L'altro lato della medaglia

Ecco come Gallipoli, Santorini e Palma di Maiorca sono state mangiate dal turismo (e perché l'Albania gli somiglia)

Paradisi del Mediterraneo trasformati dal turismo di massa, tra ecosistemi in crisi e città svuotate. Mentre l’Albania affronta il proprio boom turistico, i segnali dal resto del sud Europa raccontano cosa accade quando il successo diventa insostenibile

  • 02 Luglio, 2025

C’è un momento preciso in cui un luogo smette di essere vivo e inizia a diventare immagine. Accade quando il turismo non si limita più a visitare, ma consuma. È successo in molte città del Mediterraneo: Gallipoli, Santorini, Bonifacio, Palma di Maiorca, Dubrovnik… Un tempo considerate paradisi da scoprire, oggi soffocano sotto il peso della loro stessa fama. Mentre nuovi territori, come l’Albania, si affacciano al mercato globale del turismo e rischiano di seguirne le orme, vale la pena tornare indietro e chiedersi cosa non ha funzionato. Ogni città racconta una traiettoria simile: prima l’autenticità, poi l’assalto, infine il tentativo di resistere. Con un interrogativo che torna sempre uguale: siamo ancora in tempo per non fare gli stessi errori, altrove?

Gallipoli e l’altra faccia del mito salentino

C’è un momento dell’anno, in genere tra la fine di agosto e l’inizio di settembre, in cui Gallipoli torna a essere se stessa. Le spiagge si svuotano, i bar abbassano le serrande, le casse smettono di pompare reggaeton e i residenti – chi è rimasto di loro – escono di casa e si riprendono le piazze. Ma dura poco. Per il resto dell’estate, Gallipoli è la città che non dorme mai. Non per vocazione, ma per necessità turistica.

Fino agli anni Duemila, la città salentina era considerata un gioiello tranquillo della costa ionica: un borgo di pescatori incastonato tra le chiese barocche e un mare trasparente, amato da famiglie e viaggiatori alla ricerca di un turismo balneare discreto. Era l’epoca in cui il Salento, ancora lontano dai riflettori, attirava un turismo quasi “hippy”: tende tra gli ulivi, falò in spiaggia, viaggiatori in cerca di autenticità, cucina povera, feste patronali, concerti di pizzica sotto le stelle. Le masserie cominciavano allora a riconvertirsi in strutture ricettive: poche camere, accoglienza familiare, un’idea di turismo rurale e lento che teneva insieme paesaggio, cibo, cultura.
Poi è arrivato il boom. Con il “brand Salento”, spinto da Puglia Promozione, le hit estive girate in spiaggia, l’arrivo dei voli low-cost a Brindisi, Gallipoli è diventata in meno di dieci anni la nuova Ibiza del Sud: orde di giovani attratti da beach party, aperitivi infiniti e notti passate in spiaggia o in discoteca. Anche le masserie hanno cambiato pelle: da rifugi rustici per viaggiatori consapevoli a location per matrimoni da sogno, cene spettacolo, week-end all inclusive con piscina e dj set.

Nel 2012, secondo i dati dell’Osservatorio Regionale del Turismo, Gallipoli contava poco più di 300mila presenze turistiche l’anno. Nel 2019 erano già oltre 700mila. Nel 2023, le presenze hanno sfiorato il milione. Un numero impressionante per una città di 20mila abitanti, di cui solo 4.000 nel centro storico. Durante l’estate, la popolazione effettiva può superare le 50.000 persone al giorno, creando una pressione enorme su risorse idriche, raccolta rifiuti, rete fognaria e traffico. I dati di ARPA Puglia mostrano picchi di inquinamento acustico e marino nei mesi estivi, con superamenti nei valori di coliformi fecali in alcuni tratti di mare cittadino — spesso causati da scarichi abusivi o sovraccarico dei depuratori.

Ma l’impatto dell’overtourism non è solo ambientale: è sociale e strutturale. Il centro storico, un tempo abitato da pescatori, anziani e famiglie, oggi è colonizzato da B&B, affittacamere e case vacanze. Secondo uno studio del 2021 condotto da Nomisma per Confartigianato Lecce, oltre il 70% degli immobili nel perimetro della città vecchia è destinato ad affitti brevi. Il prezzo medio al metro quadro è aumentato del 62% in dieci anni. Gli affitti per i residenti, laddove ancora disponibili, sono diventati proibitivi, e molti sono stati costretti a trasferirsi nei comuni limitrofi.

Di fronte a questo scenario, sono nati comitati locali – come “Gallipoli Nostra” – che chiedono regole più stringenti su concessioni, emissioni sonore, orari dei locali e densità turistica. Alcune ordinanze comunali, come quella del 2022 che vietava la musica ad alto volume dopo le 2 di notte, sono state accolte con sollievo dai residenti, ma criticate dagli operatori turistici. Nel frattempo, la stagione turistica si è allungata: a maggio si vedono già i primi gruppi organizzati, e fino a ottobre i locali restano attivi. Ma a fronte di un’economia che cresce – secondo Federalberghi, il turismo rappresenta oltre il 60% del PIL cittadino – la città appare svuotata della sua dimensione originaria.

Santorini, l’isola dei sogni sotto assedio

Una volta era una meta per viaggiatori solitari, archeologi, studenti, coppie silenziose attratte dalla luce che bagna le case cicladiche, dal vino bianco prodotto sulle rocce vulcaniche, dai tramonti sul cratere sommerso della Caldera. Ma oggi Santorini è un po’ diversa. Ogni giorno, soprattutto in alta stagione, le strade del villaggio di Oia si riempiono di visitatori con il cellulare in mano, in fila per scattare la foto perfetta. Le scalinate bianche, un tempo luogo di raccoglimento e bellezza, sono diventate sfondo per flussi incessanti. L’isola, che conta circa 15mila abitanti, accoglie ogni anno oltre 2 milioni di turisti. Solo nel 2019, prima della pandemia, sono sbarcati oltre 800mila passeggeri da crociera, secondo i dati dell’Autorità portuale dell’Egeo Meridionale.

Le navi da crociera sono tra le principali responsabili della congestione quotidiana: scaricano in poche ore migliaia di passeggeri nel piccolo porto di Thira, dove vengono caricati su autobus e barche-navetta diretti verso i punti panoramici più noti. Secondo uno studio dell’università del Pireo, questo modello produce un impatto insostenibile sul sistema dei trasporti, sulla qualità dell’aria, sulle infrastrutture idriche e sulla vivibilità urbana. L’isola non ha risorse idriche proprie e deve dissalare o importare l’acqua. L’estensione dell’attività turistica ha moltiplicato il consumo energetico, l’inquinamento da traffico e i problemi di gestione dei rifiuti. I residenti denunciano anche un aumento degli affitti e una progressiva scomparsa dei servizi di prossimità, soppiantati da boutique e minimarket per crocieristi.

Non mancano le proteste. Nel 2017, il governo greco ha introdotto un tetto giornaliero agli sbarchi da crociera (8mila persone al giorno), ma secondo le associazioni locali come Save Santorini, la soglia resta troppo alta e le regole sono facilmente aggirabili. Si chiede una politica più coraggiosa: limitare le licenze per nuovi hotel, regolamentare gli affitti brevi, incentivare forme di turismo sostenibile come la rete dei sentieri e l’enoturismo. Alcuni sindaci dell’arcipelago delle Cicladi hanno proposto di introdurre una tassa di soggiorno differenziata in base alla stagione e al tipo di alloggio. Per ora, però, Santorini resta simbolo di un paradiso fotogenico che si sta lentamente consumando sotto il peso della propria immagine.

Palma di Maiorca in protesta

Per chi la abita, Palma è diventata invivibile. Per chi la visita, è un paradiso a basso costo. Questa è la contraddizione che anima da anni il dibattito sull’isola più famosa delle Baleari, dove il turismo ha superato i limiti di sostenibilità sociale e ambientale. Con una popolazione di circa 900.000 abitanti, Maiorca accoglie ogni anno oltre 14 milioni di turisti, in gran parte provenienti da Germania e Regno Unito. Il centro storico di Palma, un tempo abitato da famiglie locali, è stato svuotato. Secondo i dati dell’Àrea de Model de Ciutat del Comune, nel 2022 oltre il 65% degli appartamenti del centro risultava destinato ad affitti brevi turistici.
Le conseguenze sono note: rincari immobiliari, aumento del traffico, rifiuti, consumo idrico in un’isola già arida. L’associazione Ecologistas en Acción ha denunciato più volte la pressione eccessiva sul sistema idrico locale e l’inquinamento legato all’intensissimo traffico aereo. Ogni giorno, in estate, l’aeroporto di Palma gestisce più di 900 movimenti di aerei. La città si è trovata a dover scegliere tra rendita turistica e diritto all’abitare.

A partire dal 2017 si è alzata la voce della protesta: slogan come Mallorca no es vende o Tourist go home sono comparsi sui muri e durante le manifestazioni. Nel 2023, decine di migliaia di persone sono scese in piazza per chiedere un limite agli affitti brevi, una tassa turistica più incisiva, regole più severe sull’apertura di nuovi hotel e un piano di tutela per i residenti. Il governo delle Baleari ha risposto introducendo una moratoria sugli alloggi turistici in alcune zone, e il Comune ha iniziato a monitorare le piattaforme come Airbnb e Booking. Ma le dinamiche speculative sono difficili da invertire: molti residenti scelgono comunque di affittare per brevi periodi, attirandosi i profitti della stagione estiva. Nel frattempo, sono nate iniziative di turismo alternativo, legato all’entroterra, all’agricoltura, al cicloturismo. Piccole cooperative e agriturismi che provano a costruire un modello diverso, più radicato nel territorio e più rispettoso dei ritmi locali. Ma a Palma, come altrove, il tempo per cambiare modello sembra sempre più breve.

Il tempo per non ripetere gli stessi errori

Non esiste un momento preciso in cui un luogo smette di essere vissuto e inizia a essere consumato. Ma quando succede, spesso è troppo tardi. Le misure per contenere l’overtourism arrivano quasi sempre dopo: quando i residenti se ne sono già andati, i prezzi sono saliti alle stelle, gli equilibri ambientali si sono spezzati. Guardare a questi casi non significa solo osservare delle crisi, ma anche leggere le conseguenze di decisioni politiche, economiche e culturali. Il turismo non è neutro: porta lavoro, ma anche precarietà; porta visibilità, ma può cancellare le identità locali; porta crescita, ma se male indirizzata, diventa consumo. Oggi è l’Albania a trovarsi davanti a quella stessa soglia. Ma con lei ci sono anche il Montenegro, la costa egea della Turchia, Djerba: territori ancora in equilibrio, ma sempre più esposti a un modello che conosciamo bene. La differenza, forse, è che sono ancora in tempo per scegliere un’altra direzione.

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