In fondo al mare

"Il mare è in sofferenza, e continuiamo a ignorarlo". Intervista a Eugenio Signoroni, autore di un grande libro sul pesce

Parla Eugenio Signoroni, scrittore e studioso delle tradizioni marinare e della pesca. Ci spiega come è cambiata la cucina di mare

  • 22 Agosto, 2025

Sognava di fare il cuoco e invece è finito nell’editoria. Non è quanto si aspettasse da piccolo, ma oggi Eugenio Signoroni rappresenta una delle voci più influenti nel panorama enogastronomico. Cura da anni la guida Osterie d’Italia di Slow Food, oltre a essere protagonista di vari podcast di successo. E per quanto continui a definirsi un umile scribacchino, il docente dell’università di Pollenzo riesce a sfornare lavori interessanti come Fresco, ultima pubblicazione attraverso cui esplora il mondo ittico.

Una lunga ricerca sui mari e sulla pesca

L’elaborazione di Signoroni ha richiesto mesi e mesi di approfondimento sul mare e sugli esseri che lo abitano. Dalla ricerca, condotta insieme a Gennaro D’Ignazio, cuoco e oste di Vecchia Marina a Roseto degli Abruzzi, è nato un libro da poco in libreria: “Fresco, conoscere, scegliere, cucinare il pesce”. Un insieme di dettagli sul pesce che abbiamo cercato di scoprire insieme a lui.

La prima domanda è facile, per un consumatore: non c’è un paradosso nell’andare al mare per mangiare pesce fresco e ritrovarsi nel piatto prodotti ittici surgelati e fuori stagione? «Il mare è soggetto a un’idea stereotipata di cucina – spiega Signoroni – In località balneari si vuole vivere questa sensazione di mangiare il mare che si ha di fronte. Poco importa che il pesce provenga davvero dalle acque circostanti o che ne venga servito uno surgelato, pescato chissà dove».

E le responsabilità di chi sono?

Sia dei ristoratori che dei clienti. Da un lato, non si ha la minima consapevolezza: si ragiona come se il mare fosse una risorsa infinita, sempre disponibile come un acquario da cui attingere con un retino; mentre esistono le stagioni, i periodi in cui non si possono pescare determinate specie (fermo pesca). Dall’altro, si asseconda la richiesta di chi vuole mangiare pesce tutto l’anno, al pari di chi desidera le fragole pure a Natale: tant’è che l’assenza di alcuni pesci dal menu viene percepita dal cliente quasi come un disservizio del ristorante. Oggi, il mercato globalizzato presuppone un “mare ideale”, di cui disporre dove e quando vuoi.

Si continua a ignorare la stagionalità del pesce. Com’è possibile?

Abbiamo perso il contatto con la produzione, la raccolta e la “caccia”. Viviamo in una società che non si rende conto che i cicli di vita sono complessi. Dunque, c’è un problema di stagionalità in generale. Per tutto. E per qualche strano motivo il pesce riveste nel nostro immaginario un ruolo diverso rispetto al resto degli esseri viventi: ci sembra meno animale. Come suggeriscono i cartoni animati nei quali viene mangiato da altre specie.

I fermi pesca così pianificati sono in grado di contrastare il depauperamento dei nostri mari?

Non ho le competenze di un biologo marino, ma mi sento di dire che lavorando con Gennaro D’Ignazio di Vecchia Marina (nelle foto con Signoroni, n.d.r.) mi sono reso conto che il fermo pesca rispecchia una sorta di compromesso fra le necessità del mare e quelle del mercato. Quindi probabilmente qualche falla ce l’avrà. D’altronde, non si basa tanto sulla stagionalità naturale del pesce, quanto piuttosto su quella intesa in rapporto all’uomo: pescare è vietato nei momenti in cui ci sembra più sensato.

Da cosa passa il consumo consapevole di pesce?

Sensibilizzare il consumatore significa dirgli la verità: il mare è in sofferenza. Lo abbiamo stressato e stiamo continuando a farlo. A questo si aggiungono l’aumento delle temperature che complicano le fasi riproduttive degli esemplari e l’arrivo di specie aliene che mettono in difficoltà quelle presenti. Va raccontato poi che alcuni pesci sono meno di prima e che dunque dovremmo mangiarne in minor quantità. In quest’ottica il consumo consapevole passa dalle specie povere o neglette, ma anche attraverso una pesca più attenta. Come scriviamo nel libro Fresco, dall’approfondimento delle tecniche di pesca deriva la maggiore conoscenza del mare: si apprende che più il metodo è rispettoso e più il pescato preserva la propria qualità. Esiste infatti un legame diretto fra bontà del prodotto e invasività della tecnica.

C’è qualcosa che può essere migliorato nella comunicazione?

Non è sufficiente dire che il pesce fa bene perché fonte di Omega-3. È più complicato di così. Andrebbe spiegato che non fa bene mangiare grandi esemplari che contengono percentuali significative di piombo o altri metalli. Nemmeno i salmoni da allevamento intensivo e lo sgombro lasciato troppe ore sul banco del supermercato, che probabilmente presenta livelli elevati di istamina. Bisognerebbe consumare meno e scegliere con più attenzione. Il problema è che un messaggio del genere non farebbe un gran servizio alle aziende che gestiscono stock ittici su larga scala.

Le certificazioni hanno un impatto reale sulla sostenibilità o sono solo accessorie alla vendita?

Mi sembra che dei passi in avanti siano stati fatti. Il packaging ne è una dimostrazione. Credo però che oggi un approccio industriale alla pesca non sia più sostenibile. E tutte queste certificazioni, che interessano soprattutto i grandi pescherecci, vanno di pari passo con una visione industriale del mondo ittico.

Ci svela qualche segreto per riconoscere il pesce fresco al momento dell’acquisto?

Non ci sono segreti. Diciamo che vanno considerati alcuni dettagli, che sono più o meno complicati da analizzare a seconda del tipo osservato. Per la pescatrice ad esempio può risultare difficile visto che spesso è venduta spellata o solo nella parte della coda. Sono comunque importanti il colore, la lucentezza, la turgidezza (o integrità), la vivacità e forma dell’occhio (se “incassato” non è fresco). Ma la freschezza non è l’unico aspetto di cui ci dobbiamo preoccupare. Rileva anche il modo in cui è stato conservato una volta pescato, fondamentale per bloccare il deterioramento cui va incontro dopo la morte. In tal senso la bocca aperta dei naselli è un buon segnale. Così come i riflessi luminescenti, quasi verdognoli, nella seppia. E pure nel maccarello.

Tra frollature e maturazioni la ricerca dell’alta cucina si è spinta oltre i concetti di freschezza e iodato…

Qualsiasi sia il trattamento applicato al pesce, si deve iniziare sempre da una materia prima di massima freschezza e integrità. Come la maturazione abbia trasformato il complesso gusto-olfattivo ancora non l’ho pienamente compreso. Personalmente, trovo che sul crudo porti a uniformare e standardizzare le percezioni sensoriali. Anche a livello di texture. Nel caso invece della cottura post maturazione riconosco che esca fuori una maggior concentrazione di sapore, cosa che rende certe specie più interessanti. Una tesi sostenuta dallo chef Josh Niland. Ma è ovvio: con la frollatura il prodotto perde acqua, vengono meno le note iodate e risaltano altre proprietà organolettiche.

In pescheria e al ristorante il pesce ha prezzi tendenzialmente alti. Quali sono le ragioni?

I fattori possono essere tanti. Dipende pure dal contesto considerato, se il luogo è prossimo o meno al mare. In generale, incide il progressivo spopolamento del Mediterraneo. All’asta di Civitanova Marche i pescatori mi hanno fatto notare che rispetto a quindici anni fa il quantitativo di merce scaricata ora è inferiore. Senza contare che ci sono periodi in cui sopraggiunge la penuria di determinate specie. Per una materia prima che richiede il “freddo” pesa moltissimo pure l’aumento dei costi energetici.

Ma in tutto questo i ristoratori se ne approfittano?

Al netto di un rincaro post-Covid, oggi ci si imbatte in prezzi che risultano poco giustificabili. E secondo me qui entra in gioco la professionalità del singolo: saper gestire o no (il food cost). Sta al ristoratore trovare un equilibrio fra prodotti pregiati e meno nobili di modo che il cliente paghi una cifra per cui resti soddisfatto.

Negli anni è cresciuto il modello delle risto-pescherie. Che ne pensa?

Mi sembra una formula intelligente, vantaggiosa per tutti: come imprenditore riesci a fare margine in modo più semplice attraverso la proposta di pesci meno conosciuti e più ostici da preparare a casa (magari spaventano per le molte spine), e che diversamente non venderesti con la stessa efficacia; per il cliente il prezzo è totalmente accessibile perché c’è una gestione diretta di chi propone dopo aver già acquistato all’ingrosso. A Torino c’è Pescheria Gallina che fa un fritto straordinario, un’opzione perfetta per chi ama la frittura ma teme di impuzzolire casa.

Nel suo libro insiste sull’importanza della catena del freddo…

Garantire la catena del freddo è fondamentale per preservare la qualità del prodotto. Se con il caldo vogliamo uscire a comprare del pesce dovremmo portarci dietro una borsa frigo con dei ghiacci in cui riporlo nel tragitto fino a casa. Altrimenti stiamo spendendo un sacco di soldi per qualcosa che rischiamo di non valorizzare. La temperatura diventa essenziale anche per tutelarci da eventuali problemi sanitari, anisakis o no (parassita frequente nel pesce azzurro). Per mangiare pesce crudo bisogna assicurarsi che sia stato abbattuto in pescheria, oppure con il freezer di casa per un tempo sufficiente a escludere qualsiasi rischio per la propria salute. I ristoranti comunque hanno l’obbligo per legge di abbattere i prodotti, crostacei inclusi. Anche perché, quando si tratta di anisakis, non si possono ignorare le statistiche: è presente nel 90% dei pesci sciabola (ma non solo).

Specie ittiche sopravvalutate in termini di gusto?

Branzino e orata. Pesci “facili”, spesso di allevamento. Ora mi stanno venendo in mente quelli sottovalutati: la gallinella, tra i più grandi pesci che ci siano per bontà, profondità e consistenza; pure lo scorfano, straordinario pesce da zuppa, griglia e frittura, e che adesso si sta rivalutando nell’ambito della ristorazione. L’altro è il merluzzo, considerato solitamente pesce d’ospedale o da mangiare quando non si sta bene. Invece, si fa apprezzare per la peculiare delicatezza delle sue carni. Caratteristica che forse non lo rende adatto alla maturazione.

Falsi miti ed errori comuni?

È un falso mito che il merluzzo non sappia di niente. Oppure, che la triglia puzzi. L’odore forte si palesa nei casi in cui non è stata pescata con attenzione e conservata a dovere. Tra gli errori penso a quelle volte in cui torniamo a casa e buttiamo il pesce in frigo, proprio come ce lo hanno consegnato in pescheria. Eppure, nella maggior parte dei casi, andrebbe messo all’interno di un contenitore che consenta lo sgocciolamento dell’acqua che rilascia durante la sua conservazione. Mentre in cucina badiamo poco alle temperature. Nel caso di pesci grassi, per esempio, forse è meglio una cottura delicata che consenta al grasso di sciogliersi mantenendo succose le carni. Dovremmo essere un pochino più adattivi e meno dogmatici.

Da Nord a Sud, potremmo tracciare delle differenze culinarie?

Difficile schematizzare una tale eterogeneità. Guardando la Toscana, mi vengono in mente l’uso del pomodoro e la concentrazione dei sapori. Ma poi uno dei migliori cuochi toscani, Zazzeri, faceva della pulizia la sua cifra stilistica. E potrei fare altri esempi. Sto assistendo purtroppo alla continua crescita dei crudi, una tendenza assolutamente contemporanea e non riconducibile alla nostra cultura, se non a piccolissime aree. Peraltro, sarà banale da dire, ma il crudo necessita del freddo artificiale. E il freddo artificiale è una conquista recente.

Sale sul pesce. Sì o no?

Sono del partito meno sale possibile; quello che serve a valorizzare, ma non ad aggiungere (offuscando la sapidità naturale della materia prima). Sposo la linea purista di Gennaro D’Ignazio. Nella sua cucina praticamente non se ne usa, a meno che il pesce non debba essere velocemente sbollentato. Lì si adopera, ma per limitare la perdita di quello dentro al pesce.

Una ricetta marinara sconosciuta o che meriterebbe maggiore considerazione?

Non conoscevo le cannocchie soffocate con l’alloro. Preparazione di una straordinaria semplicità, che abbiamo voluto raccontare nel libro. Mentre andrebbe fatto un lavoro più approfondito sul grande piatto del Mediterraneo, che si chiami zuppa, brodetto o caciucco. Si potrebbe estendere la ricerca territoriale a quella tecnica e di ricostruzione della memoria gustativa.

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