Ammazzacaffè, pusa café o resentin. Sono molte le declinazioni dialettali di quello che conosciamo ormai come “digestivo”. Un vezzo intramontabile della cultura enogastronomica italiana — quanto meno fino alla tendenza No-alcol — nato tra gli aristocratici e diventato presto nazional-popolare. Per le vecchie generazioni è considerato ancora un autentico toccasana dopo grandi abbuffate. Ma se vi dicessi che non siamo i soli ad avere usanze di questo tipo e che altrove le stesse scandiscono il pasto per fare spazio ad altre portate? È proprio così. In Francia esiste da secoli la tradizione del Trou Normand, il buco normanno, un “sorso” a base di distillato che in origine si credeva avesse proprietà miracolose: restituire l’appetito ai più sazi.
Come lascia intendere il nome, le terre natie sono quelle d’Oltralpe. L’antica tradizione si sarebbe diffusa nel contesto rurale della Normandia, regione nord-occidentale della Francia, passata alla storia con lo sbarco degli alleati nella seconda guerra mondiale. La pratica gioca sull’equivoco storico secondo cui l’alcol di elevata gradazione velocizzerebbe la digestione o, addirittura, brucerebbe i grassi attraverso la dilatazione delle pareti dello stomaco. Non è dunque un caso che la sua nascita sia associata al Medioevo, periodo in cui l’acquavite veniva consumata con la convinzione che avesse qualità digestive, se non di rimedio contro ogni male.
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La leggenda narra che a inventarla siano stati dei trovatori per intrattenere e divertire i cortigiani. Le origini del Trou Normand ad ogni modo rimangono tuttora controverse. Alcune fonti raccontano di contadini normanni che si “riscaldavano” durante le notti più fredde con una bevanda fortemente alcolica conservata nelle botti di sidro rimaste vuote. E da qui si sarebbe evoluta. Secondo altre invece sarebbero da ricondurre al diarista Gilles de Gouberville, che nel Cinquecento inizia a distillare il sidro nel proprio castello a Mesnil-au-Val. Al di là di come sia andata veramente, nel tempo la consuetudine si è preservata. E in suo onore c’è chi ha aderito sin dal 1966 a una vera e propria confraternita che ne custodisce la memoria seguendo il motto «Bevi poco, ma bene».
Il Trou Normand nella società moderna identifica uno shot di Calvados che funge da intermezzo alcolico fra il pesce e la carne nel corso di banchetti, matrimoni o ricorrenze festive, occasioni di condivisione, ma anche di rinfreschi abbondanti e interminabili. La tradizione vuole che in corrispondenza di questi rendez-vous gli invitati si alzino in piedi arrivato il momento del trou, per sollevare in alto i bicchieri e buttare giù il distillato, in un colpo solo. Un rito a metà pasto, ormai in disuso, visto che oggi si beve meno e si è coscienti che l’alcol non comporti alcun buco capace di risolvere il senso di sazietà. Anzi, rischia pure di aggravare il fisico. In occasioni meno cerimoniali, sempre però di convivialità, il trou normand rappresenta una coccola enogastronomica che ogni famiglia vive in modo estremamente personale, più elaborata del semplice cicchetto e non per forza a metà pasto.
Quanto ci racconta Léa Filippone, concierge dell’hotel milanese Casa Brera: «Da mia nonna in Bretagna non può mancare. È quasi una religione. L’attimo prima (o dopo) il secondo piatto in cui ci rendiamo conto di aver mangiato tanto. Dimensione collettiva e familiare cui partecipano tutti; i più grandi con la scusa di assaporare il Calvados, i più piccoli perché non resistono al sorbetto». A casa Filippone si gusta il Trou Normand più contemporaneo, una versione composta da acquavite di sidro e sorbetto alle mele. Un assaggio sia dolce che fresco, di contrapposizione fra temperature diverse. Ciò che servirebbe nelle serate estive più calde.
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