamo in un Palace (secondo la classificazione francese, un hotel di assoluta eccellenza, crème de la crème dei 5 stelle), volenti o nolenti la nostra è una fascia di utenti meno bistronomica» raccontano i due. Nell’ottavo, dove sono loro, gira una clientela d’alto borgo, habitué dei luoghi più esclusivi del mondo: stranieri e parigini, «il gourmet che viaggia per provare ristoranti, difficilmente viene qui per mangiare italiano».

Clienti nelle cui coordinate ci sono Capri, la Costa Smeralda e tutte le destinazioni più elitarie della Penisola: «Quando vengono in un ristorante italiano, si aspettano italianità in tutto e per tutto». Così si muovono con cautela nel decostruire quell’immaginario, innervandolo di piccoli slanci di innovazione: «La carta è molto classica, il degustazione un po’ meno, ma avvertiamo sempre di qualche passaggio un po’ più complesso». Da poco hanno introdotto un menu da 8 corse con qualche proposta nuova, ma il loro è un lavoro da miniaturista, che sposta in modo quasi impercettibile la barra verso la creatività. «Bisogna mettere da parte l’ego» dicono senza timore (un po’ come Tondo che ricorda: «non cuciniamo solo per stessi»). Anche perché in un hotel come Royal Monceau ci sono regole e obiettivi di budget da rispettare, una clientela storica da conservare e affiancare alla nuova, e un certo stile da mantenere. Il protocollo è quello di Da Vittorio.

Martino Ruggieri

Nell’ottavo c’è anche Martino Ruggieri (conclusa la breve esperienza in Italia) che nella sua Maison impasta tecnica francese e un amore tutto italiano per la materia prima e il prodotto (ma anche un certo modello di ospitalità a tutto servizio dei clienti), e Giuliano Sperandio (ex sous chef di Christophe Pelé al Le Clarence) nel leggendario Le Taillevent, emblema del classicismo francese sin dal 1946. Sperandio è uno dei nomi più brillanti e amati della scena parigina, riferimento umano e professionale per tanti colleghi, insieme a Fabrizio Ferrara, che dopo il Caffè dei Cioppi ha creato con l’Osteria Ferrara un rifugio sicuro per chi cerca ricette italiane gustose e ben preparate.

Flavio Lucherini e Aurora Storari. Hémicycle. Foto: Alizée Cailliau

A Parigi ogni arrondissement è una città a parte, con utenti diversi: «ultimamente il 9 e il 18 esimo si stanno sviluppando molto» dice Farnesi. Lui, con la sua cucina transalpina (se vista dalla Francia), è nel 20esimo «che è bellino: multiculturale, misto», mentre Tondo è nel secondo, la zona finanziaria di Parigi dove arrivano 750 clienti a settimana (apertura 7/7, con due squadre che si danno il cambio: in futuro è convinto che si tornerà all’essenzialità e a lavorare un po’ di meno). Hèmicycle, della coppia Aurora Storari e Flavio Lucherini è nel settimo. Il loro è un contesto diverso da quello della bistronomia: non sono chef patron, non inseguono una contaminazione ruffa e disinvolta, ma abbracciano il paradigma di una ristorazione più vestita spingendosi in un terreno di gioco molto francese, in cui sfuma qualche suggestione nostrana, ma su codici d’oltralpe, così come Eugenio Anfuso e Cecilia Spurio coppia chef e patron di Amâlia (nell’undicesimo) fanno «una reinterpretazione audace e moderna della cucina tradizionale francese» con accenti italiani e spunti moderni.

Caffè Stern. Foto: Riccardo Andreatta

Tra gli ultimi arrivati nella ville Lumiere c’è Francesco Garzone, classe 1989 di Mottola (Taranto), subentrando alla guida di Caïus, nel 17esimo, un ristorante dichiaratamente bistronomico che da 25 anni proponeva specialità francesi e che oggi vive una svolta con Garzone, scuola Romito come il suos chef Francesco Maria Brunori, promessa di piatti “apparentemente semplici” ma chiari e diretti, che vanno a fondo sulla materia prima e non temono di dare un’impronta nostrana alla matrice francese (e viceversa); altro giro, altra coppia: quella composta da Francesca Feniello e Silvia Giorgione, autrici della proposta fresca e immediata di Tempilenti: cucina casalinga con qualche suggestione sarda e tanti vini, che ha da poco bissato con l’epicerie Intervallo, a conferma che l’interesse per il cibo italiano è sempre vivo, come è evidente dal successo di Big Mama, la catena francese di ristoranti italiani moderni e di tendenza. Del resto, dice Oliver Piras: «la scena gastronomica italiana, in questo momento è la migliore del mondo».

Les Italiens a Parigi

Passerini – 65 rue Traversière – +33 (0) 1 43 42 27 56 – passerini.paris

Dilia – 1 rue D’eupatoria – +33 (0) 9 53 56 24 14 – www.dilia.fr

Racines – 8 pass. des Panoramas – +33 (0) 1 40 13 06 41 – racinesparis.com

Trouble – 15 rue Hippolyte Lebas – +33 (0) 9 56 19 56 05 – @trouble.winebar

Le Châteaubriand – 129 av. Parmentier – +33 (0) 1 43 57 45 95 – lechateaubriand.net

Il Ristorante – Niko Romito – Bvlgari Hotel Paris – 30 av. George V – +33 (0) 1 81 72 10 80 – bulgarihotels.com

Il Carpaccio – Le Royal Monceau – 37 av. Hoche – +33 (0) 1 42 99 88 00 – leroyalmonceau.com

Caffè Stern – 47 pass. des Panoramas – +33 (0) 1 75 43 63 10 – alajmo.it

Le Taillevent – 15 rue Lamennais – +33 (0) 1 44 95 15 01 – letaillevent.com

Maison Ruggieri – 11 rue Treilhard – +33 (0) 1 45 61 09 46 – temporaneamente chiuso

Osteria Ferrara – 7 rue du Dahomey – +33 (0) 1 43 71 67 69 – osteriaferrara.com

Hémicycle – 5 rue de Bourgogne – +33 (0) 1 40 62 98 04 – hemicycle.paris

Amâlia – 32 rue de la Fontaine Au Roi – +33 (0) 09 75 79 05 77 – amaliarestaurant.com

Caïus – 6 rue d’Armaillé – + 33 (0) 1 42 27 19 20 – caius-restaurant.paris

Big Mama – bigmammagroup.com

In copertina: Giovani Passerini. Foto: Mickael A. Bandassak

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