Patriarcato

Perché per secoli è stata vietata alle donne la cucina professionale. Una storia di pregiudizi e superstizioni

Donne da sempre relegate alla cucina domestica come serve, ma lo chef è maschio. Una storia antica che per fortuna sta finendo

  • 20 Settembre, 2025

Le difficoltà delle donne a emergere nella cucina professionale – ben attuali anche oggi, come evidenziato dalle dichiarazioni e accuse di chef donne come Cristina Bowerman e Chiara Pavan – affondano le radici in antichi tabù e credenze culturali legate al cibo e al corpo femminile. In molte tradizioni, alla donna venivano precluse determinate preparazioni gastronomiche in quanto erano ritenute “impure” o inadatte per motivi fisiologici. Per esempio, nella cultura popolare italiana sopravvivono diverse superstizioni secondo cui una donna durante il ciclo non può maneggiare alcuni cibi: c’è chi crede che la pasta non lieviti, il vino diventi aceto o la maionese impazzisca. Analoghi divieti folklorici riguardavano gli alimenti conservati e fermentati come conserve, salumi e formaggi. E c’è chi pensa che la fatica non sia adatta a una donna. Pensiero, questo, che viene smontato però passo dopo passo da una grande chef come Jessica Rosval, neo-stella Michelin Al Gatto Verde di Modena.

Stereotipi e superstizioni patriarcali

Si tratta di superstizioni fortemente radicate nel pensiero occidentale che derivano da un’errata comprensione dei fenomeni fisiologici e dalla loro natura “magica” e contaminante. Già Plinio il Vecchio nella sua Naturalis historia elenca una serie di disgrazie che hanno a che fare con il mondo alimentare, ma non solo: “All’arrivo di una donna mestruata il mosto inacidisce, toccate da lei le messi isteriliscono, muoiono gli innesti, bruciano le piante dei giardini; dove lei si siede i frutti cadono, dagli alberi, al solo suo sguardo si appanna la lucentezza degli specchi, si ottunde il ferro, si oscura la luce dell’avorio, muoiono le api degli alveari, arrugginiscono istantaneamente il bronzo e il ferro e il bronzo emana un odore terribile”.
Ma i preconcetti nei confronti delle donne in cucina non finiscono qui. L’agronomo bolognese Vincenzo Tanara nella sua Economia del cittadino in villa del 1644, avverte il lettore di guardarsi dalle donne in cucina perché sono “vinolente [ubriacone], malediche, ò streghe”. L’autore inoltre le definisce ladre, sporche e poco intelligenti: “L’havere à paragonare la intelligenza ordinaria d’un huomo con quella della donna, è ingiuria grande al nostro sesso”.

A metà ‘800 donne in cucina solo il 2%

Oggi una posizione del genere sarebbe ridicola, ma all’epoca rappresentava un’opinione comune, rilevata anche dalle statistiche. Tra i pochi dati certi che possediamo, esiste un censimento della città di Bologna del 1796 dove non compare neppure una cuoca di sesso femminile. Allo stesso modo, negli Status Animarum della parrocchia bolognese di San Giovanni in Monte, le donne “cuciniere” sono praticamente assenti, arrivando appena al 2% a metà dell’Ottocento. Solo da questo momento i numeri iniziano ad aumentare e nei primi anni del Novecento raggiungono le percentuali dei colleghi maschi.
Tutto ciò non significa però che non ci fossero donne ai fornelli, ma “solo” che il loro status era servile e la cucina rappresentava solo una delle incombenze domestiche. Nello stesso periodo ai vertici della società i cuochi erano uomini. Per secoli si è registrata una precisa separazione tra la donna che si occupava della cucina casalinga e l’uomo che invece rivestiva un ruolo professionale.
Questa situazione era particolarmente sentita in Italia e in Francia, dove le élite si avvalevano di cuochi maschi, proprio per rimarcare la distanza sociale da chi poteva ricorrere solo al lavoro femminile in cucina. In Inghilterra e in Germania la situazione era un po’ diversa per via della composizione sociale dell’aristocrazia, formata da una piccola nobiltà terriera che non subiva l’influenza esercitata dalla corte reale francese o dalle corti italiane di stampo rinascimentale.

Ricettari di donne: compaiono solo nel ‘900

Uno dei riflessi di questa situazione si avverte nella comparsa di ricettari scritti da donne. In Italia il primo libro di cucina del genere è datato 1900 e si deve a Giulia Ferraris Tamburini che lo intitola Come posso mangiar bene? In cui l’autrice rompe un vero e proprio tabù che si era protratto fin troppo a lungo nella realtà italiana, una delle più arretrate sotto questo punto di vista.
All’estero la situazione era diversa, in particolare in Germania dove si registrano autrici di manuali di economia domestica e ricette fin dal XVI secolo e dove il primo libro dato alle stampe da una donna è Ein köstlich new Kochbuch, scritto da Anna Wecker nel 1597. In l’Inghilterra è invece Hannah Wolley che inaugura il genere con The Queen-Like Closet nel 1670.
Bisogna aspettare quasi un secolo perché in Francia compaia un ricettario espressamente “dedicato” alle donne, ma il fatto che sia scritto da un uomo la dice lunga sul clima che regnava Oltralpe. Si tratta di La Cuisinière bourgeoise di Menon pubblicato nel 1746, un vero best seller del suo genere. In Italia la situazione non è molto diversa e il primo libro dedicato alle donne in cucina è la Cuciniera piemontese del 1771. L’opera è anonima, come succedeva spesso per i ricettari dell’epoca, ma quasi certamente la mano è maschile.

Brigata di cucina: il modello francese

Sono gli anni in cui la Francia detta legge in materia di bon ton su tutta Europa e chiunque volesse distinguersi in società era costretto a rifarsi alle mode gastronomiche parigine, anche riguardo alla composizione del personale impiegato ai fornelli.
La più grande rivoluzione, che si riverbera tutt’ora nell’alta cucina internazionale, sarebbe arrivata verso la fine dell’Ottocento grazie a uno dei più grandi chef di tutti i tempi: Georges-Auguste Escoffier. Ex cuoco militare, mise a punto il moderno sistema di brigata di cucina proprio ispirandosi alla struttura gerarchica dell’esercito. Il modello era quindi l’istituzione più maschilista della società occidentale, presa a riferimento per aumentare l’efficienza e l’ordine in cucina, riducendo le ridondanze e definendo con chiarezza i ruoli del personale. L’innovazione delle mansioni si era resa necessaria negli ambienti di alta ristorazione alberghiera, dove potevano essere coinvolte contemporaneamente fino a 60 o 80 persone durante il servizio. Anche nelle cucine di corte esisteva una chiara divisione dei compiti: c’era un dispiego di addetti anche maggiore, ma le nuove mode di servire a tavola introdotte nell’Ottocento richiedevano l’uscita simultanea di molti piatti espressi, aumentando le difficoltà organizzative in cucina e in sala.
Al vertice della catena di comando della brigata di Escoffier si trova lo chef de cuisine (executive chef), considerato il “generale” della cucina, affiancato dal sous-chef. Subito sotto si collocano gli chefs de partie, o capi partita, ciascuno responsabile di un’area specifica: saucier (salse e saltati), rôtisseur (arrosti), poissonnier (pesce), garde manger (piatti freddi), pâtissier (pasticceria), e così via.

Regime militare, cultura machista

Questa struttura organizzativa ha avuto il pregio di portare efficienza e ordine nelle caotiche cucine d’anteguerra, ma era il risultato di una cultura dura e machista. Storicamente lo chef (che in francese significa “capo”) si sentiva legittimato a comportarsi come un “sergente istruttore”, e non disdegnava i metodi più duri per tenere in riga i suoi sottoposti. Nei grandi ristoranti del Novecento si diffonde così un clima di disciplina esasperata, con ritmi durissimi e punizioni umilianti per chi sgarra. Insulti urlati, pressioni psicologiche e vere proprie vessazioni erano considerati metodi formativi accettabili: i nuovi arrivati venivano spesso sottoposti a rituali tipici del nonnismo militare per “temprare” il loro carattere.
Le donne, quando presenti, finivano spesso relegate ai gradini più bassi della gerarchia, subendo un trattamento se possibile ancor più duro dei colleghi maschi, dovendo costantemente dimostrare di essere all’altezza del loro ruolo in un ambiente che le presumeva incapaci o poco competitive in partenza.
Non stupisce dunque che le brigate, organizzate sul modello di caserme militari, fossero percepite come ambienti ostili e discriminatori dalle poche donne che vi si avventuravano.

Sushi da sempre vietato alle donne

Le cucine francesi non sono le uniche in cui si ha sempre regnato un clima vessatorio nei confronti del sesso femminile. Un caso emblematico è rappresentato dai ristoranti di sushi giapponesi, dove storicamente le donne non erano ammesse. Come in Europa, la diffidenza era basata su una serie di pregiudizi come quello del calore delle mani che impediva di preparare correttamente il pesce crudo. Sebbene sia stato completamente confutato dalla scienza, fino a tempi recenti nei tradizionali ristoranti di sushi giapponesi la presenza di donne dietro al bancone era praticamente nulla. La plateale diffidenza verso il sesso femminile è stata confermata qualche anno fa dal figlio maggiore del leggendario maestro di sushi Jiro Ono, reso celebre dal documentario Jiro Dreams of Sushi. In un’intervista rilasciata al Wall Street Journal nel 2011, Yoshikazu Ono ha esplicitamente ammesso l’idea sessista: «Il motivo è che le donne hanno il ciclo mestruale. Essere un professionista significa avere un gusto costante nel cibo, ma a causa del ciclo mestruale, le donne hanno uno squilibrio nel senso del gusto, ed è per questo che non possono essere chef di sushi».
Nonostante un pregiudizio secolare, negli ultimi anni stanno emergendo diverse donne nel campo del sushi, ma per ottenere il giusto riconoscimento, a volte devono allontanarsi dal Giappone. È il caso di Chizuko Kimura, la prima chef donna di sushi a ricevere una stella Michelin nel 2025 per il suo “Sushi Shunei”, il piccolo ristorante minimalista con soli nove coperti situato nel quartiere parigino di Montmartre.

Cucina e sartoria: due mondi contigui

In molti casi, ancora oggi nel campo dell’alta cucina è richiesta una dedizione totalizzante al proprio lavoro. Orari estenuanti, turni serali e festivi, trasferte, nessuna flessibilità per maternità o impegni personali. In poche parole, per raggiungere la vetta culinaria bisogna spesso sacrificare la vita privata. Un impegno che mal si concilia con il ruolo del cucinare che, tradizionalmente, la società ha assegnato alle donne.  Sembra quindi esserci una contraddizione interna al mondo della cucina: è dominato da una fortissima tradizione al femminile nel contesto domestico e popolare che però non si traduce in pari opportunità ai vertici della ristorazione. Ma la cucina non è l’unico caso. Il campo più affine è quello dell’alta moda, dove la sartoria è storicamente una mansione femminile, svolta dalle donne in ambito domestico o di basso profilo, mentre i grandi couturier storici (Chanel esclusa) sono quasi tutti uomini: da Dior a Saint Laurent, passando per Armani, Valentino, Ferrè… La differenza è che tra il mondo della sartoria e quello della moda c’è un’osmosi molto maggiore ed esistono casi di successo dove le donne si sono imposte tra le grandi firme come Krizia, Laura Biagiotti e più recentemente Maria Grazia Chiuri. Ancora oggi però i ruoli apicali maschili sono in netta maggioranza, nonostante il mondo della moda si rivolga soprattutto a un pubblico femminile.

Mondo in evoluzione e nuove sensibilità

Non mancano – e per fortuna – i segnali di un’evoluzione in atto nell’alta cucina dove i riconoscimenti alla capacità delle donne sono sempre più frequenti e sta lentamente regredendo il pregiudizio secolare nei loro confronti.
Innanzitutto, negli ultimi anni si sono moltiplicate le iniziative per rendere le cucine più inclusive e sostenibili come ambiente di lavoro. La vecchia guardia degli chef-patriarchi urlanti sta andando in pensione, sostituita da una nuova generazione più attenta al rispetto e al benessere del team. Il fatto stesso che si parli così tanto della questione di genere nella ristorazione è indice di una nuova sensibilità.

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