Il dibattito

"Viva i camerieri che non sono secondi a nessuno, tanto meno agli chef". La replica al produttore di Masterchef

Michele Armano, docente all'Università degli Studi Suor Orsola Benincasa Napoli, risponde a Fabrizio Ievolella, manager a capo della società che produce il programma tv

  • 04 Agosto, 2025

Dire che il cameriere sia soltanto un “veicolo” e non un co-protagonista e un creatore di pensiero è una visione limitante e ormai superata, da brividi per chiunque conosca davvero il mondo della ristorazione. L’esperienza al ristorante non si esaurisce nel piatto: è fatta di emozioni, accoglienza, relazione e memoria. Elementi che, inevitabilmente, passano attraverso chi lavora in sala. Un piatto può essere straordinario, ma se il cliente si sente ignorato, giudicato o semplicemente poco coinvolto, quell’esperienza perderà valore. Al contrario, anche una cucina meno spettacolare può lasciare un ricordo indelebile se accompagnata da un servizio empatico, capace di creare un legame personale e di trasmettere passione.

Empatia e connessione umana

Il cameriere è spesso il primo e l’ultimo contatto diretto con il cliente. La sua capacità di creare un legame, anche se breve, può lasciare un’impressione duratura. Un sorriso autentico, un consiglio azzeccato, una battuta spiritosa al momento giusto: sono tutti elementi che contribuiscono a un’esperienza positiva e rendono il cliente desideroso di tornare. Non è forse questo un modo di “creare valore”?

Senza sala, la cucina non basta

La verità è l’opposto: senza la sala la cucina non basta, in cucina la regia ma lo spettacolo si fa in sala. Il cameriere non si limita a “servire”, il piatto può essere un capolavoro, ma se chi lo serve non sa trasmetterne il senso, l’esperienza si svuota. È proprio il cameriere a dare un volto umano alla ristorazione: è lui che crea la relazione, che legge le emozioni, che trasforma un pasto in ricordo. Interpreta, racconta, legge i bisogni del cliente, anticipa desideri non detti, traduce la complessità della cucina in emozione e, senza questa interazione umana, la ristorazione non sarebbe un’esperienza ma un semplice consumo.

L’impatto oltre il piatto

Affermare che il cameriere non sia “aspirazionale” perché non è il “creatore del pensiero” è una visione limitata e, oserei dire, dannosa per l’intero settore della ristorazione, significa ad esempio non aver mai visto un cliente commuoversi per la cura ricevuta in sala. Significa non aver mai percepito l’impatto emotivo di un gesto fatto al momento giusto, di una parola che mette a proprio agio, di un servizio che anticipa un bisogno senza che venga espresso. Il problema non è che non esistano storie da raccontare sulla sala, è che nessuno le racconta. Nessuno le valorizza. E finché continueremo a mettere su un piedistallo solo lo chef, avremo ristoranti monchi, incapaci di offrire quell’esperienza olistica che il pubblico cerca.

Non è tempo di format che diano voce a chi lavora in sala? Non è tempo di smettere di considerare il cameriere un “esecutore” e iniziare a riconoscerlo come parte viva della creazione gastronomica? Invece è giunto questo tempo perché senza di loro, anche il piatto più straordinario resta muto. La vera aspirazione di un cameriere non è quella di essere una “rockstar” come uno chef televisivo, ma di essere un maestro dell’ospitalità che grazie alle sue capacità incide sulle sfere emotive del cliente.

Basta con il mito dello chef superstar

Tradire una visione parziale, superficiale e ingiusta, ignorare questo aspetto non solo sminuisce un’intera professione, ma perpetua l’idea che il valore di un ristorante sia legato esclusivamente alla cucina rischiando di fare danni enormi perpetuando l’idea tossica – già diffusa – che chi lavora in sala sia di serie B. Forse il problema non è che il cameriere non sia aspirazionale, ma che non sia stato ancora adeguatamente rappresentato in contesti mediatici che ne mostrino la complessità e il valore emotivo. Un format televisivo sul mondo della sala, che metta in luce l’abilità, la dedizione e l’intelligenza emotiva richieste, potrebbe non solo aumentare il rispetto per questa professione, ma anche attrarre nuove generazioni di talenti, dimostrando che anche in sala si “crea” e si “incanta”.

L’affermazione di Fabrizio Ievolella che il cameriere non sia “aspirazionale” perché “veicola il messaggio di un altro” è un’interpretazione superficiale. Essere un cameriere di successo significa padroneggiare un’arte complessa che combina competenze specifiche con quelle relazionali ed emotive. Si veicolano le proprie conoscenze senza le quali anche quelle altrui perderebbero di significato.

Infine, lasciatemelo dire, ma ancora a chiamarlo ‘cameriere’? Un lavoratore di sala che deve conoscere le tecniche di servizio più sofisticate, l’utilizzo di attrezzature, la conoscenza delle lingue, un po’ di marketing, un po’ di psicologia, le materie prime, le preparazioni, saperle raccontare, le posture (verbali e paraverbali), i tempi di permanenza al tavolo, avere tanta pazienza e ancora tanto altro, e noi… ancora stiamo a chiamarlo cameriere?
Perché essere Professionista di Sala sì, è “Aspirazionale”!

Michele Armano, docente nel Master per la Comunicazione Multimediale dell’Enogastronomia Università degli Studi Suor Orsola Benincasa Napoli, in Accademie di Alta Formazione, Formatore Aziendale.

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