«Sai quante volte portavo ai tavoli il mio Baccalà alla vaccinara e i commensali mi chiedevano dove fosse la vaccinara! Si aspettavano la coda, classica. Invece era una interpretazione dello spirito romano che è fatto sì di vaccinara, ma anche di baccalà. Ma andava spiegato ogni volta, sia prima sia dopo. Così adesso faccio direttamente la coda alla vaccinara!». Così, sul filo dei 40 anni – 42 in verità – Luciano Monosilio cambia rotta e cambia marcia. Lo chef, che è anche un bel personaggio (schietto, diretto, istrionico) ci aveva incuriosito, qualche tempo fa, quando in mezzo alla platea di Emergente Cuoco, stimolato da Luigi Cremona, se è uscito rivendicando: «Io la sera non lavoro più! Basta…» ma come, un cuoco come Monosilio con la sua insegna Luciano Cucina Italiana nel cuore della movida romana di Campo de Fiori, non lavora più a cena? E come fa? Tra l’altro ha anche riaperto una pizzeria a San Lorenzo, la storica Maratoneta. Così lo abbiamo chiesto direttamente a lui. Che ci racconta come da un mese la sua proposta è cambiata, profondamente, per diventare più sostenibile rispetto a una ristorazione sempre più in subbuglio e in crisi di manodopera qualificata… Oltre che in crisi di identità con il fine dining da una parte che viene subbissato di fischi e dall’altra con le trattorie che faticano a sopravvivere.
Arriviamo da Luciano Cucina Italiana dopo una giornata passata a cercare di comunicare con lo chef romano. «Eh, scusatemi… Ma io viaggio in moto e ieri ho fatto Rona Livorno e ritorno, era un po’ difficile comunicare…» Già, la sua gigantesca Harley Road Glide, quando arriviamo, è parcheggiata davanti a una delle vetrate del ristorante: è un po’ come la bandiera del Quirinale, sventola solo quando il Presidente è in sede. Così Luciano è un cucina, tra battute di Fassona e Carbonare. Allora: cosa è questo nuovo menu? «Abbiamo puntato a semplificare al massimo tutto. Fare i piatti che facevamo fino a un mese fa era diventato uno stress pazzesco: sia in cucina, dove non si riesce a trovare personale formato adeguatamente, sia in sala dove molto spesso era una fatica far capire ai clienti il senso di quei piatti, per quanto fossero comunque di cucina romana e italiana in senso classico. E poi, ho pensato che sarebbe un gran bel risultato rendere questo ristorante autonomo dalla mia presenza costante: deve poter funzionare anche da solo».
Anche a rischio di svuotare completamente l’identità di uno chef? Monosilio è un bel nome nel panorama romano: davvero si limita a carciofi in tegame e agnello al forno? «No, non vado in crisi di identità – sorride lui da dietro gli occhiali che sono ormai un accessorio parte integrante delle sue mille espressioni – Anche perché qui l’identità è la cucina italiana, la tradizione. Non ha senso caricare i piatti delle mie riflessioni ulteriori. E poi permetto a tutti i miei dipendenti di fare turni di 8 ore possibilmente non spezzati e di lavorare cinque giorni su sette, pur restando aperti tutta la settimana. Organizzando i turni e impostando un lavoro più snello sui piatti, mantenendo assolutamente la stessa identica qualità, riusciamo a ritagliarci più spazio per noi, per farci tutte le ferie, per stare con le nostre famiglie e per i nostri figli. Ho due bimbi di sei e quattro anni: erano davvero anni che non li vedevo più! Stessa cosa con mia moglie Ilaria. Non era più vita. Ero inoltre sempre stressato: perché i miei aiutanti non riuscivano a seguirmi, perché il lavoro spesso si intoppava, perché i clienti a volte non capivano… Ora invece fila tutto liscio: anche un lavorante alle prime armi come Andrea”schnauzer” Spina, che ha 33 anni ma che ha deciso solo ora, dopo un po’ di scuola, di mettersi in cucina, beh, anche lui riesce ad avere un ruolo, a stare alla pari con gli altri e soprattutto riesce a imparare qualcosa dalle basi: se avessi continuato con la cucina di prima, probabilmente sarebbe stato escluso e frustrato».
Luciano Monosilio con il suo braccio destro Filippo Bianchi
Per capire cosa significhi per un cuoco di talento “semplificazione” non possiamo toccare con mano qualche esempio concreto. «Prendi la tartare di fassona – spiega Luciano – Si chiamava e si chiama tutt’ora allo stesso modo. La materia prima è la stessa, di alto livello. Ma sono due piatti diversi! Prima c’era la battuta che veniva condita con olio sale pepe e soia e dentro ci andava la tradizionale salsa pearà, a richiamare i bolliti del Veronese, fatta col midollo, il pane, il brodo… Sopra c’era una salsa di zafferano. L’idea era in sostanza di proporre un osso buco crudo. Ma bisognava spiegare cosa fosse ed era un lavorone, sia spiegarlo che lavorarlo, quel piatto. Pensa che io pagavo 900 euro di erbette al mese, ma poi la gente le buttava. Per non parlare di quanto costasse lo zafferano di Lariano. Solo per fare la pearà ci voleva una persona fissa. Adesso invece la tartare è sempre di Fassona ma condita con olio, scalogno, senape e capperi e sopra ci va il tartufo nero fresco. Ho più che dimezzato il lavoro, ma la qualità è la stessa. E il piatto è piu comprensibile per tutti».
Le confezioni di pasta che Luciano Monosilio produce nel “pastificio” sotto al locale di Campo de’ Fiori
Eppure, Luciano non resiste. Non potrebbe! Il suo cuore, infatti, batte forte in cucina e alla fine la sua creatività, il suo bisogno di raccontarsi, di farsi mangiare, tutto questo riemerge con forza. «Alla fine, certo: se dovessi fare solo questo preferirei allora ritirarmi a vita privata – sbotta lui – Però mi rendo conto che qui la giusta formula è questa che abbiamo appena intrapreso: tradizione schietta e diretta. Vorrà dire che aprirò un altro locale. Del resto ce l’ho già!», si lascia scappare. Sua moglie Ilaria Mazzarella – che lavora con lui e scrive anche di gastronomia per Cook-ink – lo blocca: «Ma è troppo presto per parlare di questo… Lo racconteremo a suo tempo». Sì, fa con la testa Luciano, ma non resiste: «Comunque sarà lì che si potrà mangiare “l’ossobuco crudo” che raccontavo prima. Lì tirerò fuori la mia indole, la mia creatività: un locale piccolo, per pochi ospiti che potranno capire una cucina più elaborata». Ah ecco! Perché non ci credevamo che l’ex sodale di Pipero potesse decidere di fermarsi del tutto. «Vero, però è anche vero che alla fine il mio piatto bandiera è la Carbonara: chi viene qui, al 90% viene per la carbonara. È diventato un piatto che ha fatto il giro del mondo: calcola che ormai i clienti abituali per me sono diventati i turisti che tornano più e più volte. Può sembrare anche un limite, ma oggi alla mia veneranda età, credo di aver acquisito più saggezza: almeno quanto basta per capire che qui a Campo de Fiori la Carbonara è un’opportunità. Ora ho capito anche che occorre costruirgli intorno una proposta e una organizzazione del lavoro coerente e soprattutto sostenibile. Certo, i margini di crescita e di miglioramento sono certamemte ancora alti, ma devo dire che già adesso funziona tutto molto meglio. Il lavoro è più rilassato e c’è spazio per tutti. Mi pesava un po’ troppo fare il genitore apprensivo e castrante verso il mio staff». Accanto a lui Filippo Bianchi, il suo braccio destro, sorride e annuisce. «Sì, c’è più spazio per tutti. Anche per i nostri clienti».
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