Una vicenda incredibile iniziata in una Milano remota di oltre cinquantacinque anni fa. Un processo di osmosi (sì, di osmosi!) che ha trasferito competenze, talento e genialità da un grande cuoco che ha fatto la storia della ristorazione italiana a due giovani oggi splendidi quarantenni. Il passato, il presente e il futuro di un ristorante mitico: il Luogo di Aimo e Nadia.
Aimo: «La prima volta che ci siamo incontrati io avevo 12 anni, lei 4. Fu in un campo in mezzo a coltri, erpici e due buoi bianchi altissimi. Le nostre case distavano dieci minuti a piedi una dall’altra, senza elettricità tutt’e due. Ci rincontrammo anni dopo nella casa di lei, mio padre ci andava spesso e io lo accompagnai. Stavolta aveva 15 anni. Abbiamo giocato a carte e lei ha vinto. Io, invece, ho perso pure la testa: era bellissima. Una bambina vivace e dispettosa. Lo è anche adesso. Lei sarà con me tutta la vita, mi sono detto».
Nadia: «Era un gran bel ragazzo quando l’ho conosciuto. Stiamo insieme da più di 60 anni. Chi mi ha dato la pazienza di sopportarlo? Sarò figlia di San Giobbe, il mio nome si riferisce alla pazienza (ride, ndr). La stima! Quello è il segreto. E se c’è contrasto ci si ferma un attimo, alcuni a dire il vero non li ho mai risolti. Ma è certo che io ho sempre lavorato con la sua testa e le mie mani. Come tutti i geni, si sa, non stanno dietro a nessuno».
Si guardano complici, si vezzeggiano come adolescenti al primo morso e si perfezionano i ricordi a vicenda. Il Luogo dei luoghi, lo spazio templare in via Montecuccoli per Aimo Moroni è rimasto il “negozio”. In sessant’anni non è cambiata una virgola nel lessico familiare. Il ghigno granghignolesco del cuoco fresco degli 84 anni appena compiuti è solcato dalla memoria di un principio di stenti e di fame che ritorna ossessivamente.
«Sono arrivato a Milano nel ’46, avevo 12 anni. Mio padre mi mandò qui a guadagnarmi il pane. Non i soldi, attenzione, il pane. Ci arrivai col mio amico Gialindo viaggiando su un vagone per il bestiame. Facevo il lavapiatti o il garzone, a seconda. Passavo davanti alle vetrine ingoiando a vuoto come Charlot. Le mani piagate dal freddo le curavamo col grasso di rognone, un emolliente medicamentoso. Mio padre e mia madre, cuoca di famiglia di grandi casati italiani e francesi, mi avevano insegnato a riconoscere la qualità di una gallina dalle trame delle zampe e dallo stato delle unghie. Il mio primo maestro, un cuoco che si chiamava Cesare, mi insegnò a distinguere un taglio di cosce con carré buono da uno cattivo, mandandomi in avanscoperta di soppiatto. Mentre lui contrattava con i macellai io dovevo sfiorare i tagli con le dita, se l’impressione era di un velluto unto d’olio dovevo dargli un cenno che sì, andava bene. Se invece sentivo la carne ruvida, niet».
È cominciata così. Il ragazzino sbalzato da una pagina di letteratura neorealista, senza scuola e senza un soldo, illuminato da una volontà di ferro e da un palato leggendario, diventa cuoco. Un cuoco dalla curiosità leonardesca. Quel ricordo ossessivamente attivo scava da qualche parte nel profondo, cambia di segno e diventa leva di un riscatto che agisce assai oltre i confini della sfera personale. Fagioli risina di Spello (Perugia) e fagioli rossi dei Ghiareti di Sorana (Pistoia), gallina bianca di Saluzzo e bue di Carrù (Cuneo), origano di Pantelleria (Trapani), farro della Garfagnana (Lucca), peperone di Carmagnola (Torino), col fiuto di un cercatore d’oro cerca e trova un pulviscolo di materie prime sconosciute e a ciascuna restituisce dignità regale, manipolando poco, quasi niente.
È quello che fa De André con ladri e puttane. Pasolini coi ragazzi di vita, Riccetto e gli altri, raccontati nudi e crudi. La prosa di Aimo e Nadia, per la natura stessa dei fatti di cucina, riesce più gioiosa. Ma il risultato in via privata Raimondo Montecuccoli, quartiere Bande Nere, è lo stesso. A partire dal 1962, anno di nascita del bar-trattoria: «Non c’era niente, figurarsi… è periferia ancora adesso. Nessuno aveva una buona ragione per arrivare fino a qui. Eppure la gente arrivava, numerosa e sempre più frequentemente».
A turno gettano i ricordi sul tavolo come tarocchi, flash back che riaffiorano nitidi, disordinatamente, scandendo le tappe di un grand tour iscritto in ogni ricetta. Lo Spaghettone al cipollotto, la Zuppa etrusca, Pane e pomodoro. Cucivano entro lo stesso piatto le materie attinte dal paniere peninsulare, riducendo i confini nazionali (isole incluse) a quelli di un quartiere dove fare la spesa tutti i giorni. L’effetto collaterale era la tessitura di relazioni di fibra super resistente con i produttori, ad oggi 82. Risorgimento e Resistenza insieme. Unità e Democrazia compiute. L’umanità porosa e partecipe di Aimo e Nadia arriva dritta a segno, e la periferia diventa miracolosamente centro. Gino Veronelli, manco a dirlo, se ne accorge fra i primi. E riconosce il gesto a occhi chiusi: è quello che ha fatto lui con i vignaioli, pari pari. Il resto è storia nota.
Aimo: «Il più grande torto che potrebbero farmi Fabio e Alessandro? Cancellare quei piatti dalla carta. Se cancelliamo cicoria e fave, la pasta con le sarde, cancelliamo Sciascia, Pirandello e Manzoni in un colpo solo».
Nadia: «Tranquillo, Aimo, amore. Non ci pensano nemmeno».
Aimo: «Non solo tranquillo, con quei due ragazzi sono al sicuro».
Essere figli di non è sempre quel gran culo che uno s’immagina, a rischio di vivere come la parte oscura di una eclissi. Fino all’età di 23 anni Stefania Moroni ha vissuto su un proscenio a distanza di sicurezza da via Montecuccoli. «Fino a quando non mi sono resa conto che ci andavo girando intorno, e ho deciso. Anzi ho scelto».
È il 1985 quando entra dalla porta principale di via Montecuccoli, con un bagaglio di studi da dietista, degustatrice di olio, appassionata dei linguaggi dell’arte, ma non a gamba tesa. L’obiettivo è chiaro: traghettare Aimo e Nadia in una dimensione contemporanea senza snaturarne l’identità. Preservare il miracolo compiuto dal padre e messo in opera dalla madre, ovvero far mangiare spaghetti e cipolla, creste di gallo con fagioli e lingua a clienti seduti fino al giorno prima in una grande table parigina. «Nell’alveo di un’idea di classicità, questo luogo era stato capace di traghettare gli ospiti in un altro mondo, scardinando i (pre)giudizi di valore fra cucina francese, quella gourmet, quella d’esperienza, e quella italiana, la cucina dei sentimenti e delle famiglie. Un riordino delle gerarchie del gusto, anzi un azzeramento», riflette a voce alta. Bisognava che tutto cambiasse perché tutto rimanesse com’era. «Per riuscirci capivo che bisognava disassare questa centralità imperniata su due nomi che sono anche due nomi propri – spiega Stefania – l’arte era una possibilità. Le contaminazioni erano l’obiettivo, per metterlo a segno bisognava uscire dalla comfort zone».
Il bar-trattoria aveva già subito molte ristrutturazioni, ma la mutazione avviene quando per mezzo di Stefania Moroni in via Montecuccoli fanno ingresso l’artista-scienziato Paolo Ferrari e l’équipe multidisciplinare del centro studi Assenza da lui fondato e diretto. Il ristorante deve diventare un’opera totale, ma non è una passata d’intonaco, un’operazione di maquillage. «Intuivo che c’era un gesto mentale affine fra quello di mio padre in cucina e quello di Paolo Ferrari, la sottrazione era il segno che guidava entrambi al compimento di un’opera, ciascuno la sua. La cucina di mio padre aveva dentro questo minus».
Un colore e una parola daranno il segno, letteralmente, del transito. L’azzurro diventa la nota dominante, un colore che in gastronomia praticamente non esiste, tranne che in certi brodetti di cavolo viola o nel pigmento shocking dei lompi alla mensa di René Redzepi. La parola è Luogo, un lemma inclusivo di “enne” stratificazioni di senso, topos letterario di spazio e tempo, finito eppure senza perimetro. Perfetto per il Luogo dei luoghi della cucina italiana. L’ultima provocazione porta la data del 1998: il logo del Luogo prende forma nelle mani di Ferrari, un PGreco ma anche un vascello azzurro che traghetta i due nomi protetti in una centralità assoluta. La data è topica. È l’anno in cui Alessandro Negrini fa il suo primo ingresso in via Montecuccoli. Ha vent’anni, rimarrà fino alla fine del 2000.
Nel frattempo, piovono pietre. Ci sono critici che dicono la loro sul mutamento in divenire con il coltello fra i denti: «Povero Aimo con quella figlia, meno male che ci sono i suoi piatti…». Ma Stefania è bersaglio mobile, ha la fibra dei Moroni, gente scampata alla fame e alla guerra. Sa quel che fa. E forse i cecchini della gastronomia scritta non sanno che quando la barca sta rischiando di andare a fondo – annus horribilis 2003: Aimo si ammala, la brigata è allo sbando, la Michelin s’accorge e non perdona: via la seconda stella – è lei a inforcare il telefono e chiamare (anzi: ri-chiamare) Negrini: «Vieni, qui c’è bisogno di te». Se è vero che la grande ristorazione italiana è tutt’uno con la storia delle grandi famiglie, è vero anche che di figli pronti alle famiglie allargate non c’è grande letteratura. Forse niente.
La telefonata di Stefania coglie Alessandro Negrini nelle cucine de Al Pescatore. Ha 25 anni, gli tremano le giunture in un moto sincrono, polsi ginocchia e gomiti. Si guarda intorno in cerca di un sostegno. Lo sguardo gli si appunta sul compagno di brigata Fabio Pisani: entrambi classe 1978. Quarant’anni quest’anno. Si dicono che per fare un Aimo, di cuochi ce ne vogliono almeno un paio. Magari loro due: allora, insieme, contavano 50 anni. L’anagrafica di Pisani-Negrini sembra cucita su misura: Lombardo di Caspoggio in Valmanenco (Sondrio), il primo, di Molfetta (Bari), il secondo: 999,6 chilometri di distanza passando per la A14. Praticamente il giro d’Italia. Come ogni singolo piatto del Luogo. Che è anche il luogo delle complementarietà, Aimo senza Nadia non sarebbe stato se stesso.
Pisani sgrana gli occhi: «Ci darebbero carta bianca? – chiede – se ci danno carta bianca, voliamo». L’incontro avviene nel 2004, in quella che in via Montecuccoli chiamano “la saletta”. Pisani-Negrini ricordano, portata dopo portata, il pranzo di quel giorno. Gli Spaghetti al cipollotto, naturalmente. Ma anche un dolce mozzafiato, Cioccolato e pere. Aimo chiede a Pisani: «Ma un brodo di gallina tu come lo fai?». Pisani: «Io non li conoscevo, se non di fama. Me ne ero andato in Francia, guardavo all’Italia e ne vedevo i ritardi. Ma mi rendevo conto che avevo per le mani l’opportunità di entrare in un luogo che aveva dentro la storia». L’11 gennaio 2005 il pugliese e il valtellinese entrano dalla porta principale della cucina del Luogo di Aimo e Nadia. Negrini: «Fabio aveva 40 di febbre, io ero reduce da un intervento a un’ernia», ridono. Uno spazio di pochi metri quadri, niente super-tecnologie, quattro cuochi allo stesso pass e un progetto in tasca: da qualche parte nei cassetti di Fabio Pisani è ancora custodito un foglio segreto, scritto a quattro mani da due venticinquenni, una lista di microprogetti da mettere a punto da lì a tre anni per compiere la missione a cui erano stati chiamati. A metà del foglio, si legge: «Entro due anni riprendiamo la seconda stella». È quel che esattamente succede, nel 2007.
Ricordano a una voce: «Sono stati sei anni di convivenza a tratti difficile. Aimo, nel suo cuore, non era pronto a cedere il passo. A volte tirava fuori il sale dalla tasca e lo buttava nelle salse». Boicottaggio? «Ha sofferto la nostra presenza quando abbiamo organizzato questa cucina come quella di un’azienda vera. Non erano più pacche sulle spalle, ci abbiamo messo la disciplina e abbiamo portato le tecniche, le cotture». Un racconto sincopato, interrotto dalle risate in la maggiore. Cecilia Todeschini, antropologa passata per un lungo pit stop nelle stanze del Luogo, li ha paragonati ai due pagliacci della tradizione circense occidentale: il Bianco e l’Augusto. «La riuscita di un numero tra clown è generato dal contrasto di queste due figure – ha scritto per Identità Golose – il primo gioca un ruolo dall’apparenza più autorevole, seriosa, precisa, a modo; il secondo appare più caciarone, estroverso, stralunato». Così Pisani-Negrini, perfettamente essenziali l’uno all’altro per la perfetta riuscita di un numero, ma mica da ridere.
«Era lui ad ammutolirci quando lo vedevamo relazionarsi con le persone, i produttori soprattutto. Da lui abbiamo imparato come si fa. Lo stesso stupore ci zittiva quando con due gesti, due, riusciva a sintetizzare un sapore che aveva in testa. La conoscenza intima, profondissima dei prodotti e un palato onnipotente, gli riuscivano come la musica nelle mani di un musicista senza scuola e senza spartito. Un miracolo». Stefania: «Mio padre non insegna ma se tu lo osservi, capisci. Ricordo con nitidezza una sera in cui sentii Alessandro strillare verso un ragazzo in cucina: adesso tu il piatto lo rifai, hai messo quell’insalata sul piatto malamente, senza cura, come puoi pensare che sia buono? Capii che era fatta!».
Il passaggio di consegne era avvenuto, per osmosi. Un travaso di profili, come nei Mielarò di Corrado Assenza, il cappero selvaggio della collina iblea candito nel miele di timo. Così Pisani-Negrini diventano consustanziali ad Aimo e Nadia. Gli scarti evolutivi si iscrivono nei singoli piatti. La Zuppa etrusca, per esempio. Un evergreen in carta dagli esordi di Aimo e Nadia, nato assai prima: da quando mamma Nunzia lo preparava ad Aimo bambino. Boccone iperproteico, zuppa da campioni che nelle mani del cuoco-patron di via Montecuccoli è diventata piatto d’autore a base di verdure dell’orto, legumi, farro della Garfagnana alle erbe aromatiche e fiori di finocchio selvatico. Una rivisitazione della Ribollita, ribattezzata Zuppa etrusca dopo la lettura delle imprese di un tombarolo toscano che scavando trovò dei cocci con residui fossili: alle analisi di laboratorio risultarono essere fagioli, legumi e cavolo nero. Con Alessandro Negrini e Fabio Pisani questa zuppa è diventata icona della maternità in tavola, vestita dell’eleganza dell’haute cuisine. Insomma, ci hanno messo le mani tre generazioni di cuochi, declinandola al presente, ciascuno il suo. Più densa in origine, più morbida poi, più minestra oggi, pronta a traguardare il futuro. E a sfidare l’idiosincrasia dell’impareggiabile Mafalda di Quino, la bimba con il mondo sulle spalle che odiava la minestra.
Pisani: «La sfida sarà quella di trasformare questo posto. Un luogo storico, un posto dove tutto è iniziato e dove rilanciare altre idee: quello che un tempo fuori era il campo di bocce, poi è diventato sala da pranzo, diventerà anche un’aula». Negrini: «La persona appassionata avrà la possibilità di vedere in presa diretta, condividere un’esperienza, adoperare attrezzature. Metteremo a frutto la lezione di Aimo, ne moltiplicheremo i discepoli». Pisani-Negrini: «Metteremo a servizio le nostre tecniche. Senza snaturare, bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga com’è. Sarà come tenere lezioni di pittura nella Cappella Sistina, ti immagini?».
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