Cambiamento climatico

Ci siamo mangiati il mare: ecco come sta cambiando il Mar Mediterraneo tra specie aliene e acque troppo calde

Il Mediterraneo vive una profonda crisi, tra specie aliene, acque troppo calde e eccessivo sfruttamento della pesca

  • 02 Agosto, 2025

Immaginate una nave che, rientrando da un viaggio, trasporti un essere capace di distruggere ogni forma vivente. Se la storia vi è familiare o siete appassionati di fantascienza (e allora l’essere, l’alien, è quello approdato sul Nostromo minacciando Sigourney Weaver), o avete in mente le malefatte del Callinectes sapidus, il granchio blu. La grande minaccia dei nostri mari è arrivata nel Mediterraneo circa mezzo secolo fa, probabilmente nelle acque di zavorra, e da allora è rimasta al suo posto. Ma quando la temperatura del mare è aumentata, le altre specie antagoniste – già sfruttate dall’uomo – sono andate in stress mentre il granchio ha proliferato con agio. Onnivoro, vorace, fecondo (una femmina può deporre fino a 2 milioni di uova l’anno) e adattabile (si trova tra i 3 e i 35°C e in ogni condizione di salinità) si è diffuso nelle nostre coste devastando e depredando, mettendo in ginocchio la biodiversità e l’economia. Non è l’unico pericolo del nostro mare sofferente per caldo, pesca intensiva e migrazione lessepsiana, cresciuta dopo l’ampliamento del Canale di Suez nel 2014, che ha favorito il passaggio dal Mar Rosso di pesce serra, scorpione, coniglio e altre specie che prosperano nelle acque tropicalizzate.

Scopri il riso della luna di Angel Leon

Ángel León

La nuova vita del Mare Nostrum

Il Mediterraneo è uno specchio di acqua chiuso, più esposto all’aumento della temperatura: nel luglio 2024 la media mensile ha superato di 1,76° C quella del periodo 1991-2020. Lo dice Copernicus, il programma di osservazione della Terra dell’Unione europea, che il 22 giugno 2025 ha registrato un’ondata di calore marino con temperature superiori di oltre 5° in superficie, ma l’impatto è anche in profondità dove aumentano calore e acidità e si riduce l’ossigeno. «Il cambiamento climatico non è più una minaccia futura: è una realtà presente che sta trasformando il mare e, di conseguenza, la nostra cucina a base di pesce» afferma Ángel León (Aponiente, Cadice), uno dei cuochi più attenti nei confronti dell’ambiente marino. «Le temperature dell’acqua stanno cambiando, le correnti stanno cambiando e, con esse, specie marine un tempo comuni scompaiono o migrano verso altre zone. Pesci come orata o branzino sono rari, mentre specie tropicali cominciano ad apparire sulle nostre coste: questo ci ha costretti a smettere di guardare al mare con nostalgia e a iniziare a interpretarlo con una prospettiva scientifica e moderna». León lavora da anni con pesci di fango o di estuario e specie meno apprezzate. «Perché se il mare cambia, anche la cucina deve cambiare. Non possiamo continuare a cucinare come se nulla fosse» aggiunge. Non si tratta solo di adattare il ricettario: «Dobbiamo cambiare il modello del nostro rapporto con il mare. Per questo stiamo lavorando con l’acquacoltura naturale negli estuari, recuperando le saline e promuovendo la biodiversità delle paludi». Secondo il WWF il cambiamento climatico nel Mediterraneo mette a rischio posidonia, gorgonie e pinna nobilis, provoca tropicalizzazione del mare, boom di meduse e migrazione dei pesci, con l’arrivo di 1000 nuove specie invasive di cui 126 ittiche. La biodiversità del complesso ecosistema del Mediterraneo è in pericolo e le iniziative messe in atto finora non bastano.

Loligo vulgaris

Le popolazioni marine in crisi

La cozza nera di Taranto rischia di scomparire per la temperatura delle acque del Mar Piccolo ed è allarme anche per il mosciolo: quello selvatico di Portonovo (Presidio sospeso da Slow Food che ha chiesto al Masaf il fermo pesca per il 2025 e il ristoro economico per i pescatori) e quello di allevamento, in sofferenza per caldo e mucillagine: non è bastato ridurre il periodo della raccolta per tutelarne la popolazione. Il clima influisce sulla stagionalità, come per il calamaro cacciarolo (Loligo vulgaris), «una prelibatezza assoluta» dice Gennaro D’Ignazio di Vecchia Marina, a Roseto degli Abruzzi. «Da noi si pescava sotto costa subito dopo il fermo pesca, quando lo trovavi ancora piccolo. Adesso a metà settembre è già di 20 centimetri perché si riproduce molto prima». Tra Abruzzo e Marche non si trovano più pesce sciabola e argentina, «una specie di merluzzetto che fritto era la fine del mondo. Prima te lo tiravano dietro, tanto ce n’era», racconta D’Ignazio, che nota come abbondino le mazzancolle, un tempo rare. Nella zona delle Marche sono arrivate quelle oceaniche, aggiunge Moreno Cedroni (Madonnina del Pescatore, Senigallia e Clandestino, Portonovo), più rosate e più dolci, «la qualità è buona – racconta – e non sono predatori: si può dire che arricchiscano i nostri mari». Diverso il caso dello Scrigno di Venere (Anadara inaequivalvis) indonesiano, un bivalve invasivo antagonista della vongola, che resiste alle basse concentrazioni di ossigeno delle acque estive, o della Rapana Venosa, una lumaca robusta e vorace, «che – dice D’Ignazio – non rientrando quasi mai nella pesca casuale, prolifera facendo strage di vongole e altre conchiglie». Si tratta di specie commestibili, all’estero già commercializzate «sono un danno e un’opportunità, come il granchio blu» commenta Cedroni, che ne faceva un brodetto al forno.

Gianfranco Pascucci

Impoverimento dei mari

Alcune specie si spostano in acque più fresche, altre rischiano di estinguersi «la temperatura influisce sulla fertilità, le alghe tolgono ossigeno indebolendo i pesci» dice Gianfranco Pascucci (Pascucci al Porticciolo, Fiumicino), «i pesci di profondità e i pesci da spina sono sempre meno: ieri all’asta c’erano solo San Pietro e merluzzo, neanche un’orata» racconta. Il Tirreno centrale – «importante zona di riproduzione con acqua salmastra e temperature alte, e con un cuore che batte: l’area naturale marina protetta delle Secche di Tor Paterno» – è oggi un mare capriccioso: «in un periodo si pesca tantissimo una specie, poi improvvisamente si smette, nessuno sa dire perché; due anni fa c’erano un sacco di orate, oggi nessuna; lo scorso anno c’erano pochissime palamite e seppie, però sono tornate le telline». Anche qui ci sono granchio blu e pesce serra, predatori voraci «a Focene ho visto banchi di alacce giganti attaccati dai pesci serra». Si avvistano anche delfini sottocosta, «qualche tempo fa si è spiaggiata una manta». A Fiumicino c’è un sistema di piccola pesca, i pescherecci sono sempre meno, «ci sono fondi europei per chi restituisce la licenza per la pesca a strascico», vietata in Europa dal 2030. Il futuro è nella pesca selettiva, ma quella italiana è una filiera indebolita da ragioni ambientali, biologiche, geopolitiche, e l’arrivo di flotte da zone fino a ora marginali, come il Nord Africa, insidia il primato italiano nella pesca d’altura.

Pesce serra

I limiti del fermo biologico

«Il cambiamento climatico sta ridisegnando la struttura delle popolazioni ittiche nel Canale di Sicilia e nel Mediterraneo centrale; alcune specie ittiche sono sostituite da altre termofile, come l’alaccia spesso venduta come sardina, che preferisce acque più fresche. Il mare non è più quello di vent’anni fa» spiega Fabio Fiorentino, del CNR IRBIM, che sottolinea come bisogna ripensare il fermo biologico considerando l’impatto delle nuove condizioni ambientali e biologiche sul ciclo riproduttivo. Mattia Pecis (Cracco a Portofino) lo dice spesso: «Il fermo pesca di un mese non serve a nulla: bisognerebbe farlo di un anno o due, allora sì che qualcosa cambia davvero». «Vietare la pesca di tonno o pesce spada funziona – aggiunge Lorenzo Ardizzone (Da Noi, Letojanni) – ma è un’arma a doppio taglio: mette in crisi i piccoli pescatori. Un tempo nel fermo campavano di alici o sarde, che è la mangianza dei pesci grandi, ma oggi è troppo poca». Le costardelle, per esempio, che negli anni ’80 abbondavano non si trovano più, pochi anche ricci e seppie, e i crostacei «arrivati a prezzi esorbitanti». Senza considerare, aggiungono Chiara Pavan e Francesco Brutto (Venissa, Venezia) che a poco serve il fermo se spostandosi di pochi chilometri non ci sono le stesse regole. Ma c’è anche chi, come Jacopo Ticchi (Da Lucio, Rimini) nel periodo del fermo pesca cambia menu orientandosi sulla cucina di terra, una scelta non facile in piena estate.

La fuga in profondità in cerca di fresco

L’esperienza del Covid ha dimostrato che la natura non sfruttata riprende vigore. «La colpa è sempre dell’uomo» dice Mattia Pecis. A Portofino l’acqua è più calda e il pesce sempre meno: quest’anno il gambero viola di Santa Margherita è rarissimo: «ormai si pesca sempre più a fondo – fa Pecis – se prima l’acqua fredda era a 300 metri, ora è a 700, non è detto che chi pesca possa arrivare così giù», alla stregua di quanto accade in Cilento con  le alici di menaica.  Non ci sono però specie aliene, «sarà per le correnti, le temperature o per la conformazione scogliosa e subito profonda: dopo 30 metri sei già a 8/900 metri. Qui – continua – trovi pesci di fondale stupendi che vivono al buio degli abissi e hanno carni grasse: pesce castagna, rana pescatrice, muppa. Ieri avevamo un un branzino di 5 chili, stamattina uno spada e un morone». Lavora con frollature di una o due settimane, secondo i casi, e conta su un rapporto di fiducia con una clientela curiosa e disponibile, un elemento fondamentale, spiegano Chiara Pavan e Francesco Brutto  che dopo il Covid hanno deciso di lavorare solo con pesci fuori mercato, prodotti del proprio orto e specie invasive, aliene o autoctone.

Granchio blu

Chi va da loro sa che anche le moeche sono di granchio blu. Ogni settimana usano fino a 150 kg di granchio blu e 60/70 kg di pesce serra, che qui c’è già da un po’ di anni – la laguna di Venezia è un hotspot dei cambiamenti climatici – ma a marzo per la prima volta è entrato in modo massivo attraverso le bocche di porto per risalire poi verso l’acqua dolce: «probabilmente c’è stata una selezione per adattarsi meglio alla salinità cresciuta in laguna per la siccità». Con i suoi denti aguzzi rompe reti e nasse, riesce a scappare continuando a divorare altre specie, le stesse che arrivano sulle nostre tavole con sempre più difficoltà, aggredite come sono su più fronti. Il serra, senza un predatore, fa saltare gli equilibri che assicurano la biodiversità. Un predatore però ci sarebbe: l’uomo.

Chiara Pavan Francesco Brutto

Le alghe aliene

I metodi di pesca invasivi e non selettivi distruggono l’ecosistema: devastano praterie di posidonie e spezzano la rete trofica con la cattura accessoria di alcune specie, «come le tartarughe, antagoniste delle meduse – dicono da Venissa – Lo scorso anno a Trieste c’era una distesa di Pelagia Noctiluca». Anche le alghe rappresentano un problema «molte crescono spontaneamente nelle zone eutrofizzate, dove un’alta concentrazione di azoto e altri nutrienti modifica le foci dei fiumi». Qui proliferano alghe aliene, che tolgono spazio alle autoctone e creano danni all’ecosistema. Anche l’arrivo in Laguna, una decina di anni fa, della Noce di mare (Mnemiopsis leidyi) rappresenta una minaccia alla biodiversità poiché si nutre di plancton e larve. L’azoto, spiega Gennaro d’Ignazio, sembrerebbe la causa della mucillagine: «Crea problemi alla pesca nell’Adriatico, dove le reti si riempiono di mucillagine e meduse». Un danno per una zona colpita dalla carenza di pesce: «al mercato di Ancona c’è un 30-35% di pescato in meno» dice Cedroni. «Si pensava che il mare fosse una risorsa infinita, ora ci accorgiamo che non è così, ma potrebbe essere troppo tardi» dice Lorenzo Ardizzone.

Il granchio blu ha invaso anche la costa pugliese, arrivando anche nei laghi salati, storicamente sede di allevamenti di vongole e cozze, colpiti dal gran caldo, dalle alghe e dagli attacchi del crostaceo. Negli ultimi anni gli qualcosa è cambiato: «ora è zona di ostriche, che hanno una corazza più forte che il granchio non riesce a rompere», racconta Domenico Cilenti (Porta da basso, Peschici). Negli allevamenti si simula il ritmo delle maree in modo meccanico e l’area si è reinventata, ma la crisi riguarda tutto il pescato. «Il trabuccolante più anziano, che ha 92 anni, racconta che una volta si sostenevano famiglie intere con la pesca da trabucco, oggi invece non è più così», e non è solo colpa dl caldo «Sul Gargano ci sono sempre stati 35 gradi, almeno un mese l’anno, ma è cambiato tutto il resto: c’è più turismo, più rumori, più imbarcazioni che passano». Anche qui una ventina di anni fa c’è stato il pesce serra «avevamo imparato a sfilettarlo e prepararlo, perché chi vive sul mare fa così». L’approccio di Cilenti è ancora lo stesso: cambia il menu in base il pescato: «c’è il periodo dei pesci grandi, quello di pesci più piccoli, quello di seppie, di murici e così via. Noi cambiano menu degustazione man mano». Adeguandosi. «La cucina di mare non può essere una cartolina del passato – dice Ángel León – Deve essere uno strumento per proteggere il futuro. E questo significa aprire la mente, il palato e il cuore. Cucinare da ciò che il mare è oggi, non da ciò che il mare era oggi».

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