«Il commercio del vino è in difficoltà». Inizia da questo assunto l’articolo firmato dal giornalista ed esperto di vino Eric Asimov sul New York Times che fa riferimento a calo dei consumi, uva lasciata a marcire sulla vite, allarmi per la salute pubblica, dazi doganali e cambiamento climatico. Poi la domanda, che anche in Italia, sta spaccando la filiera: «Come dovrebbe rispondere l’industria vinicola? Dovrebbe cambiare qualcosa o aspettare che le cose passino, sperando che si tratti di un cambiamento ciclico?».
La risposta del critico è inequivocabile: «Mi occupo di vino da oltre 20 anni e mai prima d’ora le sfide mi sono sembrate così grandi». Sfide che, a quanto pare, attanagliano sia il vecchio sia il nuovo continente, ma per cui non esiste una cura valida per tutti, anche perché, come ricorda Asimov, il mondo produttivo presenta una certa frammentazione: da una parte ci sono le multinazionali, dall’altra le moltissime piccole imprese familiari (molto più che per qualsiasi altra bevanda alcolica). «Ognuno di questi gruppi ha interessi e problemi diversi – sottolinea il giornalista – Le grandi aziende e multinazionali possono produrre ottimi vini: il gruppo Lvmh, ad esempio, possiede Cheval Blanc e Dom Pérignon. Ma sono anche le più diversificate, meglio finanziate e meno vulnerabili alle fluttuazioni dell’economia e della percezione del pubblico. Le piccole imprese familiari, spina dorsale dell’economia vinicola globale, sono le più vulnerabili e meno flessibili. Spesso sono sia custodi delle tradizioni che promotrici dell’innovazione, e sono in gran parte responsabili della diversità che rende questo un momento ideale per esplorare il vino».
Ma ci sono alcuni passi che il settore può intraprendere per garantirne la sostenibilità per i decenni a venire. In primis, semplificare l’offerta. Gli Stati Uniti (ma vale per il resto del mondo) coltivano più uva e producono più vino di quanto la gente voglia acquistare. «I consumi – ricorda Asimov – dopo essere aumentati per decenni, sono diminuiti annualmente dal 2018, fatta eccezione per un calo dovuto alla pandemia nel 2020 e nel 2021. Di conseguenza, il vino deve affrontare il peso del consolidamento». Di certo una brutta notizia per tutti i viticoltori e i produttori, ma soprattutto per le aziende che misurano il successo esclusivamente in termini di crescita. Ricorda il giornalista che negli ultimi tempi, tante «società quotate in borsa hanno venduto marchi o addirittura dichiarato bancarotta. Ma – scrive – per i viticoltori e i produttori più piccoli, i cui obiettivi sono principalmente artigianali, le prospettive forse non sono così fosche. I clienti di questi produttori potrebbero bere meno, ma sono ancora in gran parte legati al vino. Questo gruppo potrebbe dover ridurre leggermente la sua produzione, ma dovrebbe raddoppiare gli sforzi su un’agricoltura coscienziosa e sulla produzione di vini buoni e senza pretese. Questi sono i marchi e i vini che dureranno».
C’è, poi, una questione di prezzo. Secondo Asimov, i dazi sui vini europei, pensati per livellare il campo da gioco, al contrario renderanno tutto più costoso. Anche i vini prodotti in California. E «pochi giovani sono disposti a spendere più di 20 dollari per un bicchiere di vino al ristorante o 50-100 dollari a bottiglia in un’enoteca». La soluzione? «Viticoltori e produttori devono trovare modi creativi per contenere i costi, continuando a coltivare e produrre vino con attenzione. In California, ad esempio, produttori come Broc Cellars, Matthiasson, Hobo Wine Company e Monte Rio hanno tutti introdotto vini a prezzi più bassi, pur mantenendo gli elevati standard già stabiliti da questi produttori. Abbiamo bisogno di vini vivi ed entusiasmanti, che vengano venduti al dettaglio a 20-30 dollari e nei ristoranti a 10-15 dollari al bicchiere e a 40-50 dollari a bottiglia». Dal canto loro, anche ristoranti e rivenditori devono fare la loro parte, evitando di aumentare i prezzi (tema molto dibattuto anche in Italia). «Servire solo i ricchi può generare profitti a breve termine, ma ucciderà il settore. Renderlo più accessibile ai giovani contribuirà ad assicurare un pubblico costante».
Quando si parla di consumatore di vino, non bisogna dimenticare che, in realtà, si parla di diversi gruppi di consumatori con esigenze e abitudini differenti. La maggior parte, infatti, non è interessata a come viene prodotto un vino, da dove proviene, alle annate o all’estetica; vuole solo un vino dal buon sapore e a buon prezzo. «Apprezza il vino – sottolinea Asimov – ma non è legato ad esso e potrebbe sostituirlo con seltz, cocktail premiscelati o cannabis se fossero più economici e altrettanto piacevoli».
Da qui, la critica del giornalista verso un mondo e un linguaggio troppo elitari. «Il vino deve essere reso più invitante. Nessuna pratica ha ucciso i wine bar americani come la loro insistenza nel cercare di istruire persone che vogliono semplicemente bere vino per divertirsi. Nessuno spiega come funziona una chitarra elettrica prima di un concerto. Lasciate che chi vuole essere istruito venga da voi. I migliori wine bar, come il Frog a Brooklyn e l’Easy Does It a Chicago, sono sempre pronti a fornire informazioni, se richieste, ma non le impongono mai senza che siano richieste. E sono pieni di quel pubblico di giovani che il vino cerca di attrarre».
«Nessuna soluzione risolverà magicamente i problemi del vino – conclude – Ma se l’industria riuscirà a concentrarsi su ciò che il vino sa fare meglio senza pretese – offrire piaceri emotivi e intellettuali, accompagnare i pasti e valorizzare le occasioni sociali – contribuirà a consolidare il suo posto in tavola per gli anni a venire».
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