In Pianura Padana si sta registrando la lenta scomparsa delle aziende agricole. Secondo un reportage pubblicato su Internazionale, la questione appare particolarmente critica in una delle zone storiche d’Italia, che si estende per una superficie di quasi 48mila chilometri quadrati. Le politiche agricole e la crisi climatica contribuiscono al declino e all’addio a un’idea di agricoltura che privilegiava la qualità e il valore del lavoro dei contadini, a vantaggio di colture intensive che compromettono il patrimonio storico e agricolo del Paese. Come riporta l’inchiesta di Internazionale, dai dati dell’ultimo censimento emerge un fatto sconcertante: negli ultimi vent’anni le aziende agricole italiane si sono dimezzate. Ma a cosa è dovuto tutto questo? E cosa sta accadendo, in particolare, in Pianura Padana?
Nel reportage di Internazionale il quadro che si delinea è quello di un lungo addio, lento e inesorabile, all’agricoltura dei piccoli produttori che continuano a praticare metodi di coltivazione e lavorazione tradizionali, capaci di offrire qualità e valore. Il rovescio della medaglia, però, è che le quantità prodotte sono molto inferiori rispetto a quelle dell’agricoltura intensiva. Sopravvivere è difficile, perché si guadagna poco: «Quando va bene, porto a casa ventimila euro», racconta un contadino produttore di riso.
A mettere in ginocchio la Pianura Padana sono state anche le continue alluvioni e la siccità che l’hanno colpita negli ultimi anni, soprattutto nella zona dell’Emilia-Romagna. Ripartire non è facile. C’è chi, per sopravvivere, ha venduto i terreni alle multinazionali, che ne hanno cambiato la destinazione d’uso installando distese di pannelli fotovoltaici.
C’è poi la questione della distruzione del paesaggio. Come emerge dall’inchiesta, non è dovuta soltanto ai danni provocati dal clima, che hanno fatto perdere terreni coltivati, ma anche a scelte urbanistiche che hanno alterato l’idea originaria di Pianura Padana. Duccio Caccioni, agronomo e direttore marketing e qualità del Centro Agro-Alimentare di Bologna (Caab), spiega nell’articolo:
«Negli ultimi sessant’anni l’Italia non ha perso solo ettari coltivati: ha perso il paesaggio. Nel 1960 le coltivazioni coprivano 20,9 milioni di ettari; oggi ne restano 12,4. Otto milioni e mezzo di ettari scomparsi: una superficie pari a Lombardia, Piemonte e Sicilia messe insieme. Di questi, 1,3 milioni – quanto tutta la Campania – sono stati letteralmente coperti dal cemento».
Un altro fattore che contribuisce a questo quadro drammatico è la PAC (Politica Agricola Comune), cioè l’insieme delle politiche dell’Unione Europea a supporto degli agricoltori. «La PAC ha avuto un ruolo fondamentale nella nascita e nel consolidamento dell’Unione Europea. Per decenni è stata l’unica politica davvero comune. E i meriti non mancano: ha garantito in pochi anni la sicurezza alimentare a un continente reduce da guerre e carestie», spiega Franco Sotte, ex professore di economia agraria.
Tuttavia, come emerge dall’inchiesta di Internazionale, «una ricerca ha stimato che, se i fondi fossero ripartiti non solo sulla base degli ettari ma anche considerando occupazione e numero di aziende, l’Italia avrebbe dovuto – e dovrebbe – ricevere circa il 46 per cento di risorse in più». Oggi, infatti, i sussidi vengono assegnati in base agli ettari posseduti: più terreno si ha, più si viene pagati. Un meccanismo che penalizza fortemente i piccoli produttori.
Eppure, lo scorso luglio la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen dichiarava: «L’agricoltura europea sarà più forte di prima», durante la conferenza stampa di presentazione del nuovo bilancio settennale dell’UE 2028-2034, che tuttavia destina alla PAC 87 miliardi in meno all’anno rispetto al piano precedente (2021-2027). Come potrà, allora, riprendersi l’agricoltura?
Duccio Caccioni sintetizza così la situazione: «Oggi l’Italia sembra muoversi su due piani paralleli: in basso, territori sovrappopolati, inquinati, caotici; in alto, montagne e colline spopolate, campi incolti, borghi abbandonati». E aggiunge: «Inesorabilmente, quelle montagne incustodite, quei territori non curati, crollano. L’urgenza sarebbe ripopolare: fare in modo che i sussidi della PAC non premino le grandi superfici, ma l’agricoltura eroica delle aree di montagna, i piccoli che presidiano il territorio».
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